di Michele Carozza
Oltre l’80 per cento del capitale azionario mondiale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti. Questo dato empirico risultante dall’osservazione scientifica delle ramificazioni del capitale a livello mondiale, sembra essere la prova di quella legge di tendenza alla concentrazione del capitale, teorizzata da Marx, per cui nella lotta per la conquista dei mercati il grande capitale fagocita quello piccolo, in un processo di continua ed inesorabile monopolizzazione: “a lungo andare, la concorrenza capitalistica crea il suo esatto opposto”. Nell’ultimo libro di Brancaccio, Democrazia sotto assedio, edito da PIEMME, questa legge, attualizzata, diventa la chiave di lettura dei processi complessi che segnano la nostra epoca. A questa enorme concentrazione di potere economico corrisponde una sempre maggiore subordinazione del potere politico, con lo svuotamento della democrazia, anche nella sua forma liberale, e il suo assoggettamento agli interessi di un’unica classe. Dunque la tendenza alla centralizzazione definita da Marx non è solo economica ma anche politica, “plasma a sua immagine l’intero sistema dei rapporti in cui viviamo” – e risulta tanto più evidente in concomitanza delle crisi, quando sembra addirittura accelerare.
All’origine delle disuguaglianze crescenti che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni, della divaricazione della forbice tra ricchi e poveri e dell’iniqua ripartizione della ricchezza prodotta tra capitale e lavoro, questa immane concentrazione di potere economico coincide sul piano politico con quel divorzio tra capitalismo e democrazia da più parti annunciato.
Nonostante il fallimento della teoria economica dominante, incapace di prevedere le crisi finanziarie, la tendenza alla centralizzazione dei capitali in sempre meno mani, con le sue conseguenze nefaste sulla politica e sulla società, è paradossalmente rimasta fino ad oggi al di fuori del dibattito pubblico. Che invece viene strumentalmente indirizzato alla polarizzazione intorno ad altre categorie: la lotta tra sovranisti e globalisti, tra populisti e tecnocrati, è in realtà la lotta tra il “piccolo” capitale nazionale in affanno e il grande capitale globale protagonista dei processi di centralizzazione e orientato al libero scambio. Una lotta tutta interna alla classe capitalista che espelle dalla rappresentanza e dalla dialettica democratica l’intero mondo del lavoro. Non è un caso quindi che le istanze e le rivendicazioni del lavoro, nelle cosiddette democrazie avanzate, siano del tutto zittite. O che l’azione dei governi ci sembri sostanzialmente la stessa chiunque vada al potere, le destre o le sinistre, i democratici o i repubblicani, i progressisti o i conservatori. O che le parti apparentemente in lotta si ritrovino improvvisamente insieme e prendano le stesse posizioni nei frangenti decisivi – mentre scriviamo, l’ordine del giorno presentato dalla Lega per l’aumento delle spese militari è stato approvato a larghissima maggioranza, votato da Pd, FI, Iv, M5s e FdI.
Il metodo di Brancaccio è marxista, scientifico, non ideologico, impegnato nella critica dell’esistente. Un programma di ricerca delle leggi generali del movimento del capitale. Nelle cinquanta “brevi lezioni di politica economica”, che costituiscono la parte iniziale e più corposa del libro, i singoli fatti di cronaca presentati ci conducono a riconoscere le cause nascoste e gli effetti catastrofici dell’enorme concentrazione di potere economico e politico. Ma sono anche l’occasione per illustrare un metodo, per sviluppare un pensiero critico, fuori dai luoghi comuni e dalle semplificazioni funzionali alla conservazione del sistema capitalista, caratterizzato da disuguaglianze e inefficienze ormai intollerabili – non già perché moralmente esecrabili ma piuttosto in quanto disfunzionali rispetto allo sviluppo della struttura economica e alla tenuta del vivere civile. Dalla singola vicenda economica o politica
è allora possibile tentate di capire il funzionamento della nostra società, problematizzare ciò che invece viene rappresentato come naturale, ineludibile (e perciò fuori discussione) dalla versione ufficiale dei media, smascherare la propaganda spacciata per informazione e le superstizioni per inconfutabili verità scientifiche, rivelare la lotta tra interessi e classi dietro avvenimenti apparentemente privi di contraddizioni. In questo l’opera di Brancaccio è davvero anti-ideologica, capace di smontare le narrazioni dominanti nel dibattito pubblico mettendole a confronto con le evidenze scientifiche, da cui vengono smentite. Vengono così alla luce quelle verità disturbanti che permettono di bucare il panglossismo propinatoci dal mainstream di un mondo florido e pacificato dal capitale e che consentono di acquisire una maggiore consapevolezza di quanto invece accade nella realtà.
Vale la pena portare ad esempio le crisi finanziarie, cui sono dedicate le lezioni del primo capitolo I giochi del capitale. È opinione comune che le nostre istituzioni cerchino di correggere gli squilibri del capitalismo, ad esempio ostacolando la concentrazione dei capitali e la monopolizzazione dei mercati con politiche di antitrust. Il problema è che queste politiche risultano del tutto inadeguate allo scopo, per il semplice fatto che vengono attuate da anni senza che la tendenza, che si propongono di contrastare, sia stata minimamente scalfita. Ecco allora che la loro funzione ci appare per quello che è: un tentativo di convincerci della capacità del sistema di autocorreggersi – e che le istituzioni democratiche siano ancora in grado di controllare la bestia capitalista. Allo stesso modo, fa parte del senso comune l’idea che le crisi finanziarie dipendano dai comportamenti fraudolenti di pochi attori criminali. Ma anche in questa circostanza, poiché i casi di banchieri accusati e condannati sono rarissimi, tale convincimento serve a coprire il carattere decisamente destabilizzante della realtà dei fatti: che i reati finanziari non sono all’origine delle crisi globali e “i disastri finanziari avvengono nel pieno rispetto della legge” – e che in verità il mercato e l’intero sistema capitalistico sono del tutto irrazionali. Così anche la fede nei mercati che spontaneamente tendono all’equilibrio (guidati dalla famosa mano invisibile) vacilla sotto l’evidenza della realtà oggettiva. Le crisi, non solo economiche ma anche politiche, sono immanenti al capitalismo.
Eppure nella tendenza alla concentrazione e al monopolio, le stesse forze del capitale potrebbero in realtà lavorare per il proprio superamento – potrebbe tornare attuale la previsione di una classe borghese che produce i suoi becchini. Occorre “verificare se la tendenza alla concentrazione dei capitali possa portare con sé […] una tendenziale convergenza dei salari e delle condizioni di lavoro delle popolazioni dei diversi paesi”, convergenza necessaria alla costruzione di una nuova coscienza collettiva di tipo internazionalista. I dati, almeno quelli disponibili per i paesi OCSE – tasso di sindacalizzazione, ammontare degli scioperi, norme a protezione del lavoro, ore di lavoro pro capite, quota salari sul pil – sembrano confermare una sostanziale uniformità nel peggioramento delle condizioni del lavoro, negli ultimi trent’anni. Questo scenario se da un lato segnala l’aggravarsi delle divaricazioni sociali, dall’altra apre alla possibilità di un rinnovato internazionalismo del lavoro: “in una impersonale eterogenesi dei fini, mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico”.
Pianificazione collettiva, repressione della finanza, social standard sui movimenti internazionali di capitale possono allora diventare gli strumenti del controllo pubblico delle relazioni economiche internazionali, dell’economia di piano da contrapporre al caos e agli squilibri del capitalismo neoliberista. E anche se queste proposte, avanzate nel libro, possono apparire ancora deboli e lontane sul piano politico o difficilmente praticabili – ed è forse questa una conferma della potenza del processo di concentrazione descritto e della sua capacità di imporre un pensiero unico apparentemente senza alternative e privo di contraddizioni – rimangono comunque la forza della tesi, delle argomentazioni e del metodo, capaci di sollevare il dubbio sul racconto egemone, primo passo verso un rinnovato protagonismo del lavoro nella lotta per l’emancipazione del genere umano.
Insomma la vecchia talpa scava ancora e scava bene. Ed ogni tanto fa capolino, a smentire quelli che la davano per morta.
Unisciti al nostro canale telegram