di Fabio Raimondi | da il Manifesto
La lotta di classe c’è ancora. A dire il vero non è mai sparita, tanto meno negli ultimi trent’anni, solo che è condotta prevalentemente dall’alto, nonostante il processo di «proletarizzazione» in corso. Mentre lavoratori dipendenti e pensionati salvano gli Stati e il welfare coprendo forzatamente i buchi di bilancio che manager e politici inetti hanno prodotto attraverso investimenti fallimentari e politiche regressive, le classi dirigenti attuano la ridistribuzione del reddito dal basso verso l’alto!
Per riprendersi il potere contrattuale che la working class (le classi operaia e media) aveva conquistato con le lotte degli anni ’60 e ’70, la «classe capitalistica transnazionale» ha lanciato una controffensiva chiamata globalizzazione, il cui asse portante è la finanza. Per chi, intossicato da mantra della scomparsa delle classi, volesse convincersene, può leggere l’intervista di Paola Borgna a Luciano Gallino: La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza 2012, pp. 214, 12), dove si forniscono dati scientifici per l’analisi di classe, dando corpo all’assunto che la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia sono state condotte in chiara funzione antioperaia.
Il testo ha il merito di sfatare alcuni luoghi comuni; ad esempio, che la politica sia «sopraffatta» dall’economia e dalla finanza, favola propagandata di comune accordo, dato che sono state scelte politiche «a spalancare le porte al dominio delle corporations» attraverso leggi che ne hanno favorito le pratiche speculative; leggi promulgate grazie al continuo scambio di personale tra apparati politici degli Stati e personale tecnico proveniente dalle organizzazioni economico-finanziarie. L’imponente battage pubblicitario, prodotto dai «pensatoi» come il forum di Davos, ha poi divulgato l’ideologia delle due i, «individuo e impresa», in tutto il mondo grazie a una disponibilità di mezzi di comunicazione che surclassa quella del «pensiero critico» e delle minoranze intellettuali che ancora lo producono.
Il quadro tratteggiato è, a dir poco, desolante. Per darne solo un assaggio, alcuni dati: il rapporto tra i salari dei top manager e quelli di impiegati e operai è salito in media da 40 a 1 negli anni ’80 a 300 a 1, con punte anche di 1000 a 1, oggi; la popolazione negli slums delle megalopoli (città con più di 5 milioni di abitanti), è passata dal 5% degli anni ’80 al 20% di oggi e tra il 2020 e il 2025 «potrebbe aggirarsi complessivamente intorno al miliardo e duecento milioni di persone»; lo svuotamento delle campagne e il land grabbing non causano solo migrazioni di dimensioni epocali ma, «tra il 2005 e il 2008», sono responsabili anche degli «aumenti dei generi alimentari: dal 70% del riso al 130% del grano»; infine, la quantità di «denaro illecito» depositato nelle cosiddette «isole del tesoro» ammonta a circa 20 trilioni di dollari, un terzo del Pil mondiale.
L’evanescente mediazione
Di pari passo, la politica ha reso competitivi paesi terzi, la cui concorrenza è ora utilizzata dalle classi dirigenti sia per rivalersi sui lavoratori, facendo pagare loro il prezzo della crisi che esse hanno prodotto, sia per metterli gli uni conto gli altri aumentando le divisioni interne esistenti. Gallino non ha torto quando dice che da trent’anni almeno i sindacati sono sotto attacco, ma non si può negare che in quest’arco di tempo essi abbiano contribuito a creare le condizioni per il loro discredito, schierandosi per ogni controriforma del lavoro (compresa l’attuale) con l’illusione che il piano della mediazione fosse strutturale anziché il frutto della lotta di classe, abbandonata la quale anch’esso si sgretola. Come diceva il filosofo matto, la «teoria marxista dell’abbassamento tendenziale del tasso di profitto è, in realtà, una teoria dell’aumento tendenziale della lotta di classe» ed è quindi sbagliato «ridurla a semplici effetti finanziari, contabili», dato che, al contrario, «è profondamente politica». Le divisioni tra lavoratori del Sud e del Nord del mondo, ad esempio, i sindacati non le vogliono affrontare. Delocalizzazione, contenimento del costo del lavoro, sfruttamento dei migranti, esplosione della precarietà sono fenomeni che, spesso, i sindacati hanno supportato, anziché combattere; lo stesso dicasi per la finanziarizzazione dei fondi pensione che spiega, almeno in parte, l’acquiescenza di molti lavoratori.
A fronte di un’analisi accurata e cruda, il punto debole del discorso di Gallino, debolezza che emergeva già nel precedente Finanzcapitalismo (Einaudi), è la ricerca di un «socialismo appropriato al XXI secolo». Una ricerca che si muove dentro un orizzonte statalistico, immaginando un’Europa politica basata sul modello socialdemocratico di welfare state, lontano dalla «Terza via», anziché su quello statunitense, e il cui primo compito è dare rappresentanza alle istanze del riformismo benecomunista, «un soggetto senza progetto» (Rossana Rossanda), il cui intento sembra quello di curare il cancro con l’omeopatia. Una prospettiva riformistica che, pur non essendo un male in sé, sconta l’illusione di voler praticare ancora un piano concertativo e conciliativo tra capitale e lavoro, una prospettiva che perfino Adam Smith, non un pericoloso comunista, riteneva impossibile, tanto più se «i governi dell’Unione europea stanno preparando un’altra grave crisi industrial-finanziaria che arriverà purtroppo presto».
La gabbia da distruggere
Forse, non è il caso di disperare se da molti anni ormai, da Craxi ad Amato, da Dini a Prodi, da Berlusconi a Monti & Co., la cui idea di equità è «Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham» (come diceva Marx), cioè il mercato, per tutti, viene mostrato che la lotta di classe dei padroni produrrà un ulteriore e voluto impoverimento della working class. Se, infatti, il Pil mondiale annuo è, oggi, di 65 trilioni di dollari e quello finanziario di 240 trilioni (mentre intorno al 1980 si equivalevano: 27 trilioni) e per «sradicare la povertà estrema e la fame» basterebbero un centinaio di miliardi, che non si trovano perché «i paesi ricchi sostengono di avere le casse vuote» è chiaro, come disse James Wolfensohn (ex presidente della Banca mondiale) che «la civiltà è giunta alla fine». A identica conclusione si arriva sapendo che i paesi europei hanno speso circa 3 trilioni di dollari per salvare le banche e che ora, per risanare i bilanci, tagliano il welfare state. Ma questa civiltà, sempre moribonda (come lo Stato e la società), continuerà a fare immensi danni se la working class non riuscirà a passare da una classe che esiste oggettivamente, quale prodotto inevitabile del modo di produzione capitalistico, a una classe che esiste anche soggettivamente perché capace di organizzarsi e agire politicamente in modo autonomo. Il passaggio non è scontato e che si risolva nell’istituire uno o più partiti capaci di dare rappresentanza lo è ancora di meno.
Non si tratta di essere per forza massimalisti o concertativi. Ma se è vero che il governo Monti ha la fiducia di più di metà degli italiani, siamo ben lontani da una forma benché minima di consapevolezza della stretta globale in cui ci troviamo, stretta che rischia di diventare un destino: la weberiana «gabbia d’acciaio» che va distrutta se ci si vuole davvero occupare delle persone.