Il Cinema e la Televisione ai tempi di Hollywood


censurariceviamo e pubblichiamo

da https://mysterionweb.wordpress.com

Intervista a Federico Greco:

di Enrico Sanna

Si racconta che, intorno al 300 a.C., Tolomeo I re d’Egitto (generale di Alessandro Magno, capostipite di una dinastia di regnanti greci in terra d’Egitto che terminò con Cleopatra nel 30 a.C.), volendo imparare la geometria senza fare sforzo di pensiero, chiese al grande matematico greco Euclide: “Esiste in geometria una strada più breve degli Elementi? “. Euclide gli rispose pressapoco così :”Non esiste via regia che conduce alla geometria”. Ecco, a mio avviso il concetto espresso da Euclide (non importa che quanto narrato sia vero o no) può applicarsi a qualunque cosa e quindi, in generale, alla realtà in cui viviamo. Potremmo formulare la frase Euclidea in questo modo: non esiste una via regia che conduce alla comprensione della realtà! Certamente nessuno può formare nella propria testa un quadro e una visione d’insieme della realtà, qualunque cosa essa sia, esaustivi e completi. Tuttavia, per appropriarsi di quel poco che possiamo capire, è necessario uno sforzo di pensiero e qualunque punto di vista che sia punto di partenza del percorso alla ricerca della verità va bene. Mi viene in mente ciò che una mia cara amica mi disse un giorno: “Gli uomini guardano il mondo ciascuno dal proprio punto di vista: chi lo guarda con lenti da muratore, chi con quelle da musico o da scrittore, chi con occhi da matematico o da politico, ecc.” Partire però da un punto di vista senza esplorarne altri lo ritengo profondamente sbagliato. Questa volta per me andare oltre ha significato aprire uno spiraglio per osservare idealmente, per un istante, i luoghi per eccellenza della creazione delle notizie, dell’informazione, dell’interpretazione e del racconto, al tempo della grande finzione hollywoodiana universale: il cinema e la tv. E colui che mi ha guidato dentro la fabbrica dell’immaginario collettivo occidentale moderno è Federico Greco, famoso regista che conosce bene il mondo televisivo e le grandi strutture che lo sorreggono. E lo ringrazio per avermi concesso questa intervista e per avermi mostrato, volontariamente o no, anche se per un attimo e con gli occhi della mente, che cosa vuol dire guardare il mondo attraverso il tentativo di composizione di una sceneggiatura. Buona lettura. 

Federico Greco tu sei un regista, sceneggiatore, montatore e giornalista; la tua attività è nota in Italia e a livello internazionale. Io vorrei iniziare la nostra intervista facendoti una domanda un po’ strana: qual è il tuo rapporto col dubbio metodico-socratico e col ragionamento logico, rispetto al tuo lavoro che consiste nell’osservare, nel raccontare, nel costruire storie?

Ti faccio un esempio concreto. Sono stato contattato recentemente da un giornalista che mi ha chiesto di affrontare un argomento molto delicato per realizzarci, eventualmente, un documentario (o un film). La storia che mi ha proposto è all’apparenza inverosimile, ben oltre la fantascienza e la distopia alla Philip Dick, ma esiste un testimone disposto a raccontarla e se fosse vera anche solo al 10% aprirebbe scenari apocalittici. Dopo averci riflettuto a lungo ho deciso di approfondire. L’obiettivo, nel caso realizzassi un documentario, non sarà quello di stabilire la verità e offrire risposte bensì quello di mettere a fuoco determinate, delicatissime domande. Mi chiedevo infatti, all’inizio, se questo progetto potesse rischiare di diventare un passo falso per la mia credibilità ma poi ho capito che sono io che ho il controllo della narrazione e sta a me decidere se fermarmi sul crinale dell’inverosimiglianza o se superarlo. Diverso l’atteggiamento se decidessi di trarne un film. A quel punto, al contrario, dovrei spingere sul pedale della narrazione e allontanarmi il più possibile dalla mimesi (gigantesco peccato originale di certo cinema italiano quando tenta di scimmiottare certo cinema hollywoodiano) per accedere alla verità.

Il metodo maieutico è lo strumento più importante che un documentarista deve applicare al suo lavoro. Quando si intervista qualcuno l’unico modo per provare a sfiorare almeno un briciolo di verità è di impedirsi di imporre la propria visione e tentare di considerare la macchina da presa una tavoletta vergine di argilla sulla quale il testimone scrive ciò che sente, più che che ciò che vuole. Si tratta di instaurare con lui una fiducia che va oltre le proprie posizioni ideologiche e sia fondata sul riconoscimento da parte dell’intervistato che dall’altra parte c’è qualcuno che lo sta ascoltando, con tutta la complessità e la difficoltà che significa ascoltare. Lo stesso vale per la realtà nella quale il documentarista si immerge. Così come Socrate non avrebbe mai scritto una scaletta della discusione che stava per ingaggiare con un discepolo, è impossibile scrivere la sceneggiatura di un documentario: la realtà si prende sempre la briga di spiegarti che non sei tu a decidere cosa accadrà e a stracciare qualunque script tu abbia preparato.

A mio avviso l’ultima parte della domanda precedente mette a fuoco alcuni aspetti centrali del tuo mestiere. Ti chiedo allora come concepisci tu il cinema e che giudizio dai della cinematografia occidentale e hollywoodiana attuale.

Il mio giudizio non può che derivare da un’analisi industriale (il cinema è prima di tutto industria; chi non capisce questo non è altro che una bella anima votata al massacro professionale). Il cinema hollywoodiano non è altro infatti che una vera e propria industria il cui fatturato è pari solo a quello dell’industria militare. E come tutte le industrie tende al monopolio. Oggi la situazione statunitense vede due ciclopici gruppi contendersi la stragrande parte del mercato: Disney/Fox e At&T/Time Warner. Alla luce di questo scenario non posso che essere pessimista e concordare con le riflessioni di Scorsese. «Il Cinema ha spazio solo se nell’industria esiste un tensione produttiva». Cioè se esiste una pluralità di soggetti diversi per grandezza e natura, in conflitto tra loro. È solo all’interno di un tale conflitto che esiste la possibilità, per qualunque sensibilità, di esprimersi. Per intenderci: quando l’Italia non scimmiottava il cinema americano e produceva autorialità come Fellini, Rossellini, Petri, Leone, era il cinema americano a imitarci. Sul set di Star Wars Lucas proiettava ai suoi collaboratori i film di Leone. Quando esistevano varietà e multipolii anche una realtà artigianale come quella italiana poteva surclassarne una industriale e ultrastrutturata come quella hollywoodiana. Oggi, come purtroppo sappiamo, è il contrario.

Sempre restando in tema, visto che hai anche lavorato per la televisione, che giudizio dai del palcoscenico televisivo, dai tg ai talk show, dalle fiction ai talent? In particolare ritieni che oggi fra cinema euroamericano e tv ci sia un rapporto di continuità intento a presentare una grande narrazione di propaganda, tenuto conto che il sistema mediatico è in mano ai capitalisti? 

Al netto di qualche eccezione (per esempio David Lynch) sì. D’altronde non è un mistero che i due gruppi televisivi italiani più grandi (RAI e MEDIASET) hanno a disposizione le maggiori distribuzioni cinematografiche (01 e MEDUSA): è così che il cinema italiano si è televisivizzato e oggi non puoi più proporre una storia che il produttore non reputi “vendibile” in TV. Se proponi Cinema sei fuori dai giochi. Conseguenza: il 90% del cinema italiano è televisione che va al cinema. Cioè, una narrazione innocua.

È un sistema che si autoalimenta della propria ignoranza. Il cinema americano ha avuto un solo grande momento di disincanto, il periodo della New Hollywood, in cui si poteva dire tutto (o quasi). Ma anche lì, i motivi derivarono esclusivamente da un allineamento di circostanze soprattutto industriali (e legislative). Quando i pianeti tornarono a girare come prima, il sistema industriale si diede una spazzolata allo smoking, si pettinò, si aggiustò i polsini e non ci fu di nuovo più alcun margine di azione (al netto di alcune eccezioni) per esperienze come quelle dei movie brats.

In questo contesto che spazio resta per raccontare la “verità”, per fare cultura?

Piccolissimo. E quel poco che resta è dovuto alle inevitabili “crepe” nel sistema che, in ogni caso, ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti anche a discapito, a volte, della propria intransigente tenuta propagandistica.

Nel 2017 è uscito il tuo docufilm “Piigs” sull’Europa dell’Austerity basato su una storia vera: ci racconti di che si tratta?

Lo chiamerei documentario, o film. “Docufilm”, secondo i dizionari italiani, significa “film che ricostruisce fedelmente un fatto storico o di cronaca”. PIIGS non “ricostruisce” (quello lo fanno i biopic) né si occupa di “storia o cronaca”. PIIGS “racconta” le vicende di Claudia, il presidente della cooperativa sociale Il Pungiglione di Monterotondo, sullo sfondo del periodo macroeconomico presente, facendo capolino solo ogni tanto nella storia, e mai nella cronaca (quello è compito di trasmissioni televisive come Report). Claudia e i suoi collaboratori cercano disperatamente di evitare che la cooperativa chiuda a causa di ritardi strutturali nei pagamenti da parte di Comune e Regione. Il danno sarebbe enorme: per i dipendenti, per i disabili di cui si occupano e per i lavoratori svantaggiati che grazie alla cooperativa trovano letteralmente nuove ragioni di vita.

Ma la lotta di Claudia è contro il drago sbagliato. Il vero antagonista della vicenda è l’Ue, con i trattati sovranazionali che confliggono con la Costituzione italiana e la cui applicazione distrugge anno dopo anno le risorse dello stato sociale. Con l’obiettivo di privatizzare tutto, di rendere tutto un servizio a pagamento invece che un diritto. Potremmo dire che PIIGS, quindi, èa la storia di come l’eroe Claudia scopre qual è il suo vero nemico. Che poi è il nemico di chiunque: l’Unione europea, l’eurozona, Bruxelles e Francoforte. Il neoliberismo di ‘sinistra’.

È in atto in questo periodo storico uno scontro fra USA e Cina. Secondo te la cinematografia sta riflettendo questo braccio di ferro?

No. È un tema troppo vicino, complesso e mastodontico per essere osservato così presto dalla giusta prospettiva. È l’elefante nella stanza. Inoltre è davvero molto poco trasformabile in narrazione emotiva di personaggi. Al momento è solo geopolitica. Bisognerà aspettare le conseguenze dello scontro sulle vite reali di persone reali per iniziare a raccontarlo. Ciò non significa che il cinema non sia colpevole, perché quelle conseguenze sono ampiamente prevedibili, altrimenti non sarebbero nati geni come P. K. Dick, o Orwell.

In ogni caso se dovessi stabilire un paragone fra il tipo di Uomo Hollywoodiano e l’Uomo del cinema asiatico che caratteristiche presenteresti rispettivamente?

Non ne ho idea.

Passando ad un altro argomento, che giudizio dai di un altro cinema, quello della politica nostrana? Quali sono secondo te le dinamiche sociali, politiche, culturali ecc. che stanno muovendo il nostro Paese?

Non capisco bene cosa intendi per “cinema della politica nostrana”. Se stai surrettiziamente affermando che il nostro cinema è politicizzato, cioè mero strumento di propaganda appiattito sulle logiche dell’egemonia culturale, sono d’accordo con te (so che non stai dicendo questo, ma desideravo dirlo io).

Credo che in Italia stia avvenendo da circa trent’anni ciò che descrivevo più sopra: non esiste più alcuna tensione culturale, sociale o politica. C’è un vero e proprio monopolio delle istanze civiliste progdem, refrattarie a qualunque discussione che non vada nella direzione dell’immigrazionismo e del neoliberismo, cioè della finanziarizzazione dell’economia. Come puoi ben immaginare ciò significa che non può esserci alcuna evoluzione di pensiero. Neppure pensiero apparente, come quello della macchina di propaganda dei presunti “sovranisti populisti”, che sovranisti non sono. È in atto una sistematica derubricazione di qualunque tentativo di multipolio culturale, attraverso l’apparente conflitto tra due termini del duopolio (sinistra finanziaria e destra industriale, entrambe espressione delle stesse istanze antipopolari) che serve a impedire qualunque via terza.

So che conosci bene l’opera di Stanley Kubrick, perciò ti chiedo di darmi una tua interpretazione sulle finalità del mio film preferito: 2001 Odissea nello spazio.

Credo che se avessi fatto questa domanda a Kubrick ti avrebbe risposto che la risposta è dentro di te. Ed è giusta.

Federico Greco ha studiato e lavorato in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (Londra e Los Angeles).È regista, sceneggiatore e montatore. Ha realizzato lungometraggi e documentari (principalmente per il mercato internazionale), ha lavorato come regista per la RAI e per SKY e ha scritto di cinema come giornalista e critico per le maggiori testate italiane.
Tra I suoi lavori come autore e regista “Stanley and Us”, il più esaustivo documentario su Stanley Kubrick (RAISAT CINEMA) diventato anche un libro per edizioni Lindau; “Il mistero di Lovecraft – Road To L.”, l’horror tratto dalla vita e le opere di HP Lovecraft; “PIIGS”, il documentario sulla crisi economica europea, uscito in sala per nove settimane nel 2017.

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