Ascesa e declino dell’Impero statunitense (Tomo I). Alessandro Pascale

di Marco Pondrelli

Il primo dei due volumi che Alessandro Pascale dedica alla storia statunitense copre un lungo periodo che va dalle origini degli USA fino al 1945. Il libro si apre con un’analisi dei popoli nativi, che furono vittime di un vero e proprio genocidio, scientemente pianificato. Non solo la diffusione di malattie ma anche le marce forzate, i lavori forzati, gli stupri, i massacri di civili, donne, bambini, anziani furono gli strumenti che mossero la simpatia di Hitler che nel Main Kampf citò il genocidio dei nativi come un esempio positivo. Questo è l’atto di nascita degli Stati uniti d’America.

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La disattenta storiografia scolastica normalmente si occupa degli Stati Uniti a partire della rivoluzione anti-inglese, c’è però un periodo che va dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 alla promulgazione della Costituzione del 1787 che andrebbe maggiormente approfondita. Pascale lo fa in modo egregio parlando di ‘torsione oligarchica‘ [pag. 85] alla base della Convezione costituzionale del 1787 formalmente non autorizzata a scrivere una Costituzione.

Si può parlare in questo caso di un Colpo di Stato o di una controrivoluzione, sta di fatto che gli anni che intercorrono fra la Dichiarazione d’Indipendenza e la promulgazione della Costituzione vedono un cambio del blocco sociale che governa gli USA. A riprova della torsione autoritaria avvenuta l’Autore ricorda come il ruolo centrale nella nuova architettura istituzionale non era la Presidenza ma il Senato, che per molto tempo non fu un organo elettivo e che secondo alcuni costituenti doveva essere ereditario.

L’Ottocento vede la grande crescita degli Stati Uniti ma anche lo scoppio della guerra civile, forse pochi sanno che questa è la guerra che ha fatto più morti statunitensi in tutte quelle combattute da questa nazione. La guerra civile vide scontrarsi due sistemi produttivi diversi, al nord industriale si contrapponeva il sud agricolo. L’abolizionismo e la schiavitù non furono, almeno all’inizio, elementi fondamentali, come ricorda Raimondo Luraghi nella sua monumentale opera ‘Storia della guerra civile americana‘ ‘la guerra di secessione come lotta tra schiavisti e antischiavisti fu effettivamente combattuta: ma (si potrebbe dire paradossalmente) non in America, sibbene in Europa‘. In questa parte del mondo però, come nota l’insigne studioso, gli schieramenti furono compositi, con non pochi conservatori, se non reazionari, che simpatizzavano per il nord e molti liberali che sostenevano il sud schiavista, ‘la Russia zarista (che non era certo un modello di liberalismo) fu risolutamente per il Nord, e altrettanto può dirsi del Governo prussiano, mentre uomini di opinione apertamente e disinteressatamente liberali e amici del Risorgimento italiano, come Gladstone e Lord Russell, dettero tutta la loro simpatia alla lotta per il Sud per la propria indipendenza, e il nostro Mazzini non si stancò mai di ammonire che si stesse ben attenti a non confondere la causa del Nord con quella dell’antischiavismo1‘. Tutto questo perché fino al proclama d’emancipazione (1862) il tema dello schiavismo non fu centrale, lo stesso Lincoln nel discordo d’insediamento disse che non aveva alcuna intenzione di interferire né direttamente né indirettamente sull’istituto della schiavitù e per completezza occorre ricordare come le condizioni dei neri al nord non fossero comunque idilliache.

Dopo la guerra per pochi anni le cose cambiarono quando i cosiddetti radicali presero potere nel Partito Repubblicano, con un Presidente Andrew Johnson fortemente indebolito, molti neri conquistarono importanti posizioni politiche. Come ricorda Pascale citando Schlesinger ‘fra il 1869 e il 1876, 14 negri divennero membri del Congresso e due senatori‘ [pag. 183]. Fu un periodo di breve durata a cui fece seguito una forte repressione, nella quale ebbe un ruolo rilevante il ku klux klan.

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Oltre alla guerra civile l’Ottocento vide emergere assieme ad un forte capitalismo anche grandi lotte sindacali. Questo è una delle tante incomprensioni rispetto alla storia del Paese, non è vero che negli USA non c’è mai stata lotta di classe. C’è stata e ha avuto punte molto avanzate ma questo è un tema rimosso perché, come afferma Alessandro Portelli, occorreva rimuovere la ‘classe operaia dall’immagine ufficiale del paese2‘.

In questo periodo di trasformazioni accanto alle lotte operaie si sviluppa anche il movimento populista. Personalmente su questo do un giudizio diverso rispetto a quello che è formulato nel libro. Il movimento populista statunitense fu rappresentato da un Partito che dopo un discreto successo nel 1896 entrò nel Partito Democratico imponendo un proprio candidato, William Bryan, è vero che Bryan era molto attento alle diseguaglianze e vedeva di cattivo occhio le sofferenza prodotte dal nascente capitalismo, nonostante questo continuo a definire questo movimento come ‘reazionario’. Il populismo dava rappresentanza alla classe dirigente che storicamente si era sviluppata negli Stati Uniti fino alla seconda metà dell’Ottocento, il Paese si sviluppava per ‘gemmazione’, si andava all’ovest, si massacravano e si cacciavano i nativi e si dava vita a piccole comunità con medici, avvocati, editori, sceriffi, ecc… Questo sviluppo orizzontale venne cancellato dalla rivoluzione industriale che creò grandi conglomerati urbani. Il populismo diede rappresentanza a questa classe dirigente in declino figlia di un sistema superato.

Tornando alla storia degli Stati Uniti la fine dell’Ottocento segna la conquista della frontiera e quindi del proprio lebensraum, questo come chiarisce molto bene l’Autore fa tabula rasa di un’altra chimera ovverosia che gli Stati Uniti non siano mai stati uno stato colonizzatore, lo sono stati prima della chiusura della frontiera e a anche dopo. La chiusura della frontiera apre una stagione di nuova aggressività, la vecchia dottrina Monroe trova nuova forza e la prima vittima sarà non tanto l’Impero spagnolo quanto Cuba e le Filippine dove l’esercito statunitense si macchiò di crimini contro l’umanità. Non è un caso che in questo periodo Alfred Mahan sviluppi le sue tesi sulla necessità per gli USA di rafforzare il dominio sui mari.

Comprendere l’Ottocento con lo sviluppo di un grande capitalismo con una forte componente finanziaria e con una proiezione mondiale aiuta a comprendere il Novecento con le due guerre in mezzo alle quale spicca la crisi del ’29.

Il libro di Pascale di conclude tentando di rispondere ad una domanda che ha tolto il sonno a molti studiosi perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti? La risposta dell’Autore è articolata e tocca in parte anche le particolarità della storia e dello sviluppo degli Stati Uniti. È però interessante riprendere alcune considerazione che Pascale aveva precedentemente espresso sull’era del ‘progressismo conservatore’. Ai primi del Novecento si ebbe una profonda modifica della politica americana, trasformando i partiti in macchine elettorali, la crescita del Partito socialista ne fu fortemente condizionata e dopo avere toccato il suo massimo storico nel 1912 iniziò il declino. Paradossalmente mentre in Europa i partiti socialisti portavo sulla scena politica il Partito di massa e costrinsero anche i partiti borghesi a profonde trasformazioni, negli Stati Uniti succedeva il contrario. Se a questa scelta ‘istituzionale’ si unisce la forte repressione, di cui Pascale parla in modo particolareggiato, si può dare una risposta alla domanda sulla mancanza di un forte movimento socialista negli USA.

Note:

1Luraghi Raimondo, Storia della guerra civile americana, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1994, pag. 726.

2Portelli Alessandro, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, sapere 2000, Roma, 1990, pag. 86.

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