
di Elisabetta Gallo1
I testi gramsciani, selezionati e commentati da Ruggero Giacomini nell’antologia “Scritti sul partito”, (MarxVentuno Edizioni), consentono di ricostruire in modo puntuale le ragioni storiche e politiche della nascita del Partito Comunista d’Italia e di chiarire i termini della profonda contrapposizione tra Bordiga e Gramsci, nel corso dei primi anni di vita del neo Partito Comunista.
Gramsci giunse alla “scissione” della frazione comunista del 1921 dopo anni di appelli alla riforma del Partito Socialista, il quale, aderendo dopo il 1917 all’Internazionale Comunista, avrebbe dovuto puntare alla direzione del paese, scalzando la classe politica borghese e sostenendo la forte spinta al cambiamento della classe operaia e contadina. La borghesia aveva infatti dimostrato largamente la sua inadeguatezza, sia nel corso della sanguinosa esperienza del primo conflitto mondiale, sia nella disastrosa crisi economica e sociale che ad esso era seguita. Il grande sciopero degli operai di Torino dell’agosto del 1917, scesi in piazza per protestare contro la guerra e le dure regole imposte al cosiddetto “fronte interno”, era stato represso nel sangue. Per molti fu chiaro che, anche dopo una guerra dai costi insostenibili, la classe dirigente non sarebbe stata sensibile alla drammatica condizione del proletariato.
Il Partito Socialista, malgrado vantasse numeri impressionanti di iscritti, sezioni e parlamentari, dimostrò per Gramsci la sua inadeguatezza proprio durante il “biennio rosso” (1919-20), non riuscendo a trasformare l’ampio consenso e prestigio di cui godeva presso la classe operaia in autentico sostegno alle lotte nelle campagne e nelle fabbriche. Poco o nulla fece il Partito Socialista per far comprendere ai suoi iscritti che il movimento dei lavoratori era ormai internazionale, né per rilanciare anche in Italia l’onda rivoluzionaria che attraversava Europa. Gli operai organizzati nei consigli di fabbrica, i “soviet” italiani, si erano trovati sostanzialmente soli nello sperimentare l’autogestione delle fabbriche, pur essendo la punta di diamante del fronte di mobilitazione del lavoro. L’esperienza dei Consigli di fabbrica andava infatti ben oltre le questioni meramente sindacali: ciò che veniva messo in discussione era la stessa gestione e proprietà dei mezzi di produzione. Il salto dalla “rivendicazione economica” alla “rivendicazione politica” fu giudicato inopportuno proprio dalla classe dirigente del partito Socialista la quale depotenziò la spinta rivoluzionaria che partiva delle fabbriche, lasciando buon gioco al vecchio Giolitti di spegnere l’incendio del biennio rosso con una manciata di aumenti salariali. Il vecchio assetto di potere, minacciato dallo spettro di una rivoluzione bolscevica in Italia, non venne intaccato e rimase saldamente in mano alla grande impresa.
Il Partito Socialista fu, per Gramsci, tra i responsabili del fallimento del “biennio rosso”: il PSI non aveva iniziato ma neppure teorizzato, a parere di Gramsci, il coinvolgimento di contadini e piccola borghesia nelle mobilitazioni operaie, accontentandosi di gestire l’esistente oppure sedandone i semi rivoluzionari. Dal carcere Gramsci continuerà questa attenta disamina dei limiti del Partito Socialista in questa fase, cercando di comprenderne le cause. Il Partito era di fatto imbrigliato in teorie evoluzionistiche in base alle quali “la rivoluzione doveva affermarsi in modo spontaneo”, senza l’ausilio dell’organizzazione politica, salvo poi ignorare la spontanea iniziativa di tanti lavoratori quando essa aveva luogo. In generale il Partito Socialista aveva orientato le sue scelte sulle relazioni tra i gruppi parlamentari, ponendo la massima attenzione agli equilibri istituzionali e lasciando a deputati e senatori, totalmente avulsi dal proletariato, le redini degli indirizzi politici dell’intero Partito.
Gramsci non fu certo il solo a muovere critiche alla direzione socialista: Turati, l’anziano rappresentate del socialismo riformista, ormai in netta minoranza nel partito, subiva la pressione sia dei comunisti di Bordiga, per i quali l’espulsione dei riformisti di Turati non era più rinviabile, che dei massimalisti rivoluzionari di Serrati, contrari però all’espulsione.
Anche il gruppo torinese dell’ ”Ordine Nuovo”, nato intorno all’omonima testata con la quale si tentò di essere la voce e lo strumento dei consigli di fabbrica torinesi del 1919-20, auspicava che l’intero partito abbandonasse la linea di Turati ed accogliesse le 21 condizioni che Lenin e il Comintern avevano posto per l’adesione dei partiti nazionali all’Internazionale Comunista: l’espulsione dei riformisti.
Nel gennaio del 1921 i comunisti avevano conquistato la direzione del Congresso di Livorno grazie ai voti ottenuti dalla loro mozione (58mila, su un totale di ca. 180mila). Il prestigio dell’Internazionale Comunista era massimo tra gli iscritti e tutto faceva sperare che il congresso inaugurasse la svolta del più grande partito dei lavoratori italiani.
Eppure, le cose non andarono così: il vecchio Turati, la cui mozione aveva solo 15mila voti, arringò il Congresso esprimendo il profondo dissenso ideologico che lo separava dai comunisti; netto era il suo rifiuto di ogni ricorso alla violenza, convinto che solo graduali riforme e l’ «opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini» sarebbe sopravvissuta al «mito russo» dietro cui, secondo il leader socialista, si celava non il proletariato ma il nazionalismo russo.
Il congresso si concluse con una larga maggioranza contraria all’espulsione di Turati, ai cui voti si aggiunsero quelli dei massimalisti (ca. 100mila), mentre i voti dei comunisti rimasero invariati. Quello che doveva essere il congresso della svolta del Partito Socialista, passerà alla storia come il congresso della scissione dei comunisti.
Com’è largamente noto, Gramsci a quel congresso non intervenne, quasi travolto dagli eventi, occupando un ruolo defilato nella prima fase di vita del Partito Comunista d’Italia, la cui direzione fu affidata a Bordiga ed ai bordighiani.
Tra gli scritti di Gramsci raccolti da Giacomini troviamo significative riflessioni sulle ragioni per cui a Livorno la fazione Comunista non trascinò con sé la maggioranza del partito: essa si concentrò sulle “questioni formali” quando nel Paese l’onda rivoluzionaria stava rifluendo. Di fatto, l’esperienza dei Consigli era rimasta circoscritta al Nord mentre le masse contadine erano ancora sostanzialmente subalterne agli intellettuali tradizionali. Un muro di pregiudizi separava il proletariato del Nord da quello del Centro-Sud d’Italia per cui la costruzione dell’unità di classe necessitava di una conoscenza seria e puntuale sulle condizioni materiali e sociologiche del proletariato, specie del Sud. Per realizzate la sua missione storica, l’unità della classe, il neo Partito Comunista d’Italia avrebbe dovuto dare a questa inchiesta la massima priorità.
La direzione politica di Bordiga non andava però nella direzione che Gramsci auspicava. Bordiga marcò sempre di più la distanza dai socialisti sostenendo l’opzione astensionista alle elezioni politiche ma, nello stesso tempo, osteggiò anche un lavoro capillare di radicamento territoriale vietando la formazione delle “cellule” comuniste (proposte da Gramsci) nelle campagne e persino nelle fabbriche, per paura di fenomeni frazionistici o di una “sindacalizzazione” del giovane Partito. Ogni forma di partecipazione, diversa dalle adunate formali ordinate dall’alto, era vista come un pericolo per l’unità e l’accentramento. I quadri dirigenti vennero selezionati non sulla loro effettiva capacità e radicamento ma in base alla fedeltà alla linea.
Gramsci era ben consapevole che il PCd’I non annoverava tra le sue file l’intero proletariato ma solo una sua avanguardia, anche se molto determinata. La rivoluzione non si sarebbe mai “fatta da sé”, al contrario era necessario allargare l’area d’influenza dei comunisti applicando la lezione leninista, ricorrendo anche a “rivendicazioni parziali” sul piano di quei diritti politici che la violenza e la repressione fascista stavano largamente compromettendo. Ogni forma aggregativa, anche embrionale, andava incoraggiata, specialmente nel Meridione, definito da Gramsci “un enorme serbatoio di disgregazione sociale”.
Fin dal 1922 Lenin spinse verso un’alleanza tra i comunisti e Turati, necessaria per fronteggiare l’imporsi del fascismo, ma Bordiga, al quale sembrava si volesse rinnegare la scelta di Livorno, venne confermato alla segreteria del partito nel primo congresso di Roma del PCd’I sulla base di un documento politico che, sostanzialmente, respingeva le indicazioni del Comintern. Bordiga annoverava sia i socialisti che il partito fascista tra le file della borghesia, con la differenza che i fascisti erano esplicitamente reazionari, mentre i socialisti, spacciandosi come rappresentanti dei lavoratori, erano addirittura potenzialmente più pericolosi.
Lenin stesso era intervenuto più volte nel dibattito interno al Partito Comunista d’Italia bocciando senza indugi la linea astensionista di Bordiga nel famoso scritto: “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”, sostenendo come il voto fosse una delle forme di partecipazione e di organizzazione del proletariato italiano a cui il Partito Comunista non doveva essere estraneo. Gramsci, fortemente appoggiato dal Comintern, si contrappose sempre più nettamente alla linea di Bordiga. Quando quest’ultimo venne arrestato nel 1924 insieme a parte del gruppo dirigente, il “vuoto” fu riempito da Gramsci che, nello stesso anno, fondò il quotidiano “L’Unità”, intendendo con essa sia la costruzione dell’unità di classe tra Nord e Sud che quella del “fronte unico” antifascista.
Il dibattito all’interno del PCd’I proseguì accesissimo dal 1924 al 1926, fino a sfiorare una nuova scissione interna. Gramsci diresse il partito in modo estremamente deciso, evitando con grande lucidità le derive politiche sia “a sinistra”, rappresentata sostanzialmente dall’autoreferenzialità di Bordiga, sia “a destra”, tendenti a subordinare il Partito Comunista ai socialisti. Giacomini seleziona testi importanti per comprendere le critiche mosse a Gramsci, in particolare da Sraffa, il quale sosteneva che il bisogno di assistenza sindacale capillare, la perdita delle libertà più elementari e il rischio dell’incolumità fisica, subentrate con la violenza fascista, avevano imposto alla stessa classe lavoratrice urgenze diverse dalla rivoluzione proletaria. Ciò rendeva necessario il rinvio della rivoluzione a circostanze storiche più favorevoli, cercando nel presente di allearsi con la compagine antifascista anche d’estrazione borghese. Gramsci rispose che rimandare la conquista del potere ad un improbabile futuro avrebbe reso questa conquista sostanzialmente irraggiungibile. La costruzione della prospettiva rivoluzionaria andava costruita nel presente e proprio a partire dalla contrapposizione al fascismo, che non poteva essere delegata alla sola borghesia. La conquista dello Stato doveva continuare ad essere la stella polare del Partito Comunista, il quale avrebbe rafforzato la propria egemonia a partire dalla costruzione del “fronte unico” contro Mussolini. L’alleanza con i Socialisti, concordata a Mosca insieme a Serrati nel 1922, formalizzatasi nel “Partito Comunista Unificato d’Italia”, fu sabotata dal socialista Nenni, futuro direttore dell’“Avanti”; Gramsci invece la difese e la rilanciò in più occasioni, confermandola con convinzione fino all’Aventino.
Gramsci non sottovalutò gli elementi antifascisti esistenti nella società italiana che cercò di sostenere dalle pagine dell’ “Unità”: sottolineò l’importanza del dibattito interno ai cattolici del Partito Popolare sulla legge elettorale Acerbo, studiata per garantire a Mussolini il totale controllo del parlamento nelle elezioni del 1924, né mancò di pubblicare gli scritti di Piero Gobetti, autore della “Rivoluzione liberale”, il quale aveva riconosciuto alla classe operaia (e non alla borghesia) il ruolo storico di difendere e promuovere le libertà democratiche.
Il pensiero gramsciano di questa fase è sostanzialmente argomentato nei due importantissimi documenti del 1926: le “Tesi di Lione”, scritte con Togliatti in occasione del III Congresso del PCd’I che ebbe luogo all’estero per sfuggire alle maglie della repressione e che ufficializzò Gramsci alla segreteria, e il celeberrimo “Saggio sulla quistione Meridionale”. Questi testi, scritti nel pieno dell’attività di dirigente politico e parlamentare, enucleano le linee guida del pensiero gramsciano che si riverberano sugli stessi “Quaderni del carcere”. L’arresto del 1926 interromperà questa fucina di gestazione, costringendo Gramsci ad elaborare la teoria politica all’interno di una cella e non più nell’agone della militanza attiva.
Il libro di Giacomini, a cento anni dalla nascita del Partito Comunista, documenta, attraverso gli scritti gramsciani precarcerari e non solo, una narrazione della genesi di questo partito ben diversa da quella “mainstream”, veicolata per esempio dal best seller di Scurati “M” ma, soprattutto, dal docu-libro di Ezio Mauro, “La dannazione della sinistra”. Come si evince dal titolo, Ezio Mauro individua lo scissionismo quale elemento costitutivo del Partito Comunista e della sinistra in generale, perennemente votata al suicidio e sostanzialmente irresponsabile e incurante delle sorti del paese. Tale narrazione risente pesantemente della sconfitta storica subita dai comunisti in Italia dopo il 1989, dalla Bolognina in poi: l’arretramento dei diritti sindacali nonché le riforme in senso maggioritario delle leggi elettorali segnano la traiettoria di una deriva che sembra inarrestabile anche sul piano storiografico, il quale reinterpreta in chiave revisionista l’intera storia del comunismo italiano.
Giacomini, con la sua antologia commentata di scritti gramsciani, non ha certo voluto polemizzare con Ezio Mauro ma, da lettrice, lo ringrazio per aver fornito uno strumento prezioso a coloro che ritengono che un’altra narrazione della genesi del Partito comunista sia possibile. La lezione del marxismo-leninismo di Gramsci si conferma imprescindibile non solo per comprendere il Novecento ma anche per rilanciare la cultura e l’azione politica nel mondo presente, precipitato drammaticamente, agli albori di questo XXI secolo, nella triplice catastrofe economica, ambientale e sanitaria, per la quale il capitalismo neoliberista (essendone la causa) non ha soluzioni.
1 Responsabile Formazione Federazione Civitavecchia del PRC.