Un contributo per approfondire la discussione sulle Tesi Congressuali del PCI

riceviamo e pubblichiamo un interessante contributo di Giuseppe Amata sulle tesi congressuali del PCI

di Giuseppe Amata

  1. La lettura delle Tesi per il secondo Congresso del PCI che si terrà a Livorno nel Gennaio 2022 (in occasione del centenario del congresso costitutivo del Pcd’I – 21 gennaio 1921) mi sollecitano alcune riflessioni per l’approfondimento del dibattito dei comunisti in Italia, oggi frammentati in piccolissimi Partiti, in associazioni, circoli culturali e riviste con propri siti (ma senza alcuna struttura e capacità organizzativa), nonché in militanti senza partito, che partecipano sia alle iniziative di massa e sia alle discussioni nelle riviste cartacee e on-line, finalizzate alla ricostruzione di un forte Partito comunista di quadri e di massa come era il PCI nel periodo che prepara la lotta di liberazione fino al 1956.
  2. Condivido gran parte delle analisi svolte nelle Tesi, ad eccezione però di due aspetti che ritengo importanti per superare la frammentazione delle forze comuniste in Italia e permettere l’unificazione delle medesime, non attraverso accordi di vertice (processo tentato nel passato e sempre fallito a diversi livelli, sia come Federazione sia come unità d’azione, sia come cartelli elettorali), bensì attraverso un processo di approfondimento teorico e di pratica sociale che porti all’affermazione di un’unica linea ideologica, politica e organizzativa.
  3. Il primo aspetto delle Tesi si riferisce al tema della via italiana al socialismo e alla sua direzione da parte di Togliatti prima e quindi di Longo e Berlinguer. Fermo restando che dal mio punto di vista non è in discussione la qualità e la personalità dei tre leader comunisti, occorreva, a mio avviso, un’analisi più approfondita per spiegare la deriva revisionistica e poi socialdemocratica del PCI per arrivare all’approdo neoliberale dell’attuale PD. Non si può del resto criticare la deviazione revisionistica a livello internazionale solo accennando alla degenerazione del PCUS che ha portato al crollo dell’Unione Sovietica, senza considerare anche il revisionismo del PCI, come si è originato e le conseguenze nefaste che portarono dopo la morte di Berlinguer dapprima all’approdo socialdemocratico dichiarato e quindi allo scioglimento del Partito. Infatti, le vie nazionali al socialismo, teorizzate al XX Congresso non hanno nulla a che vedere con la storia delle rivoluzioni del XX secolo che si sono sviluppate sulla base delle specifiche condizioni nazionali di ogni Paese: Cina, Corea, Vietnam, Cuba e tante altre, seppur di tendenza non marcatamente socialista. Mi piace parlare con chiarezza senza travisamenti linguistici per non approdare, come fanno alcuni compagni, a considerare la via rivoluzionaria cinese (in sintesi “il socialismo secondo le caratteristiche della Cina”) come “una via nazionale” rispetto alle altre, ad esempio la “via italiana italiana al socialismo” nella teorizzazione di Togliatti. I fatti storici parlano chiaro: la Cina sta avviandosi alla realizzazione di una società socialista prospera e moderna, mentre le “vie nazionali” dei Partiti comunisti europei non hanno approdato a nulla di concreto in termini di trasformazione sociale e dal punto di vista di classe hanno snaturato l’ideologia comunista e la composizione di classe di quei Partiti, facendo retrocedere il movimento operaio dalle conquiste realizzate con la lotta antifascista e anticapitalista. Occorre anche dire che quelle vie erano impregnate sin dall’inizio di revisionismo ideologico, perché di fatto fondate non sulla “rottura rivoluzionaria” che rappresenta, come diceva Engels, un salto nel processo sociale, ma esclusivamente sulla via parlamentare al socialismo, tramite accordi con i Partiti socialdemocratici per realizzare delle maggioranze parlamentari. Nello stesso tempo, l Partiti comunisti rimanevano ovviamente subalterni alla politica sovietica dello Stato-guida. Guai ad avanzare rilievi od opposizioni, come ha fatto il PCC a quella politica, sia a livello d’analisi della situazione internazionale, sia nel modello di costruzione del socialismo nel proprio Paese. L’ostracismo di Mosca con i ricatti economici e la minaccia di scomunica ideologica diventavano consequenziali.
  4. La via italiana al socialismo intrapresa da Togliatti era, dunque, dentro il paradigma del XX Congresso del PCUS, anche se era arricchita da propositi innovatori come le cosiddette riforme di struttura, le quali per avere un senso progressista e di rottura con la società capitalistica presupponevano la trasformazione dell’apparato statale, come lo fu solo nella prima fase della democrazia progressiva con la vittoriosa guerra di Liberazione e l’approvazione della Costituzione, quando si gettavano le basi giuridiche per la trasformazione dell’apparato statale d’impronta monarchica e fascista. Trasformazione, però, subito bloccata dalle forze capitalistiche italiane andate nettamente in maggioranza con le elezioni dell’aprile del 1948, le quali si riorganizzavano difendendo ad oltranza il vecchio apparato statale, in collaborazione con il Vaticano e alle dipendenze della Nato e delle forze militari americane presenti nel territorio italiano, mentre il PCI e il PSI non riuscendo a trasformare le strutture statuali diventavano impotenti per realizzare una società democratico-progressiva. Questi due Partiti assieme alla CGIL avevano soltanto una grande forza di massa per impedire che la borghesia italiana, le forze clericali e la Nato li estromettessero dalla vita politica e sociale. Inoltre, specificatamente per quanto riguarda Togliatti, non si può negare che egli abbia condiviso la linea krusceviana, almeno fino all’inizio dei bombardamenti del Vietnam del Nord (estate 1964) Solo nel memoriale di Yalta, scritto qualche settimana dopo l’inizio dei bombardamenti, Togliatti assunse una posizione autonoma dal PCUS perché aveva capito 8a ragione) che infuriando la lotta antimperialistica di fronte all’aggressione americana del Vietnam e di altri Paesi, il movimento comunista internazionale seguendo Kruscev si poteva definitivamente spaccare e lui voleva evitarlo, come del resto si è spaccato anche dopo la caduta di Kruscev avvenuta due mesi dopo la morte di Togliatti. E’ stata responsabilità di Togliatti anche l’aver abbandonato la linea della “Democrazia progressiva” per l’evanescente “via italiana al socialismo”, come è stata sua la responsabilità della riorganizzazione del gruppo dirigente del PCI, nel quale Amendola venne nominato dopo l’VIII Congresso capo della Commissione organizzativa al posto di Secchia. Inizia da quel momento la lenta emarginazione dei vecchi quadri dalla Direzione e la rapida sostituzione dei segretari dei comitati regionali e delle federazioni sull’onda del cosiddetto processo di ringiovanimento dei quadri. Processo che avviò la mutazione della linea ideologica e della composizione di classe del Partito con quadri provenienti dalla piccola e media borghesia per approdare nel solco della socialdemocrazia europea, allontanando sempre più il PCI dall’esperienza del movimento comunista internazionale. E ciò di fatto avveniva dopo la segreteria di Longo e se Berlinguer, almeno a parole, non voleva questa conclusione e con lui Ingrao, Cossutta e qualche altro (ma ognuno era in contrapposizione con l’altro), non esisteva nel Partito una piattaforma comunista che impedisse il processo che a parole si negava. Nel nucleo dirigente centrale del Partito già dal 1966 era stato emarginato Ingrao, anche se nel 1976 viene eletto presidente della Camera e dal 1980 Cossutta (anche costoro hanno le loro responsabilità nella elaborazione della “via italiana al socialismo”), e dopo la morte di Berlinguer i suoi colonnelli sono stati i maggiori fautori dello scioglimento del PCI. Per quanto riguarda la responsabilità politica specifica di Longo non si può negare che ha dato spazio alle posizioni di Amendola che parlava dopo la morte di Togliatti di Partito unico dei lavoratori, al posto dei tre allora esistenti (nel PCI Ingrao era in minoranza e contrario, nello PSIUP la proposta non era gradita, nel PSI che era dentro il governo di centro-sinistra nessuno era interessato tranne Riccardo Lombardi che guidava una corrente di minoranza e la discuteva in senso accademico) e a Napolitano (anche se ha preferito Berlinguer come vice). Con Longo si è dato il via libera a quel processo che si chiamava nel 1966 “autonomia sindacale”, cioè la trasformazione della CGIL da sindacato di classe a un sindacato giallo. Solo alcune frange della CGIL e del PCI, nonché parte del PSIUP erano contrari. Specificatamente per quanto riguarda le responsabilità di Berlinguer non si possono dimenticare i danni che l’ideologia dell’euro-comunismo e la prassi del compromesso storico hanno arrecato al movimento di massa ancora abbastanza solido dopo l’autunno caldo del 1969, così come l’affermazione nel 1976 dell’accettazione dell'”ombrello atomico” della Nato e se lui poi ha avuto un ripensamento dopo le lotte sindacali alla Fiat e il forte movimento pacifista che invase con milioni di uomini le strade e le piazze d’Europa contro gli euromissili, la corrente migliorista del PCI aveva trasformato l’ombrello in accettazione integrale della scelta di De Gasperi nel Patto Atlantico.
  5. Il secondo aspetto delle Tesi che non condivido riguarda il conclamato “fronte unito della sinistra di classe” esposto in modo generico, cioè senza una dovuta e rigorosa analisi di demarcazione contro il movimentismo, lo spontaneismo o il bertinottismo di certi gruppi oppure il settarismo di altri e senza la ovvia costatazione che è prevalente in questi gruppi la litigiosità e l’autoreferenzialità e secondario il problema dell’unità, in quanto ogni gruppo o partitino assegna alla propria esperienza e alla propria storia una misura sproporzionata rispetto alla reale consistenza. Riconosco che il nuovo PCI per costruire il fronte unito si è impegnato sin dal suo primo Congresso del 2016 e non ha mai avuto la presunzione di altri gruppi che si definiscono comunisti e soprattutto ha il merito, a mio modesto avviso, di aver fatto da tempo una chiara collocazione nel fronte dei Paesi con in testa la Cina, la Corea del Nord, il Vietnam, il Laos, Cuba e tanti altri dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa e che comprende pure la Russia, nonostante le sue contraddizioni di classe antagonistiche all’interno, per imporre a livello mondiale sia i principi della parità nelle relazioni fra Paesi grandi e piccoli e della non interferenza reciproca nelle questioni interne, sia il reciproco vantaggio nelle relazioni economiche, sia la ricerca delle soluzioni comuni per risolvere i problemi della pace, del riscaldamento globale e delle epidemie sia il sostegno alla proposta di Xi Jinping per creare una comunità mondiale dal destino condiviso, compresa la condivisione dello sviluppo scientifico e tecnico, tutte scelte che contrastano la pratica egemonica e sopraffattoria dell’imperialismo, in particolare quello americano e la politica di potenza dell’Unione Europea, e di altri Paesi del cosiddetto Occidente, i quali tutti vogliono mantenere un rapporto di tipo coloniale con i Paesi emergenti. Non solo, ma proprio perché viviamo in una fase complessa dello sviluppo mondiale, nella quale la lotta di classe si manifesta non solo con azioni specifiche di lotta politica tra le classi ma anche di lotta economica tra Paesi che hanno una diversa visione delle relazioni internazionali, si richiede la maggiore unità dei popoli e delle forze politiche progressiste su alcuni obiettivi immediati senza bisogno di spaccare, come si dice in gergo, il pelo in due. Voglio ricordare ai compagni che fino a qualche anno addietro il PC guidato da Marco Rizzo e il PRC sin dai tempi di Bertinotti consideravano la Cina un paese capitalistico e sostenevano che la sua crescita economica era all’interno della logica imperialistica. Fortunatamente da qualche anno sia il PC che il PRC hanno corretto la loro analisi internazionale, ma altri gruppi come “Potere al popolo” stentano a correggerla e in ogni caso hanno una visione dello scontro di classe molto schematica e di tipo sindacale per “obiettivi sempre più avanzati”, senza capire che prima viene la linea ideologica e politica sulla base di una corretta analisi di classe internazionale e interna e sulla base dei reali rapporti di forza e dopo si stabilisce se l’obiettivo di lotta deve essere più o meno avanzato. Non parlo di altri gruppi della cosiddetta “sinistra di classe” che pur essendo inconcludenti sul piano pratico a livello teorico sono legati a schemi teorici del 1917 o a quelli di Trotskj. Pertanto il fronte unito non deve riguardare nei Paesi capitalistici solo la cosiddetta “sinistra di classe” bensì un ampio arco di forze sociali e politiche per spezzare la politica egemonica di grande potenza, impedire la costruzione del polo imperialistico europeo che prima di assoggettare altri popoli sta già da diversi decenni assoggettando vaste regioni dell’Europa mediterranea e di quella orientale, subordinandole ai programmi di concentrazione capitalistica che favoriscono i Paesi più forti dal punto di vista economico-finanziario come Germania, Francia, Belgio e Olanda, nonché alcune aree del centro-nord dell’Europa. Pertanto il fronte unito riguarda non solo la sinistra di classe, ma anche forze borghesi che saranno emarginate sempre di più e che vivono situazioni di difficoltà e alcune delle loro rappresentanze politiche impegnate in un duro confronto ideologico e politico al loro interno, come in Italia il Movimento cinque stelle, verso il quale non si può rapportarsi con il dileggio o l’insulto, ma comprendendo il disagio di molti settori e di molti leader di questo Movimento e cercando di sollecitarne l’abbandono delle posizioni di sostegno al governo Draghi per favorire una scelta in sintonia con le aspettative delle masse popolari.
  6. Pertanto, i comunisti, in Italia, a mio modesto avviso, nell’attuale fase oltre ad elaborare una piattaforma ideologica e politica devono selezionare gli obiettivi di lotta per cominciare a unire tutte le forze che si possono unire, soprattutto le grandi masse popolari, oggi profondamente divise, sia in seguito a quanto successo negli ultimi cinquant’anni (declino revisionistico del PCI e quindi suo scioglimento, trasformazione del sindacato di classe in sindacato giallo sotto la copertura dell’unità sindacale, mancata rappresentanza in Parlamento dei comunisti da più di un decennio), sia in seguito alle trasformazioni aziendali come conseguenza delle innovazioni tecnologiche che hanno scomposto e frammentato la classe operaia. In Occidente le fabbriche hanno visto una notevole riduzione dell’operaio-massa, mentre nuove figure sociali che si delineavano a partire dagli anni Sessanta del Novecento e che nei diversi convegni del PCI o del PCF sulle tendenze del capitalismo italiano, francese ed europeo venivano etichettate come colletti bianchi e classificate socialmente piccolo-borghesi (mentre secondo lo studioso francese Serge Mallet rappresentavano la “nuova classe operaia”), oggi, invece, è sin troppo chiaro che rappresentano la principale forza proletaria, dalla quale i capitalisti estorcono un maggior plusvalore relativo. Queste nuove figure sono informatici, ingegneri, tecnici che oltre a rivestire un ruolo importante in fabbrica assolvono (i più preparati) il compito fondamentale per la creazione dei soft che vengono venduti. Questi soft racchiudono il plusvalore relativo estorto, il cui realizzo da parte del capitalista avviene con la vendita del prodotto. I comunisti non possono diventare forza dirigente se non riescono ad unificare il vecchio proletariato con il nuovo.
  7. Alcune iniziative di lotta spontanea dei lavoratori hanno visto nascere in embrione questa unità contro le chiusure aziendali e le delocalizzazioni (GKN, Whirpool, in un certo senso anche Alitalia). Così per altro verso, le lotte contro l’inquinamento e le nuove trivelle, contro lo spreco energetico e a sostegno dell’acqua pubblica e della salute degli abitanti nei territori inquinati (ex ILVA di Taranto, zone interessate dai rifiuti tossici in Toscana, in Basilicata e in Sicilia), rappresentano terreno di scontro con la classe dominante. Come pure le lotte degli operatori sociali nel settore dell’istruzione, della sanità e dei servizi in generale, mettono in rilievo le nuove figure di lavoratori che si possono classificare in termini marxiani produttori indiretti di ricchezza sociale e non genericamente impiegati o piccoli borghesi come etichettati in passato. In senso lato, in economia, una politica di fronte unito deve difendere l’interesse pubblico su quello privato, chiedendo la ricostituzione dell’IRI, la rinazionalizzazione dell’ENI, di alcune branche produttive o dei servizi, come l’ex Ilva di Taranto e l’ex Alitalia, e soprattutto la nazionalizzazione dell’industria farmaceutica (cavallo di battaglia del PCI fino ai primi anni Settanta e poi lasciato in scuderia dopo la vittoria elettorale del 1976 e la formazione dei governi di solidarietà nazionale). Va difeso, migliorandolo, il sistema sanitario nazionale annullando o riducendo molti ticket sui farmaci essenziali, e opponendosi anche alle continue privatizzazioni, funzionali al modo di produzione capitalistico per trovare nuovi settori di penetrazione per realizzare il massimo profitto, dopo quelli già trovati con la privatizzazione dei trasporti e dei servizi e con quello in corso di realizzazione nel “riciclo dei rifiuti” (fasullo) e nella “transizione ecologica” (altrettanto fasulla).
  8. Perno del fronte unito deve essere la lotta per la difesa della Costituzione del 1948, come si riscontra nelle Tesi congressuali, con la denuncia delle modifiche degli ultimi decenni, in particolare quelle del titolo V. Aggiungo a quanto scritto nelle Tesi che, a mio modesto avviso, le anzidette modifiche mettono a rischio l’unità nazionale, soprattutto con l’avanzamento del processo di costruzione del polo imperialistico europeo e della forza armata europea. Vanno difese ad oltranza, di conseguenza, la sovranità nazionale e gli interessi nazionali. Ma per realizzare tale obiettivo occorre una diversa politica estera dell’Italia fondata sugli interessi nazionali. Un limitato passo in questa direzione era stato compiuto dal governo Conte con la firma del memorandum Cina-Italia nel 2019 sulla “Nuova Via della Seta”. Ma, il governo Draghi ha accantonato questo progetto per rientrare nell’alveo della politica strettamente atlantica. Nel parlamento vi sono forze, anche se modeste, orientate a promuovere una diversa politica estera e nel Paese non solo le masse pacifiste ma anche settori economici sono propensi a una diversa politica estera nei confronti di Russia e Cina. Ecco perché la politica del Fronte unito come enunciata nelle Tesi e limitata alla cosiddetta sinistra di classe mi sembra molto insufficiente e pertanto bisognerebbe avere una visione lungimirante per delineare una solida strategia e una tattica molto flessibile, che tenga conto di ogni mutamento, anche piccolo, nelle relazioni internazionali.