di Giuseppe Amata
Sono stato indeciso ad intervenire nella discussione aperta dall’ottimo saggio di Fausto Sorini sulla ricerca dell’unità dei comunisti, pur avendo letto con attenzione tutti gli interventi dei compagni che lo hanno seguito, perché quasi nell’ultimo quindicennio dopo la debacle del Partito della Rifondazione Comunista e la nascita successiva sia del PdCI poi diventato PCI che del PC, sono intervenuto tante volte per esprimere il mio punto di vista sull’importante questione che non è mai sostanzialmente decollata. Ho sostenuto anche tutte le iniziative unitarie che nel periodo anzidetto (ultima quella promossa più di due addietro da Fosco Giannini) si sono svolte, anch’esse non mi pare che abbiano avuto un grande stimolo per un percorso unitario, laddove invece prevale la diaspora attorno a partitini, circoli e riviste.
La mia indecisione è dovuta a una certa delusione subita, in quanto le iniziative intraprese sono rimaste in aria o sono svanite nell’indifferenza oppure in quanto alcuni compagni che sono intervenuti in tutti i dibattiti succedutisi in questo lasso di tempo, anziché affrontare i temi reali per capire, come giustamente scrive Fausto Sorini, le cause che hanno portato all’inanità dei comunisti in Italia e all’inconcludenza dei discorsi unitari, seppur animati da buona volontà, si sono persi in chiacchiere su problemi contingenti del momento.
Sono stato convinto ad intervenire da un affettuoso rimprovero da parte del compagno Roberto Gabriele con il quale negli anni Novanta, quando già il PRC aveva preso una strada a mio avviso di esplicito antileninismo non solo nella prassi (come sin dalla sua costituzione nel 1991) ma anche dichiaratamente a livello teorico, assieme ad altri compagni ed in particolare al compianto Aldo Bernardini, abbiamo iniziato una collaborazione nell’ambito della rivista Aginform da lui ed altri già pubblicata; collaborazione accentuatasi da parte mia quando nel 1998 non ho più rinnovato la tessera, dopo la divisione del partito in due tronconi rivali e la successiva scissione operata da Cossutta.
Dico subito che condivido in pieno il saggio di Fausto Sorini sia nel contenuto per i problemi che solleva sia nel metodo per affrontare la discussione con la proposta di creare un Forum. L’unico rilievo che faccio a Sorini, il quale è stato molto esplicito nel sottolineare le problematiche che hanno diviso i comunisti, analizzando e sottolineando i temi di discussione a partire dal 1956, è di essere stato vago su temi, che a mio avviso meritano l’approfondimento della discussione, maturati nel periodo dal 1944 al 1956. Anche Roberto Gabriele intervenuto dopo, pur avendo affrontato esplicitamente gli errori commessi dal PCI dopo il 1956 (ha scritto nel recente assieme al compagno Paolo Pioppi specifici libri su Togliatti, Stalin e sui drammatici temi del movimento operaio internazionale), ha dato come positivamente acquisita in toto la linea di Togliatti dal 1944 al 1956, sorvolando sugli specifici temi avanzati da Pietro Secchia.
Questo mio appunto non significa mettere in discussione per quel periodo storico le scelte strategiche del PCI (sollecitate dal suo leader indiscusso Palmiro Togliatti), in particolare la lotta antinazifascista con la svolta di Salerno e le dovute alleanze del momento, la democrazia progressiva, la lotta per la Costituzione e la difesa di essa contro i tentativi di restaurazione clerico-fascisti, bensì mettere sotto indagine come si adeguavano quelle giuste scelte strategiche nella pratica della lotta di classe, risultate qualche volta in forma inopportuna, ad esempio con l’amnistia promossa da Togliatti che liberò forze reazionarie utili a ricostituire il vecchio apparato dello Stato di classe, il quale successivamente ha colpito sanguinosamente gli operai in sciopero e i contadini che occupavano le terre oppure ha procurato loro lunghe condanne in carcere. Ed ancora, soprattutto, non si può sorvolare sull’essenza del Partito di tipo nuovo, nello specifico se esso dovesse essere, come purtroppo è stato, soltanto un partito di massa e non un partito di quadri e di massa, Come è noto quei problemi diedero vita ad un recondito confronto ideologico tra Togliatti e Secchia, finito con l’estromissione di quest’ultimo, approfittando di una sua leggerezza verso il responsabile che teneva la cassa del partito. Basta leggere, anzi studiare attentamente, l’archivio Pietro Secchia edito dalla Feltrinelli qualche anno dopo la sua morte per rendersi conto delle reali divergenze tra la linea di Togliatti e le sottili critiche avanzate da Secchia (e sono tante) in quel periodo, critiche poi diventate esplicite dopo il 1956. Facendone una ricostruzione si deduce una diversità tra i due sia a livello ideologico che politico.
La personalità di Togliatti è molto complessa. Leader a mio avviso di grande talento e di grande fascino (da ragazzino ho ascoltato nel 1959 un suo comizio a breve distanza dal palco e ho viva nella memoria la scenografia dell’evento) e merita una discussione serrata, anziché una approvazione acritica come fanno i compagni dell’attuale PCI, perché a parte quello che ho già detto, c’è una sua grande responsabilità nel sostenere il moderno revisionismo praticato da Kruscev, a partire dal XX Congresso del PCUS, con la manfrina delle “vie nazionali al socialismo” che non erano ovviamente la via socialista nelle specifiche condizioni di ogni paese, cosa ovvia e che la storia aveva già dimostrato sia in Cina che in Corea e in Vietnam (e qualche anno dopo dimostrerà a Cuba), ma la generalizzazione nei fatti della sola via parlamentare al socialismo e dell’unità con i partiti socialdemocratici europei (guarda caso con quelli che sostenevano le guerre coloniali, l’invasione di Suez, la politica atlantica più oltranzista!).
Togliatti ha abilmente tradotto il XX congresso del PCUS nell’VIII congresso del PCI e ad arte ha sostenuto che il PCI la scelta della “via nazionale al socialismo” l’aveva fatta a partire dal congresso di Lione nel 1926 e in seguito acquisendo il pensiero gramsciano. Nulla di eccepibile su questo nella forma, ma nella sostanza la via nazionale al socialismo di Togliatti diventava come quella krusceviana soltanto la via parlamentare della ricerca degli accordi con le forze socialdemocratiche e laiche por governi diversi da quelli centristi e per governi “più avanzati” di quelli di centro-sinistra che il parlamento italiano approverà in seguito dopo la scelta socialdemocratica del PSI con l’accettazione della volontà dei nascenti monopoli pubblici e privati e soprattutto della NATO e delle guerre aggressive americane (Vietnam in primo luogo) ed anche della politica economica della Comunità Europea. Certo Togliatti, che non era uno sprovveduto, sosteneva “un nuovo governo aperto alle forze che seguono il PCI” dopo il clamoroso risultato del 1963 e ovviamente sulla scia dei grandi movimenti di massa contro il governo Tambroni e per i diritti dei lavoratori.
Oltre alla svolta politica del 1956 va imputata a Togliatti la formazione del gruppo dirigente, del suo “ringiovanimento” come egli disse all’VIII congresso e poi in seguito, con l’estromissione di vecchi quadri usciti dalla Resistenza e dalle lotte operaie a favore dei nuovi provenienti dalla piccola e media borghesia (Napolitano docet) e anche a favore degli opportunisti senza principi che pur provenienti dalla Resistenza e dalle lotte operaie per mantenere nel Partito incarichi nella dirigenza o per scalarli sono stati sempre remissivi prima verso Togliatti e poi verso Longo (Cossutta docet: quante cose ha detto e poi si è smentito lui stesso fino alla sua fine biologica). Perché se il PCI è scivolato su un piano inclinato dapprima verso la socialdemocratizzazione e l’accettazione sia della Comunità Economica Europea che della Nato (si è detto allora perché la situazione storica era irreversibile), ed in seguito verso l’eutanasia, il nocciolo del gruppo dirigente era quello formato da Togliatti e poi adeguato con altre innovazioni da Longo e Berlinguer. Ovviamente anche di questi due dirigenti, comunisti sin dalla loro infanzia (a differenza di Napolitano), bisogna analizzare i meriti e i demeriti, ma non si può sostenere, come fanno i compagni del nuovo e piccolo PCI, la rivendicazione in toto dei tre dirigenti storici, assegnando tutti i mali che portarono allo scioglimento del PCI a chi è venuto dopo di loro. Questo è un metodo antidialettico.
Così come il metodo dialettico ci impone di utilizzare prima ancora della critica l’arma dell’autocritica. Ognuno di noi che parla oggi di unità dei comunisti, infatti, ha vissuto (chi per ragioni di età a partire dalla fase del revisionismo dichiarato e dalla polemica ideologica tra il PCUS e il PCC, chi a partire dalle fasi successive) e si è battuto contro il revisionismo e la socialdemocratizzazione del PCI, oppure contro il suo scioglimento od anche, per i più giovani che sono entrati nella militanza a partire dagli anni Novanta, per tentare di migliorare Rifondazione comunista, utilizzando un percorso diverso. Se è vero che siamo stati tutti impegnati in questa battaglia comune abbiamo ovviamente commesso degli errori che dobbiamo riconoscere. Quindi un discorso corretto per riunificare i comunisti nella ricostruzione del Partito comunista deve essere basato anche sull’autocritica delle proprie esperienze. Il primo sono io a farla se questa iniziativa del Forum andrà avanti. Non si può ovviamente pensare che qualche compagno promotore sia indenne dall’autocritica oppure può ritenere il suo percorso come quello più valido. In questo caso non ci sarebbe bisogno di parlare di unità dei comunisti e di ricostruzione del Partito comunista perché quelli senza alcun errore nel loro percorso sarebbero già il nucleo dirigente di un Partito comunista già creato.
L’esperienza storica ci insegna che un partito comunista è diventato forte quando un leader (Mao Zedong, Hochimin. Kim il Sung, Fidel Castro) è riuscito assieme al Partito ad elaborare una linea strategica rivoluzionaria corretta, specifica per le condizioni del proprio paese, unendo le masse e ricevendone consenso. Come dicono i compagni coreani è indispensabile l’unità tra leader, Partito e popolo. Questo per capire come in Italia quanta strada ancora si deve compiere!
Dopo questa premessa metodologica, ritengo che un percorso di riunificazione dei comunisti, come indicava Sorini, per la ricostruzione in Italia di un Partito comunista che sia apprezzato e sostenuto dalle masse, non può nascere con generiche aspirazioni di ognuno di noi oppure pensando erroneamente di mettere insieme tutti i gruppi che si definiscono comunisti (cristallizzati da anni con dirigenti auto referenziali), bensì sulla base di un confronto ideologico che scaturisce dalla teoria marxista-leninista, dall’esperienza storica della lotta di classe, della vita dei partiti comunisti del mondo e dalle iniziative di massa in particolare nel nostro paese che, seppur oggi parzialmente e settorialmente, dovranno essere portate avanti per costruire una strategia comunista per le caratteristiche specifiche dell’Italia e dell’Europa in generale, nell’insieme di un approccio internazionale della lotta dei comunisti nel mondo contro l’egemonismo americano e occidentale e in solidarietà e confronto con le iniziative dei principali (ma anche dei piccoli) partiti comunisti.
In tal senso un giudizio preciso a livello storico e geopolitico deve essere motivato sul dissolvimento dell’Unione Sovietica e sulle conseguenze che sono scaturite nello spazio ex sovietico in seguito alla politica di aggressione economica, mediatica e anche militare dell’Occidente collettivo, con in testa gli USA e a seguire la Nato e l’Unione Europea. Avere le idee chiare sulla guerra che l’Occidente collettivo conduce contro la Russia, a cominciare dall’Ucraina nel 2014, significa fare un passo avanti anche per unire i comunisti.
Una teoria comunista per la trasformazione economica e sociale dell’Italia deve basarsi su una linea politica di massa come risultato di corrette analisi di classe e della realtà economica e sociale del nostro paese. In tal senso dobbiamo discutere innanzitutto come far uscire il nostro paese immediatamente dal blocco aggressivo contro la Federazione russa per fermare la guerra in Ucraina e a lungo andare per sciogliere la NATO. Pertanto, bisogna creare un ampio fronte con forze diverse da noi. Condivido al riguardo l’articolo di Fausto Sorini del 6 ottobre su marx21.it che commentava l’iniziativa di Raniero La Valle e Michele Santoro del 30 settembre a Roma per la creazione di una lista alle elezioni europee per fermare l’invio delle armi a Kiev voluto dal partito della guerra legato al carro della NATO, composto in Italia da un ampio arco che va da FdI al PD.
Promuovere tutte le iniziative di massa contro la guerra e per un mondo di pace, fondato su rapporti paritari e di reciproco vantaggio negli scambi internazionali e per una ristrutturazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per assicurare la permanenza nel suo seno ai rappresentanti dell’Africa e dell’America Latina con diritto di veto.
Nel Forum dobbiamo discutere specificatamente, quindi, per delineare un programma di transizione (sulla base delle condizioni storiche, economiche e sociali del nostro paese) che affronti tante questioni aperte, a partire dalla funzione della Banca centrale, che non deve essere quella di una banca privata ma statale, e ciò vale sia per la Banca d’Italia che per la Banca centrale europea; ed a seguire la difesa dei beni comuni, la rinazionalizzazione del settore energetico e dell’industria di base, per parlare anche di trasporti pubblici (compresa la questione del ponte sullo Stretto); infine la questione meridionale che rimane, come analizzata da Gramsci, una questione nazionale e di grande disgregazione sociale, anche in seguito al depauperamento di molte zone agricole dovute nel tempo all’eccessivo esodo dopo le grandi lotte dei contadini con l’emigrazione e con l’abbandono dei terreni di alta collina e montagna che hanno determinato il dissesto territoriale e ambientale. Il dissesto territoriale e ambientale interessa pure le città per la caotica e speculativa attività edilizia, la quale per salvaguardare le rendite nel loro intreccio tra il settore finanziario (oggi dominante) e quello fondiario e commerciale, ha prodotto nei centri storici inquinamento in seguito all’eccessivo traffico veicolare e stress ai residenti per le sfrenate attività di consumo senza regole, diffondendo modelli di vita individualistici ed eticamente scorretti e di rimando ha creato periferie senza servizi, in preda alla disgregazione sociale ed ai traffici illeciti e delinquenziali che opprimono la libertà di movimento delle masse povere. Infine il grande capitale finanziario e commerciale ha distrutto suolo fertile agricolo importante per la salvaguardia degli ecosistemi naturali costruendo grandi ipermercati e centri commerciali intorno alle città, aggravando il problema del deflusso idrico.
Ricordo, quando ero giovane, che si discuteva nei partiti di classe (PCI e PSIUP) e nel sindacato di classe (CGIL) delle “riforme di struttura”, perno fondamentale della “via nazionale al socialismo” di togliattiana memoria, che consistevano in alcuni grandi monopoli che dovevano essere nazionalizzati dopo IRI, ENI ed ENEL. Si parlava della chimica, della farmaceutica e anche dell’industria automobilistica. Dopo l’accordo tra Fiat e Unione Sovietica nel 1965-66, nel PCI guidato da Longo la Fiat fu tagliata dal piano delle nazionalizzazioni, poi fu il turno della Montedison (che tra l’altro si trovava in brutta crisi aziendale sostenuta poi dallo Stato con contributi a fondo perduto e prestiti agevolati). Con Berlinguer segretario, fino al 1976 ancora si rivendicava la nazionalizzazione della sola industria farmaceutica, naufragata al momento del varo dei governi della “solidarietà nazionale” guidati da Andreotti.
Ora, la questione a mio modesto avviso si pone in questi termini: non basta rivendicare la rinazionalizzazione delle industrie di base, come già aveva fatto e disfatto il potere democristiano e dei partiti di centro-sinistra succedutisi, ma di fare funzionare le aziende che dovranno essere nazionalizzate con la presenza prevalente nel consiglio d’amministrazione degli operai e dei tecnici e non affidando il potere come in passato esclusivamente ai manager o ai portavoce del potere politico gratificati con immense remunerazioni; e soprattutto con la finalizzazione che le aziende nazionalizzate siano al servizio di una politica di programmazione (come giustamente diceva allora Togliatti) fondata non sul massimo profitto dei vari Enti ma sul raggiungimento di obiettivi economici e sociali per favorire anche le piccole e medie imprese distribuite nel territorio.
Altro aspetto da discutere nel Forum riguarda la visione organizzativa per costruire un partito di quadri ma anche di massa. Tutti i partiti comunisti vincenti sono stati e sono partiti di quadri col sostegno di larghe masse. Il Partito comunista cinese, ad esempio, è composto da 90 milioni di quadri e influenza ed è riconosciuto dalla stragrande maggioranza del popolo cinese. Ha rinnovato la sua organizzazione nella struttura portante proprio per essere legato sempre più alle masse, non accettando le impostazioni burocratiche che adottarono altri partiti comunisti al potere o all’opposizione (come il PCI) avviandosi al fallimento. Secondo le ultime direttive organizzative promosse da Xi Jinping, il PCC risulta un partito altamente democratico fondato sul centralismo, in cui tutti i membri hanno diritto di esprimere le proprie opinioni e nel rispetto del centralismo democratico devono attuare le decisioni della loro istanza; ma nello stesso tempo, se lo vogliono, hanno il diritto di comunicare all’istanza superiore, però in forma riservata, la loro opinione su un argomento non condiviso approvato nell’istanza in cui appartengono per permettere così la circolazione delle idee anche dal basso in alto.
Non si può pensare, quindi, di ricostituire organizzativamente il Partito comunista secondo il modello burocratico del PCI oppure secondo il mix di burocraticismo e liberalismo, come nel PRC, applicando il detto di Sergio Garavini nel 1991 di “essere liberamente comunisti”, mentre la direzione decideva in contrasto con quanto nella base si sosteneva. E nemmeno sono validi i modelli organizzativi dell’attuale PCI e del PC, mancanti di istanze oppure per la scarsa presenza di militanti senza un collegamento organico tra loro nelle istanze di tipo territoriale solo di nome (i cosiddetti comitati provinciali e regionali). Tuttavia molti compagni di queste organizzazioni, autocriticandosi per il loro soggettivismo passato, potrebbero contribuire nel Forum a dare un giusto contributo per la causa comune.
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