Sulla condizione dei comunisti in Italia: che fare?

di Marina Alfier

La “lettera aperta” di Fausto Sorini pubblicata il 7 settembre scorso su MARX21.it è assai stimolante non solo per l’interessante lettura dei fatti storici che hanno coinvolto i comunisti in Italia ma anche per le indicazioni ad uno “sbocco” possibile dalla palude in cui essi annaspano ormai da troppo tempo. Sono questioni dirimenti di fronte ad uno scenario di cambiamenti nel mondo; di fronte al fatto che per la seconda volta la Nato ha portato la guerra nel cuore dell’Europa e che si sta determinando un solco gigantesco tra Occidente e Oriente dal quale non vi sarà possibilità di ritorno; e’ in atto, nel bene e nel male, un processo irreversibile.

La domanda è: davanti a tutto questo i Comunisti oggi, dove sono e cosa pensano di fare? Vi è la consapevolezza del possibile cambiamento, della posta in gioco e del proprio ruolo ? Pare di no! Sorini ci incita a fare i conti con la nostra STORIA e io concordo con lui; non tanto per una questione di nostalgia, sentimento che non mi appartiene, ma semplicemente perchè se non ragioniamo lucidamente su ciò che siamo stati, accumuliamo errori e faremmo fatica a ritrovare il capo di un filo spezzato molto tempo fa.

Le  involuzioni del sistema, innegabili, scivolano dolorose sulla pelle delle nostre classi di riferimento, di coloro che un tempo chiamavamo “la nostra gente”, di quel proletariato che non ha più le sembianze che conoscevamo ma è pur sempre attraversato da uno sfruttamento enorme; quel proletariato che però ‘non ci riconosce più’  come avanguardia possibile. Non credo che questo sia un atteggiamento ingeneroso nei confronti dei comunisti, bensì che la classe, anche inconsapevolmente, ci arrivi ben prima di noi nel cogliere le dinamiche dello sfruttamento e questo ce lo dice il voto protestatario e il non voto.

La presenza residuale dei comunisti pesa molto. La fine del PCI ha segnato un inequivocabile spartiacque tra il prima e l’ora.

il colpo mortale sferrato dal capitale alla fine degli anni ‘80  è stato devastante ma è anche vero che esso è stato il colpo finale; la lenta distruzione del PCI è cominciata ben prima al suo interno. L’altrettanto colpo al cuore dell’Unione Sovietica ha devastato il proletariato mondiale ma ancora di più il movimento operaio italiano che aveva come riferimento il più grande Partito Comunista d’Europa. In parallelo CGIL che, nel bene o nel male, era cinghia di trasmissione del partito, è diventata ben altro; con gli accordi di luglio del 1992 si è sancita la fine del sindacato dei consigli, con una transizione verso il “nulla” fatta di parole vuote della serie ‘compartecipazione operaia allo sviluppo delle fabbriche’ ‘ partecipazione ai profitti padronali’ ‘fine dello scontro capitale-lavoro’. Di lì a poco avrebbe avuto inizio la destrutturazione dei poli industriali, le privatizzazioni, la miriade di contratti atipici e capestro per l’intero mondo del lavoro, pubblico e privato. La stessa divisione della contrattazione ha portato al massimo la contemporanea divisione dei lavoratori perfino all’interno dello stesso comparto e la diversificazione dei salari. Tutto questo per dire che non si può prescindere da quanto accaduto in quegli anni e che la destrutturazione del PCI non può essere considerata un evento casuale o spontaneo quanto piuttosto parte di un progetto delineato da tempo dai poteri forti nazionali e internazionali che hanno trovato un appoggio notevole tra i gruppi dirigenti del partito dell’epoca. Capire il come e il perché tutto questo sia potuto accadere è essenziale per non continuare a vivere  il senso del NON RISOLTO che ci portiamo dietro e che ci opprime.Non si comprenderebbero i 30 anni ingloriosi se non si analizzasse ciò che è stato, nella sua essenza, il PCI e quanto delle sue storture siano state traghettate nella Rifondazione fin dal suo esordio.

A grandi linee: abbiamo avuto a che fare con un partito nato più di 100 anni fa sulla spinta di forte propulsione della Rivoluzione D’Ottobre; costretto quasi subito ad una strutturazione militarizzata per far fronte al fascismo imminente. La storia iniziale del PCI è storia di clandestinità, di lotta armata, di guerra partigiana, di formazioni garibaldine e di GAP di città….è storia di Resistenza innanzitutto.Nell’immediato dopoguerra Esso continua ad essere finemente organizzato per l’attacco al sistema in prospettiva della trasformazione socialista (che allora era considerata alla base come cosa imminente; a poco era servito il sacrificio dei comunisti greci che ci avevano provato). Questa caratteristica radicata profondamente e che nel tempo verrà definita negativamente “doppiezza” si coglie bene studiando la guerra partigiana nel confine orientale (Veneto e Friuli  sarebbero dovuti diventare la porta di scambio verso l’Oriente, verso il socialismo in realizzazione).

Yalta arriva come una doccia fredda su una base che fatica ad accettare la riconversione in ‘partito di un paese che sarà parte del Patto Atlantico e quindi della Nato’. L’Italia ha perso la guerra e quindi sarà paese colonizzato dagli Usa che la riempiranno di basi militari. La spartizione di Yalta è del 1945; l’attentato a Togliatti,tre anni dopo, dimostrerà in modo evidente che nel PCI vi è ancora una base militarmente preparata e rimarrà tale fino a quando all’organizzazione ci sarà Pietro Secchia; La “normalizzazione” avrà inizio proprio quando Secchia verrà messo da parte. Il PCI comincerà a rientrare nelle compatibilità di un paese del patto atlantico e mi sono convinta che tutto il gruppo dirigente  ne fosse ben consapevole. Mi sono chiesta tante volte  se il decorso avrebbe potuto essere altro  e non mi sono data una risposta; ho però la certezza che il cambio di pelle, che è anche cambio generazionale, si consolida attorno agli anni 70, con maggiore spinta dopo il golpe cileno che sancisce la fine dell’illusione di una possibile trasformazione socialista per via cosiddetta democratica e non militare. Negli anni 80 il gruppo dirigente del PCI, già sufficientemente infiltrato da posizione revisioniste, conosceva già le varie tappe della trasformazione in atto e credo di non sbagliare se affermo che esse erano  note anche a quei dirigenti che saranno a capo della futura Rifondazione. Chi ha lavorato per la liquidazione del PCI era consapevole che ci sarebbe stata una base recalcitrante, che non avrebbe accettato facilmente un cambiamento epocale e soprattutto politico-culturale, nonostante esso fosse in atto da anni.

La dicotomia tra il gruppo dirigente liquidazionista e la base del partito è un elemento imprescindibile per capire ciò che è accaduto a quello “zoccolo duro” che faceva resistenza. Dopo la Bolognina quello “zoccolo duro” doveva essere collocato in un CONTENITORE A TEMPO in cui stratificare il dissenso e poco importa se in seguito aderiranno a Rifondazione altre componenti della cosiddetta sinistra di alternativa; esse saranno ininfluenti sul progetto pensato dal gruppo dirigente dell’ormai finito PCI. Dicevo contenitore a tempo perché esso doveva essere funzionale alle varie fasi della costruzione di quello che sarebbe diventato il PD di oggi; prima PDS, poi DS e quindi Partito Democratico, passando attraverso una simbologia che continuava ad avere una falce e martello di varie misure,sempre più ridotte, fino alla sparizione. Questo è anche il senso delle diverse scissioni da quella di Garavini a Cossutta, fino al periodo Bertinottiano che con il congresso del 2005 ha definitivamente liquidato la componente comunista di Rifondazione. Le scissioni collocate in archi temporali precisi sono riconducibili tutte ad un possibile ricongiungimento con quel soggetto politico partorito dopo la bolognina (pds,ds,pd).

Tornando ai 30  anni ingloriosi chiediamoci seriamente cosa ha impedito che RC diventasse un vero Partito Comunista degno di questo nome: 

  • l’assenza evidente di una progettualità politica funzionale al fatto che esso non avrebbe mai dovuto diventare un Partito Comunista.
  • Il giudizio sulla questione internazionale, sull’Unione Sovietica e sul socialismo reale. Abbiamo forse rimosso l’imbarazzo ogni volta che si provava ad aprire la discussione su questo? 
  • l’eclettismo e l’assenza di metodo di analisi; ma ciò che è maggiormente sintomatica è l’assenza totale di una proposta politica di programma fatta di tattica e di strategia in un contesto di capitalismo avanzato.

Siamo all’OGGI e la sfida gigantesca che abbiamo di fronte trova i comunisti impreparati e senza strumenti. RITIRARSI O PROVARE AD ESSERCI SENZA PERDERE IL FILO DELLA NOSTRA APPARTENENZA ORIGINARIA?

Io credo che si debba raccogliere la sfida e Sorini fa delle proposte ben delineate: l’ambito dentro al quale provare una nostra strutturazione, tanto più necessaria se i comunisti dovranno operare all’interno di un FRONTE ampio. Sulla guerra innanzitutto, trovare convergenze non è più rinviabile, ma anche come sponda forte e resistente su tutta la partita del Lavoro. Credo sia sbagliato avere obiettivi irraggiungibili; oltre a non essere credibili si rischierebbe di poggiare ancora una volta la nostra azione su pie illusioni. Ci sono ora, più di ieri, temi forti che trovano una sensibilità di massa  che non possiamo, da comunisti comunque collocati, continuare ad ignorare.

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