dal gruppo I Comunisti di Arezzo
Il XX secolo – “Il secolo breve” – è stato segnato, qui in Italia, anche dalla pervasiva presenza del Partito Comunista Italiano, la più grande forza organizzata della classe operaia in Occidente. Le occasioni per riflettere sul suo inglorioso scioglimento, benché, per nostra disgrazia, si siano presentate fin troppo spesso, sono state tutte sprecate. A una approfondita analisi critica si è sostituita, il più delle volte, una sterile ‘pornografia’ dei sentimenti, incapace, è ovvio, di dare impulso ad una seria discussione sulla storia del P.C.I., dalla ricostruzione postbellica al crollo del Muro di Berlino. Inoltre molti di noi avrebbero dovuto fare i conti con i propri errori e con le proprie personali manchevolezze: e, pour cause, se ne sono ben guardati.
Oggi, a ben vedere, la militanza sopravvive, quando sopravvive, soltanto nell’acquario dei Social, che alimentano, giovandosene, la nostra sterile impotenza. Si tratta, in fondo, solo di un espediente, come un altro, per sentirsi meno soli. Un fenomeno, quest’ultimo, che potremmo perfino giudicare con indulgenza, considerando la profonda disillusione che ha stordito le menti di chi, nato dopo la guerra, ha speso parte almeno della propria esistenza nella militanza politica.
Fatte queste premesse, è probabilmente superfluo sottolineare come il nostro gruppo – I Comunisti di Arezzo – dopo aver dato credito a tutti i tentativi – da Rimini in poi – di ricostruzione di un Partito Comunista in Italia oggi sopravviva, procedendo, prevalentemente se non esclusivamente, lungo lo stretto binario predefinito, su Facebook, dagli algoritmi gestiti da META. Pertanto sappiamo bene che tentare di contrastare la marea montante delle ‘informazioni mainstream’ è una fatica di Sisifo. Non è un mistero, del resto, che la quasi totalità, il 95%, del flusso delle informazioni è controllata da poche agenzie di stampa: AP-Associated Press, Reuters e AFP (Agence France-Press).
Alla prova dei fatti, dopo le “riforme” degli ultimi quarant’anni e dopo innumerevoli sconfitte, l’unica cosa che ci rimane, perché fino ad adesso non sono riusciti ancora a sottrarceli, sono – e in senso stretto – gli enunciati dei Princìpi Fondamentali (artt. 1-12) della Carta Costituzionale del 1948. Il progetto politico e istituzionale che ha loro conferito vita e sostanza, in particolar modo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, è stato – inutile sottolinearlo in questa sede – progressivamente stravolto o sovvertito perfino da chi avrebbe avuto il dovere morale e civile di difenderlo: innanzi tutto i Giudici della Corte Costituzionale e, dopo l’uscita di scena del grande Sandro Pertini, i tanti Presidenti della Repubblica che, al pari di chi celebra i misteri di un Dio in cui non crede, esaltano ritualmente la Carta Costituzionale, pur oltraggiandola e sconciandola.
La domanda fondamentale – quella che ancor oggi, purtroppo, non risulta chiara, nei suoi termini reali, a gran parte di quelli che si autoproclamano comunisti – è se sia possibile, nel quadro istituzionale definito dai Trattati Europei (Trattato Unione Europea, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, Fiscal Compact, MES, etc.) perseguire l’obiettivo di trasformare la società in aderenza ai princìpi enunciati dalla nostra Costituzione. Ovviamente nessuno riuscirebbe a coordinare insieme, nelle concrete prassi politiche e istituzionali, l’art. 4 1° comma della nostra Costituzione, che impegna la Repubblica a promuovere e a perseguire il pieno impiego, e il Fiscal Compact, un dispositivo che impone tagli progressivi alla spesa pubblica, pur in presenza di una dilagante disoccupazione di massa. Nessuno riuscirebbe a conciliare il principio dell’uguaglianza sostanziale, autentico cardine del nostro regime democratico (art. 3 2° comma), con l’unica libertà che sta a cuore a chi ha elaborato le discipline normative poste a fondamento della U.E., vale a dire la libertà di circolazione dei capitali. Insomma, è impossibile tenere insieme, nel medesimo quadro istituzionale, la democrazia economica prefigurata dai nostri Costituenti (da Giorgio La Pira a Lelio Basso) con le dottrine neoliberali e ordoliberali che sorreggono la greve impalcatura europea.
La crisi del P.C.I. è stata, anche e soprattutto, crisi di una classe dirigente (è inutile far nomi) che, al di là delle sue manchevolezze morali, aveva perso, come si è scritto, il contatto con la realtà, scambiando l’internazionalismo con l’europeismo, il rifiuto di ogni forma di sciovinismo con il dileggio della patria e della nazione, la rivoluzione dei costumi con la rivoluzione tout court.
Cosa fare allora? Innanzi tutto occorre ricominciare a studiare e a riflettere, perché, come diceva Antonio Gramsci, attraverso la cultura «si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri».
Ovviamente studiare non basta. Sarebbe necessario – e lo diciamo noi che siamo, per lo più, o pensionati o piuttosto prossimi a questo traguardo – intercettare l’interesse dei dirigenti e dei militanti dei sindacati di base (USB e Unicobas), perché il nuovo partito, come il Partito Socialista (rectius dei Lavoratori) nel 1892, può nascere soltanto in un terreno già vivificato da reti profondamente radicate nel mondo del lavoro. Inoltre esso, al di là del nome che vorrà assumere, dovrà essere un partito di classe inaccessibile, per principio, a ‘leaderini’ di provenienza piccolo o medio-borghese.
È forse superfluo, a questo punto, sottolineare che condividiamo la proposta di Fausto Sorini: in effetti, mai come oggi, appare necessaria una riflessione preliminare e collettiva di tutti coloro che, collocati in differenti partiti, associazioni e gruppi, si definiscono comunisti o (perché no?) socialisti rivoluzionari. Accogliamo con favore l’idea di un ‘forum di discussione’ che approfondisca tutti gli argomenti che si vorranno proporre all’attenzione dei compagni.
Per altro verso – soprattutto al fine di coinvolgere in un dibattito più ampio anche quanti si riconoscono in tradizioni politiche differenti dalla nostra, dalla socialdemocrazia al cristianesimo sociale – il nostro gruppo ha particolarmente insistito, negli ultimi due anni, sul valore unificante del progetto politico iscritto nei Princìpi fondamentali della Costituzione. Occorre lavorare su due piani distinti: organizzare, da un canto, un nuovo e radicato Partito dei Lavoratori, costituire, dall’altro, un Fronte Popolare più vasto, che si proponga, oltre alla difesa a oltranza delle ragioni del lavoro, la piena restaurazione della sovranità democratica e, di conseguenza, l’uscita dell’Italia dalla NATO e dalla UE. Per questa ragione, tra le altre cose, abbiamo fondato un’Associazione culturale, denominata Sovranità Popolare e Costituzione (sito web www.sovranitapopolareecostituzione.it), allo scopo di divulgare, anche in circoli estranei alla militanza comunista, una serie di informazioni indispensabili per decostruire la retorica europeistica e per contrastare le controriforme della nostra Carta Costituzionale.
Ben venga quindi, come auspica il compagno Sorini, una discussione serrata sulle ragioni della nostra disfatta e sul nostro difficile presente.
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