di Giorgio Franchi
Il dibattito che si sta sviluppando attorno alla situazione del movimento comunista in Italia è estremamente interessante, forse lo si sarebbe dovuto avviare seriamente molti anni fa, forse anni fa la platea semplicemente non sarebbe stata pronta per affrontare un dibattito simile al di là delle semplici frasi fatte.
I contributi fino ad ora ospitati sono stati una piacevole sorpresa ma mi inducono a fare una serie di riflessioni che potrebbero risultare sgradite a qualcuno; di ciò me ne scuso anticipatamente ma tengo a precisare che quanto segue non vuole essere in alcun modo un attacco a chicchessia ma piuttosto una serie di pensieri maturati da discussioni (interminabili) fra compagni ed ex-compagni e di cui i contributi apparsi su Marx 21 sono un esempio. In tutte queste discussioni sono emersi una serie di comuni denominatori:
1) Il vecchio PCI. Spesso e volentieri nelle discussioni emerge il “ricordo” e la “nostalgia” del PCI che fu e la volontà di restaurare i vecchi fasti. La domanda che mi pongo è: ha senso voler tornare agli antichi fasti? Il PCI dalla svolta di Salerno in avanti era figlio dell’ordine di Yalta, un ordine geopolitico dismesso, che imponeva la dismissione del partito rivoluzionario e la sostituzione con uno di fatto riformista. Oggi un PCI come lo conoscevamo probabilmente sarebbe semplicemente fuori dalla storia, in parte per le mutate condizioni geopolitiche ed in parte perché il paradigma che sottende il dispiegarsi della società odierna è semplicemente differente, o meglio, se continuano ad essere presenti tutti gli elementi regolarità del sistema capitalista è altresì differente il modus operandi degli stessi. Partendo da Togliatti, passando per Enrico Berlinguer ed approdando ai miglioristi, non penso vedere che un comune denominatore: la rinuncia del PCI ad essere un partito rivoluzionario, prima sottommessamente e poi sfacciatamente; quindi la svolta della Bolognina è semplicemente stato l’apice di un processo ineluttabile, l’eutanasia di un involucro vuoto: di fatto la maggioranza del partito non era semplicemente più comunista, ecco spiegato perché la maggior parte del partito è poi confluito nel PDS, ammesso e non concesso che si voglia credere alla favola dei militanti ingannati (ed aggiungo io gonzi). In base a quanto sopra esposto penso che nel dibattito, al di là del dato meramente storico, abbia un senso molto relativo starsi a scervellare su cosa possa essere salvato o meno del vecchio PCI (riformista): le discussioni su “Ma in realtà Togliatti voleva ….”, “Pietro Secchia era un grande …”, “Maledetti miglioristi!”, ecc. sono discussioni che lasciano il tempo che trova in una società profondamente mutata e che non interessa minimamente le masse interessate a ben altro (ne parlerò sotto).
2) Quando c’era il PRC. Preso atto che il PDS-DS-PD ormai è un totalmente altro e che quindi non può essere additato come l’alter-ego capro espiatorio, sembra quasi che il vero punto di svolta sia stato il PRC con tutte le sue contraddizioni. Vale piuttosto la pena chiedersi quale PRC! Non so chi di voi ne ha avuto la tessera ma io ho sempre avuto l’impressione che “Rifonda” fosse non un partito ma un insieme di micropartiti più impegnati a farsi la guerra interna piuttosto che al capitalismo. Onestamente penso che non potesse essere diversamente non solo per la diversità di vedute interne, ma soprattutto perché nei fatti si portava dietro la tara riformista con un problema sostanziale in più: la mancanza di presa sulle classi lavoratrici. Ecco spiegato, a mio modesto parere, lo spostamento su tematiche inerenti i diritti civili oggi smaccatamente woke e il progressivo abbandono dei diritti sociali. Già il fatto che oggi esistano più militanti comunisti, anche in senso lato, fuori dal circuito sindacale dovrebbe destare non poche perplessità. Se il vecchio PCI era tarato per sopravvivere in una Italia in espansione economica e con forti impulsi del “capitalismo di stato”, ciò che ne è seguito era tarato per morire a prescindere.
3) Gruppi, gruppetti e gruppettari. Preso atto del divorzio fra masse lavoratrici e comunisti sono rimasti gli ultimi mohicani, divisi in tante sigle condominiali o poco meno, estremamente ideologizzati ed impegnati a diffidarsi reciprocamente. Indubbiamente aggueriti ed intransigenti, con una base militante esigua ma generosa ma pur sempre staccati dalla realtà effettiva della becera e poco eccitante quotidianità che ammette poche menate ideologiche e molte soluzioni pratiche. E qui arriviamo al famoso “Che fare?”
I compagni Burgio, Leoni e Sidoli fanno una proposta molto pratica: iniziamo a censirci. Hanno ragione da vendere perché se non sappiamo chie quanti siamo e soprattutto cosa possiamo fare è inutile ogni altro discorso. Eventualmente ciò che mi lascia perplesso sono le due condizioni preliminari che sanno molto da Fronte Popolare “de noantri” costruito su una contingenza storica e l’elettoralismo a partire da realtà che nei fatti, in questi anni, hanno dimostrato di non rappresentare nessuno ma che di punto in bianco dovrebbero divenire ultra rappresentative o minimamente rappresentative.
Il contarsi va bene, va bene anche il dialogo, va ancora meglio costituire questa benedetta unità che ormai è leggendaria come il “Santo Graal”; il problema è il come, ma quello ancora più grosso è a quale scopo.
Come? Preso atto che ormai i comunisti superstiti, veri o presunti, sono divisi in gruppi ultraideologizzati le opzioni sono sostanzialmente due:
1) aprire una serie di interlocuzioni fra gruppi ideologicamente omogenei: trovo piuttosto inverosimile che i bordighisti possano interloquire con i terzointernazionalisti, o chi se ne frega con chi se ne importa. Tanto vale censirsi in autonomia su basi ideologiche sperando che ovviamente che i soliti generali senza esercito non vogliano giocare ai capi rivoluzionari di turno; è inutile che ce la raccontiamo: i personalismi molto spesso stanno alla base di molte divisioni.
2) operare trasversalmente, ovvero creare un’associazione di scopo che riunisce espoenenti di differenti sigle che operano fattivamente per creare spazi di dialogo internamente al proprio partito/gruppo di riferimento. Questa scelta ha iniziato a prendere piede quando si è dovuto amaramente constatare che i personalismi dei vari generali senza esercito è un fattore esiziale di straordinaria importanza e, non ultimo, purtroppo molti che si definiscono comunisti non lo sono affatto e vanno semplicemente isolati e respinti: sono privi di basi ideologiche e vivono sul doppio binario ciò che pensano sia il comunismo e ciò che è effettivamente (sono quelli per intenderci che se domani si trovassero a vivere in un paese socialista lo contesterebbero ferocemente perché “è contro la libertà!”). A titolo personale ho scelto di operare trasversalemnte unitamente ad altri compagni; può risultare una scelta per certi versi antipatica, ma la storia recente ci insegna che la somma matematica sui generis e/o discopo delle forze, quasi sempre e regolarmente, si traduce nell’ennesima sconfitta a tutto campo.
Tuttavia ritengo che il vero interrogativo a cui rispondere è “A quale scopo ci si unisce?”: qui si parte sempre dal presupposto che l’unità sia la chiave di volta per uscire dall’irrilevanza in quanto “siamo divisi e quindi non siamo credibili”, “divisi non contiamo” e così via. È ovvio che ci si deve unire per qualcosa e attualmente mi pare di capire che quel qualcosa non esiste per il fatto che non stiamo dando risposte concrete; non diamo risposte concrete perché come ho esposto nel punto 1 bene o male siamo figli, diretti e indiretti, di quel vecchio PCI “tarato” su una società postbellica con una capitalismo keynesiano in espansione ed allora bastava solo dire “Più soldi qui e meno lì”, “Quello non va bene …”. Oggi ci troviamo davanti ad una struttura socio-ecnomica capitalista in profonda ristrutturazione, distruttiva ed autodistruttiva, e non riusciamo a formulare limpidamente un idea chiara di quale società vogliamo e come questa deve essere organizzata perché vi sono “le diverse sensibilità”, allora si chiamava frazionismo ideologico. Non ultimo, se è vero che i proletari ormai non prestano il fianco alle forze della decotta democrazia borghese, è anche vero che bellamente se ne infischiano dei comunisti per il semplice fatto che, divisioni o meno, semplicemente non propongono nulla di concreto rimandando tutto a quando verrà fatta la rivoluzione che oggi non è possibile, domani forse, ma dopodomani probabilmente. Le masse lavoratrici sono ormai smaliziate e non si fidano più di chi non da soluzioni fruibili anche nell’immediato, ma ciò significherebbe per i comunisti mettersi seriamente in discussione e prendere posizioni su temi spinosi volutamente elusi perché “possono essere fraintesi”, a titolo di esempio e solo per citare quelli più attuali: l’ideologia gender piuttosto che i contraccolpi dell’immigrazione di massa, la questione sicurezza piuttosto che l’impatto dell’ IA sul mondo del lavoro. A questo si aggiunge, ammesso e non concesso che sia voglia prendere una posizione chiara, la mancanza di una preparazione specifica dei quadri politici su specifici temi: fiscalità piuttosto che la difesa, politica bancaria piuttosto che quello che volete, ammesso che non si voglia credere alla panzana anarchica della forza creatrice del popolo in cui il partito va semplicemente a farsi benedire per inutilità. In definitiva, va bene l’unità, ma che unità sia rispolverando non i fasti del vecchio PCI bensì quelli terzointernazionalisti in cui il modello meramente contestario tipico del 68 in avanti viene archiviato definitivamente.
Unisciti al nostro canale telegram