Risposta a coloro che consigliano ai comunisti indiani, dopo la loro ultima sconfitta elettorale, di diventare socialdemocratici

di Prabhat Patnaik*, Partito Comunista dell’India – Marxista | da Solidaritè Internationale

Traduzione dal francese di Massimo Marcori per Marx21.it

 

comunisti indiani*Prabhat Patnaik, economista, è membro del Partito Comunista dell’India (Marxista)

 

Su una catena televisiva, nel giorno dello spoglio, gli ospiti commentando i risultati elettorali erano invitati ad offrire i loro consigli alla sinistra (in India, la sinistra è strettamente identificata con i comunisti e non con i socialdemocratici e liberali di sinistra del Partito del Congresso), che stava perdendo i due grandi Stati che dirigeva, di cui uno abbastanza ampiamente, sul modo in cui essa dovesse riformarsi in vista di una futura rinascita.

 

L’opinione dominante era che occorreva dimenticare Lenin e, come spiegava il presentatore, diventare “socialdemocratici”. La sinistra, presumo, dovrebbe essere riconoscente a questi ospiti di essere così preoccupati del suo futuro; la domanda da porsi è: bisogna seguire i loro consigli e diventare socialdemocratici?

 

La differenza centrale tra la socialdemocrazia e il comunismo risiede nell’assunzione da parte di quest’ultimo della categoria di imperialismo; le altre differenze ne conseguono. Infatti, la fondamentale scissione in seno alla II Internazionale sull’atteggiamento da adottare di fronte alla prima guerra mondiale è nata da una differenza di vedute sull’imperialismo.

 

Da un lato, i socialdemocratici che hanno sostenuto gli sforzi di guerra dei loro rispettivi paesi poiché non la percepivano come una “guerra imperialista”; dall’altro, quelli che non solo non erano disposti ad agire in tal modo, poiché vedevano questa guerra come una “guerra imperialista” con la quale le rispettive borghesie monopoliste tentavano di metter mano su nuovi “territori economici”, ma che volevano allo stesso tempo trasformare la “guerra imperialista” in “guerra civile” per il rovesciamento dell’ordine capitalistico monopolista, che faceva combattere i lavoratori di un paese contro i loro fratelli di un altro paese nelle trincee (una terza posizione tra le prime due, che tentava di riconciliare queste posizioni inconciliabili, ha perso progressivamente ogni influenza).

 

Il secondo gruppo di socialdemocratici si è staccato dai propri partiti di origine per formare partiti comunisti e questo comprendeva non solo Lenin ma anche Rosa Luxemburg che, malgrado le numerose differenze con Lenin, aveva assistito al congresso fondativo del Partito comunista tedesco una quindicina di giorni prima del suo assassinio. Questo evidenzia la centralità della questione dell’imperialismo nella posizione comunista nei confronti dei socialdemocratici.

 

E, legato a tale questione, c’è il carattere insuperabile del sistema: se il capitalismo può essere trasformato in un sistema pacifico, non imperialista, non aggressivo, come i socialdemocratici credono possibile, allora questo può anche essere “umanizzato”, e ogni necessità urgente di superarlo tramite il sistema scompare.

 

Consigliare ai comunisti di diventare socialdemocratici significa dunque chiedere nuovamente loro di abbandonare non solo il loro obiettivo fondamentale del socialismo, ma anche la loro accanita opposizione all’imperialismo; infatti uno degli invitati alla trasmissione televisiva menzionata prima ha esplicitamente chiesto ai comunisti di dimenticare “l’imperialismo”.

 

La più stridente differenza tra i comunisti e la maggioranza delle ONG, comprese alcune altamente progressiste come quelle legate al Forum sociale mondiale, riguarda precisamente l’imperialismo. L’opposizione alla guerra in Iraq o agli interventi americani, che possono esprimere numerose ONG progressiste, non significa necessariamente l’accettazione del concetto d’imperialismo (anche quando gli interessi materiali che sottintendono tali interventi sono riconosciuti), poiché questi possono essere visti come avvenimenti episodici. I comunisti non percepiscono l’imperialismo come un seguito di episodi, ma come un ordine coerente che nasce dalla natura stessa del capitalismo.

 

Sono illuminanti della natura dell’imperialismo episodi come l’assassinio di Osama bin Laden che hanno violato tutte le regole del diritto internazionale. Un paese ha inviato truppe per attaccare un bersaglio in un’altra nazione sovrana, con piena carta bianca; ha ucciso un uomo disarmato che non offriva alcuna resistenza di fronte alla sua famiglia; è stato prelevato il suo corpo ed è stato gettato nel mare. Osama bin Laden può essere stato un malvagio, ma ciò che qui è in questione, in primo luogo, è l’atto di aggressione contro un paese sovrano, in secondo luogo il carattere eticamente e legalmente discutibile di uccidere una persona senza il minimo processo, cosa che non si è negata agli assassini di massa nazisti.

 

Tuttavia, quando Fidel Castro e Noam Chomsky hanno levato le loro voci su tali questioni, c’è stato un silenzio quasi totale al riguardo, come d’altronde sui bombardamenti della Libia da parte della Nato, che costituisce una violazione del diritto internazionale (indipendentemente dal carattere dittatoriale del regime di Gheddafi).

 

Non esiste alcun dubbio che vi sono meno sostenitori del concetto di imperialismo oggi di quanti ve ne fossero in epoca coloniale, dove l’ordine imperiale era palpabile. In particolare, il clamore attorno ai tassi di crescita del PIL in India e in Cina danno l’impressione oggi che l’asimmetria precedente tra un primo e un terzo mondo, implicita nel concetto di imperialismo, sia scomparsa, e che quest’ultimo emerga come una riproduzione del primo. Questa pseudo riproduzione, tuttavia, è evidentemente falsa: a dispetto di tassi di crescita elevati, la popolazione lavoratrice in India e in Cina continua ad essere costituita essenzialmente da contadini (tra cui contadini senza terra) e da piccoli produttori, sempre più indeboliti da una tale crescita.

 

Inoltre, questo sedicente livellamento di differenze tra nazioni ha rafforzato, e non indebolito, la posizione del capitale del primo mondo. Ad esempio, gran parte delle esportazioni cinesi che sostengono la sua forte crescita è dovuta alle grandi imprese americane che hanno installato le fabbriche in Cina per riesportarle verso la loro economia d’origine. I capitali di queste grandi imprese hanno conosciuto una forte crescita come le altre “economie emergenti”, ma queste solo integrandosi al capitale metropolitano e a detrimento del loro stesso popolo.

 

Così il concetto di imperialismo non ha perduto nulla della sua importanza tanto nel suo aspetto sociologico (il capitalismo guadagna terreno sui produttori pre-capitalisti) che nel suo aspetto spaziale (il capitale della metropoli impone un ordine in cui si appropria delle risorse e dei beni fondamentali del mondo intero).

 

Ma ottenere risorse dall’esterno invece di produrle da sé, non è giustamente questo il commercio? Perché si dovrebbe chiamare questo commercio “espropriazione”? Poiché ciò che sottintende quello che appare come commercio normale, è un complesso meccanismo che comprime deliberatamente la domanda dei lavoratori del terzo mondo per “liberare” risorse esauribili e beni che possono essere prodotti solo in certi territori tropicali per l’utilizzo del capitale metropolitano. In epoca coloniale, questa compressione era organizzata tramite la fiscalità imposta dal regime coloniale e il rimpatrio senza alcuna controparte dei beni sui quali poggiavano queste entrate fiscali. Oggi, questa compressione si svolge con tutta una varietà di misure neoliberali, ciascuna delle quali limita il potere di acquisto dei lavoratori.

 

Tale compressione, essenza dell’imperialismo, nasce a sua volta da un’asimmetria: queste risorse e beni cioè, non sono affatto producibili o non possono essere prodotti in quantità sufficienti all’interno dei paesi metropolitani, ma i beni e i servizi prodotti nelle metropoli possono, una volta conclusi adeguati accordi, essere sempre prodotti nelle economie del terzo mondo.

 

La pratica comunista deve scaturire dalla teoria, la cui verifica rappresenta l’indicatore della sua correttezza, non la capacità di acchiappare voti qua e là. Il loro “dimenticate l’imperialismo”, come gli ospiti gli consigliano, non solo ne farebbe un partito come gli altri e dunque storicamente senza importanza, ma lo costringerebbe anche ad abbandonare la resistenza all’imperialismo, che continuerà ad esistere qualunque cosa succeda, ai terroristi, ai fondamentalisti religiosi e agli Osama bin Laden.

 

La riforma che essi devono avviare non deve abbandonare il concetto di “imperialismo”, ma al contrario devono considerarlo con maggiore attenzione. I comunisti devono anche essere ancora più attenti ad apportare alle classi di cui cercano di difendere gli interessi, operai, contadini, operai agricoli, un aiuto per farli uscire dallo sconforto (causato dall’usurpazione dell’imperialismo e dagli interessi delle imprese nazionali).

 

A tal fine, essi devono aprire uno spazio nel partito per il dibattito, la discussione o addirittura la contestazione, affinché divenga la piattaforma dell’attività intellettuale, piuttosto che un’entità monolitica dove la decisione presa, su ordine di certi burocrati o satrapi locali in uno Stato guidato dalla sinistra, è difesa, come dovere rivoluzionario, dai suoi militanti e simpatizzanti nell’insieme del paese.

 

Si può chiedere: questo non è essere “socialdemocratici”? La risposta è no. Rosa Luxemburg rifiutava la socialdemocrazia e, lei e Karl Liebknecht, sono stati uccisi dai militari sotto un governo socialdemocratico; e lei non credeva al monolitismo. Lenin neppure. Quando il governo rivoluzionario assediato ed accerchiato ha firmato sotto la sua direzione il Trattato di Brest-Litovsk, a dispetto delle obiezioni di Bucharin e di altri, questi ultimi sono usciti con una rivista teorica, Kommunist, per attaccare il trattato, che né il governo bolscevico né il partito non avevano allora vietato in questo periodo particolare. Un maggior spazio per la discussione contraddittoria nel partito non è sinonimo di socialdemocrazia.

 

Dunque, il consiglio ai comunisti di diventare socialdemocratici, non riflette che l’allineamento dell’élite indiana all’imperialismo e il suo allontanamento dagli interessi delle classi lavoratrici.