di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Le seimila parole del comunicato ufficiale, giunto al termine della tre giorni di sesto plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese dello scorso ottobre, hanno indicato in Xi Jinping il “nucleo di vitale importanza” dell’attuale generazione di governo. Il segretario generale del Pcc e presidente della Repubblica popolare si è visto quindi riconosciuto un titolo che, pur privo di poteri definiti, lo accomuna a predecessori come Mao, Deng Xiaoping e Jiang Zemin, rafforzandone il potere in vista del congresso del partito previsto per il 2017, e decretando una centralità nel processo decisionale che nei primi cinque anni del suo mandato si è costruito anche attraverso l’istituzione di organi consultivi (dalle riforme alla sicurezza nazionale), che lo vedono personalmente alla guida, e qualifiche insolite come quella di “comandante in capo” dell’esercito.
Storicamente il termine di “nucleo” è stato introdotto da Deng in un frangente critico, di fatto eccezionale, come quello immediatamente successivo ai fatti di Tienanmen del 1989, per sostenere la nomina di Jiang Zemin a segretario dopo la rimozione di Zhao Ziyang: c’era, allora, da porre la leadership degli “anziani” a sostegno di una nuova generazione di governo, collegandola ad un predecessore quale Mao, a sua volta definito “nucleo” della prima generazione.
Il precedente storico nella sostanza non è estraneo alla decisione presa il mese scorso: a giustificarla sono richiamate le sfide a cui deve fare fronte il Paese quali il nuovo modello di crescita economica, la corruzione, le tenuta del partito nei confronti di una società profondamente cambiata e le sfide in campo internazionale.
Serve, insomma, una guida forte, ma non si può decretare Xi come vincitore assoluto, come un “imperatore”, perché la Cina post-maoista rifiuta da almeno quattro decenni ogni possibile sbocco autocratico e un eccessivo accentramento di potere. Lo stesso plenum – segnalando se non proprio divisioni, almeno dei dubbi e delle incertezze – ha ribadito la necessità della “direzione collettiva” come un “principio organizzativo fondamentale” che non deve essere minato da alcuna persona o organizzazione, e della “consultazione” (ascoltare le voci “provenienti dai quattro mari e dai cinque laghi”), vale a dire l’intolleranza ad ogni potere incontrollato e la necessaria opera di sorveglianza nei confronti di ogni membro del partito (“nessuno è al di sopra della disciplina di partito”). Siamo ancora lontani, insomma, dal poter decretare come in molti fanno, la fine della leadership collettiva: il segretario del partito e presidente della repubblica agisce e agirà ancora attraverso diversi meccanismi di controllo e supervisione.
In questo quadro è lecito affermare che la sanzione ufficiale del rafforzamento di Xi Jinping non sia una delega in bianco, la resa di un partito all’uomo solo al comando, ma più un avvertimento indirizzato a tutta la burocrazia di partito e, soprattutto, ai governi locali che in alcuni casi si sono disallineati rispetto alle politiche centrali, timorosi delle possibili conseguenze sociali delle riforme economiche: acquisito il consenso nelle “alte sfere”, l’obbedienza va garantita in quelle inferiori.
Il senso del percorso è poi da decifrare: il maggiore potere acquisito servirà per accelerare sulla strada della liberalizzazione economica e governare tutte le possibili conseguenze (si pensi alla recente manifestazione spontanea a Pechino di militari che rischiano il taglio), oppure – più probabile – per aumentare le capacità di controllo del partito (meno pletorico ma più omogeneo) sull’economia e sul Paese come sembrano suggerire i richiami dello stesso Xi Jinping sulla presenza strategica del partito stesso all’interno delle potenti e globalizzate aziende di Stato e alla disciplina ideologica? Difficile capirlo prima del congresso del 2017.