Il Partito Comunista Sudafricano al 19° Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai

sacp logo 500pxPartito Comunista Sudafricano (SACP)
solidnet.org

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Pietroburgo, 2-3 novembre / Mosca, 5-7 novembre 2017

“A 100 anni dalla Grande Rivoluzione Socialista di Ottobre: gli ideali del movimento comunista per rivitalizzare la lotta contro le guerre imperialistiche, per la pace e il socialismo”

L’importanza della Rivoluzione Russa per il Sudafrica

Gli eventi drammatici che ebbero luogo in Russia verso la fine del 1917 furono seguiti con ansia, per quanto possibile, da un piccolo gruppo di socialisti radicali dell’estremo sud del continente africano. Il 16 novembre 1917, a meno di due settimane dall’inizio della rivoluzione bolscevica, il loro quotidiano, The International, pubblicò un editoriale intitolato I grandi avvenimenti in Russia:

«I notiziari relativi alla rivoluzione in Russia sono giorno dopo giorno così confusi e contraddittori che è vano tentare di ricavarne delle informazioni», commentava l’editoriale. Nondimeno, percependo che stava accadendo qualcosa di importante, l’articolo osservava correttamente che «l’ala massimalista [bolscevica] del Partito Socialdemocratico ha aumentato la propria forza dopo la rivoluzione politica». L’editoriale si concludeva con un ammonimento: «Se i socialdemocratici fallissero, possiamo attenderci il più sanguinoso massacro mai registrato dalla storia ai danni dei lavoratori di Pietrogrado. Viva la Rivoluzione Sociale, luce dell’Oriente».

Alcuni mesi dopo, nel marzo 1918, mentre in Russia si scatenava la controrivoluzione guidata dagli imperialisti, The International esortò la classe operaia sudafricana a mostrare solidarietà ai compagni russi: «Lavoratori del Sudafrica! Sollevatevi dalla soggezione e dal letargo, e dimostrate che non vi lascerete ingannare dal perfido complotto del Capitale Internazionale ai danni dei lavoratori russi. La causa dei lavoratori russi è la vostra causa. Lavoratori di tutto il mondo, UNITEVI. Avete un mondo da guadagnare». I riferimenti alla «soggezione» e al «letargo» della classe operaia sudafricana inducono a ritenere che il collettivo di The International si sentisse in qualche modo isolato nel suo entusiasmo e nella sua preoccupazione per gli eventi in corso in Russia.

The International era l’organo dell’International Socialist League (Lega Socialista Internazionale, ISL) che, in una scissione analoga ad altre verificatesi nel movimento socialista dell’epoca, si era distaccata nel 1915 dal South African Labour Party (Partito Laburista Sudafricano). La rottura era avvenuta a causa dell’opposizione in linea di principio al sostegno fornito dal Partito Laburista Sudafricano alla partecipazione del neonato governo dell’Unione Sudafricana alla prima guerra mondiale inter-imperialista. L’ISL costituì il nucleo di quello che nel 1921 sarebbe divenuto il Partito Comunista del Sudafrica (Communist Party of South Africa, CPSA), affiliato all’Internazionale Comunista.

A portare le tradizioni socialiste radicali in Sudafrica furono lavoratori e professionisti bianchi, attirati nel Paese soprattutto dall’industria mineraria, che visse un enorme boom verso la fine dell’Ottocento, e nuovamente in seguito alla fine della guerra anglo-boera al volgere del nuovo secolo e all’istituzione dell’Unione Sudafricana come dominion britannico nel 1910. Un’altra precoce influenza socialista radicale fu quella esercitata dagli immigrati ebrei in fuga dai pogrom scatenati nella Russia zarista e nell’Europa orientale. Quest’ultimo gruppo aveva legami con alcuni protagonisti degli eventi rivoluzionari in corso nella remota Europa orientale.

Verso la fine del 1918, il collettivo dell’ISL iniziò a nutrire maggiore ottimismo riguardo alla rivoluzione russa. Il collettivo pubblicò un opuscolo intitolato «Arrivano i bolscevichi» (The Bolsheviks are Coming), sia in inglese sia in isiZulu e seSotho, che si rivolgeva «AGLI OPERAI DEL SUDAFRICA – NERI E BIANCHI». L’opuscolo proclamava: «La speranza degli operai è nel bolscevismo. In Russia oggi la libera repubblica dei lavoratori è una realtà concreta».

«Bolscevismo significa vittoria dei salariati. Presto esso si diffonderà in Gran Bretagna, Francia, America e in tutto il mondo. Preparatevi per la Repubblica Mondiale dei Lavoratori».

È evidente che in quel momento il collettivo dell’ISL condivideva la convinzione dei bolscevichi stessi secondo cui la Rivoluzione d’Ottobre costituiva un catalizzatore nell’ambito di una società semi-periferica che avrebbe ben presto innescato rivoluzioni socialiste nelle società capitaliste più avanzate dell’Occidente. Il calcolo strategico era che la diffusione verso occidente (e presumibilmente soltanto verso occidente) della rivoluzione avrebbe creato le condizioni tanto per la difesa quanto per il consolidamento del socialismo in Russia, nonché per una futura rivoluzione mondiale.

Come sappiamo, tuttavia, dalla Rivoluzione d’Ottobre era destinata a emergere una traiettoria diversa. Tale traiettoria avrebbe avuto importanti conseguenze per la lotta socialista in Sudafrica, così come in gran parte del mondo.

La Rivoluzione d’Ottobre e il ruolo strategico critico di Lenin

Rispetto a tutte le altre rivoluzioni sociali precedenti, tanto le tempistiche quanto il carattere della Rivoluzione Russa dell’ottobre 1917 furono determinati da una teoria programmatica strategica. Come ha scritto di recente Prabhat Patnaik, la Rivoluzione Bolscevica non fu un colpo di Stato, ma non fu nemmeno un evento estemporaneo e puramente spontaneo. Diversamente dalla Comune di Parigi, o dall’insurrezione russa del febbraio 1917, la Rivoluzione d’Ottobre fu guidata e diretta da una strategia programmatica, fondata su un’analisi marxista della realtà concreta. Il ruolo strategico e organizzativo di Lenin fu, a tale riguardo, assolutamente centrale.

Al centro del contributo di Lenin vi era la sua comprensione della natura interamente dialettica dello sviluppo combinato e ineguale del capitalismo. Lenin elaborò numerosi concetti organizzativi essenziali tra loro correlati che ebbero un’importanza cruciale per la Rivoluzione d’Ottobre. In primo luogo, nel suo scontro polemico con la tradizione della Nuova Iskra, Lenin affermò che, nelle società giunte in ritardo al capitalismo, la borghesia nazionale non era in grado di abolire il giogo del feudalesimo e di portare a termine la rivoluzione borghese. Questo ruolo-guida spettava alla classe operaia alleata con i contadini; di conseguenza, il programma strategico diveniva quello di un’avanzata ininterrotta, guidata dal proletariato, oltre il capitalismo e verso il socialismo.

Questa prospettiva strategica poneva la necessità di un’alleanza tra operai e contadini contro il feudalesimo nella prima fase della lotta. Di fatto, essa rompeva con una forma meccanica di evoluzionismo per fasi. Secondo l’acuta analisi di Patnaik, «questo mutato atteggiamento… fece del marxismo, sino ad allora confinato all’Europa, una dottrina rivoluzionaria rivolta a tutti i Paesi del mondo, a prescindere da quanto fosse limitato il livello raggiunto dal loro sviluppo capitalista».

La seconda intuizione di Lenin, collegata alla prima, fu la sua analisi dell’imperialismo. A tale riguardo, Lenin si differenziava sia dall’evoluzionismo riformista di un Kautsky – che aveva affermato che la fase imperialista del capitale monopolistico costituiva una tappa di passaggio breve e relativamente indolore verso il socialismo – sia dall’argomentazione più radicale di Rosa Luxemburg, secondo cui le crisi dell’imperialismo, esemplificate dalla prima guerra mondiale inter-imperialista, segnalavano l’imminente crollo del capitalismo a livello mondiale, per realizzare il quale sarebbero stati sufficienti scioperi di massa più o meno spontanei.

Per Lenin l’imperialismo, malgrado la sua cronica instabilità, non era necessariamente sull’orlo di un collasso sistemico. Semmai, le sue crisi e il suo sviluppo ineguale creavano degli anelli deboli nella sua catena globale. Nel 1917 la Russia zarista, barcollante sotto l’effetto di una molteplicità di contraddizioni, costituiva l’«anello più debole», e un’attiva avanzata rivoluzionaria in quel Paese avrebbe innescato una reazione di massa in tutto il sistema – con prospettive particolarmente rilevanti in Paesi quali la Germania, caratterizzata da una grossa classe operaia e da un partito socialista di massa.

La Rivoluzione d’Ottobre si volge a oriente

L’aspettativa condivisa dai bolscevichi con i loro lontani sostenitori sudafricani – che la Rivoluzione Russa avrebbe aperto rapidamente la strada a vittoriose rivoluzioni socialiste nell’Occidente più sviluppato – non era destinata a concretizzarsi. Come Lenin e i bolscevichi avrebbero compreso sempre più chiaramente all’indomani della rivoluzione dell’ottobre 1917, vi era ancora almeno un compito democratico nazionale (storicamente legato alla borghesia emergente in Europa) che, nell’età dell’imperialismo, rendeva necessaria una guida operaia, socialista per poter essere portato a termine in modo efficace – la soluzione della «questione nazionale» nelle società coloniali e semi-coloniali.

Sebbene i bolscevichi, e Lenin in particolare, si fossero correttamente resi conto ben prima dell’ottobre 1917 della necessità di una leadership operaia alleata con i contadini nella prima fase di attuazione di una rivoluzione socialista nelle condizioni presenti nella società russa, inizialmente vi fu minore chiarezza riguardo al potenziale rivoluzionario delle lotte di liberazione nazionale.

Fu al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista del 1920 che questo tema fu oggetto di considerazioni più puntuali. Lenin e il comunista indiano M. N. Roy svolsero un ruolo di primo piano nella «Commissione sulla Questione Nazionale e Coloniale». Nel suo rapporto al Congresso sui lavori della commissione, Lenin scriveva:

«Abbiamo discusso se fosse giusto o sbagliato, in linea di principio e in teoria, affermare che l’Internazionale Comunista e i partiti comunisti devono sostenere il movimento borghese-democratico nei Paesi arretrati. In seguito alla nostra discussione, siamo giunti alla decisione unanime di parlare di movimento nazional-rivoluzionario invece che di movimento “borghese-democratico”».

Vediamo qui le origini della strategia comunista di sostegno alle lotte rivoluzionarie democratiche nazionali in contesti coloniali e semi-coloniali. Come spiega successivamente Lenin, il concetto di «movimento nazional-rivoluzionario» fu proposto allo scopo di operare una distinzione tra due tendenze divergenti presenti nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale – una nazional-rivoluzionaria, l’altra «borghese-democratica» e riformista: «parlare di movimento borghese-democratico equivale ad annullare ogni distinzione tra il movimento riformista e quello rivoluzionario. Tale distinzione, tuttavia, si è recentemente manifestata con grande chiarezza nei Paesi arretrati e coloniali…»

Il Comintern esortò i partiti comunisti di Paesi quali India, Persia e Cina a collaborare strettamente – contribuendo a radicalizzarla – con la tendenza «nazional-rivoluzionaria» presente nelle lotte nazionali anti-coloniali e anti-imperialiste. Questa direttrice di marcia offriva il vantaggio ulteriore di colpire il ventre molle coloniale delle principali potenze coloniali, allora attivamente impegnate nell’occupazione e nella destabilizzazione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica.

La questione nazionale in Sudafrica

Le possibilità offerte da questo importante riallineamento strategico non furono colte immediatamente dal movimento socialista radicale sudafricano. Una dichiarazione del dicembre 1917 pubblicata da The International è piuttosto indicativa sia delle posizioni progressiste sia dei limiti dell’ISL e del suo successore, il Partito Comunista del Sudafrica (CPSA), negli anni immediatamente successivi alla fondazione di quest’ultimo nel 1921.

Nel richiedere l’abolizione di varie misure discriminatorie ai danni dei lavoratori neri (tra cui la legge sul passaporto interno, il sistema di campi di internamento per i lavoratori delle miniere e la negazione dei diritti civili e politici essenziali), l’ISL dichiarava: «La società è divisa in due classi: la classe operaia, che svolge tutto il lavoro; e la classe nullafacente, che vive dei frutti del lavoro. A rigor di logica, quindi, non esiste alcun “problema indigeno”. Esiste soltanto un problema della classe operaia».

Per l’ISL e per il primo CPSA la direttrice di marcia strategica era «classe contro classe». Nella realtà sudafricana, questa presa di posizione strategica fu accompagnata da tentativi in buona parte inefficaci di persuadere il grosso dei lavoratori bianchi che i loro pregiudizi razziali contro i lavoratori neri erano controproducenti.

I nodi vennero al pettine con la Rivolta del Rand del 1922, che trasse in parte ispirazione dalla Rivoluzione Bolscevica. I lavoratori bianchi della regione del Rand scatenarono una lotta insurrezionale armata contro il capitale monopolistico, e in particolare contro la Camera di Commercio Mineraria. Il detonatore immediato dell’insurrezione fu il tentativo da parte dei padroni delle miniere, allineati con gli imperialisti, di utilizzare lavoratori neri – naturalmente con salari inferiori – per mansioni minerarie semi-specializzate e artigianali precedentemente appannaggio esclusivo dei lavoratori bianchi.

Molti dei lavoratori bianchi erano afrikaner di recente proletarizzazione, espulsi dall’agricoltura dalla politica della «terra bruciata» messa in atto dall’imperialismo britannico nel corso della guerra anglo-boera (1899-1901). Questi lavoratori misero a frutto nella Rivolta del Rand le loro tradizioni di lotta radicale, organizzandosi in commando armati. La Rivolta del Rand del 1922 fu a un tempo una lotta operaia radicale contro il capitale monopolistico, controllato dall’imperialismo e mirante a massimizzare i profitti, e una lotta razzista intesa a preservare i privilegi dei bianchi. Costituì una contraddizione, esemplificata da uno dei più diffusi striscioni innalzati dagli scioperanti: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi per un Sudafrica bianco!».

Il CPSA è stato talvolta accusato ingiustamente di essere stato l’autore di questo slogan. Non fu così. In realtà, il partito tentò coraggiosamente di fermare le violenze messe in atto dai lavoratori bianchi contro i lavoratori neri, da essi considerati alla stregua di crumiri e sabotatori dello sciopero. Questa insurrezione operaia bianca fu infine schiacciata dal governo Smuts, ma non prima che avessero avuto luogo scontri sanguinosi che implicarono l’uso di aerei per bombardare i lavoratori trincerati nelle loro roccaforti intorno a Johannesburg. L’insurrezione fu sconfitta e i lavoratori bianchi persero la battaglia – ma non la guerra. Nel contesto di un sistema elettorale riservato ai soli bianchi, il governo Smuts fu estromesso dal potere con le elezioni generali del 1924 e sostituito dal governo del «Patto», un’alleanza tra il Partito Nazionale Afrikaner e il Partito Laburista. Tra i punti chiave del suo programma, insieme ad altri provvedimenti correlati, vi era un ulteriore rafforzamento della legge che riservava ai bianchi determinati impieghi (Job Reservation).

Il neonato CPSA trasse molti salutari insegnamenti dalla Rivolta del Rand. Il partito iniziò a concentrarsi con maggiore efficienza sul reclutamento di lavoratori africani, e già nel 1924 la stragrande maggioranza dei suoi iscritti erano neri. A ciò si accompagnarono le scuole serali gestite dai comunisti, che diffondevano l’alfabetizzazione e la formazione politica. Il CPSA stava iniziando ad apprendere sul piano pratico gli insegnamenti leninisti. I lavoratori bianchi erano in maggioranza pienamente proletarizzati, mentre i lavoratori neri erano spesso semiproletari, lavoratori emigranti  temporanei che conservavano stretti legami con i loro villaggi rurali. Ciò, tuttavia, non rendeva necessariamente i primi più rivoluzionari dei secondi. Polemizzando con Bernstein, Lenin aveva affermato che non necessariamente il progresso della storia prende le mosse dal suo ambito apparentemente più avanzato. Nelle condizioni specifiche del nostro Paese, i comunisti sudafricani stavano apprendendo una lezione simile.

Tuttavia, il CPSA non aveva ancora elaborato un programma strategico chiaro relativo alla situazione reale del Sudafrica. La risoluzione Lenin-Roy approvata dal Secondo Congresso del Comintern nel 1920, riguardo alle potenzialità dei movimenti «nazional-rivoluzionari» nei Paesi coloniali e semi-coloniali, non sembrò inizialmente avere rilevanza per la situazione locale. Essa fu considerata applicabile anzitutto alle società a grande maggioranza contadina caratterizzate da forti residui feudali, quali la Cina, l’India e la Persia dell’epoca.

Il Sudafrica, per contro, aveva compiuto una drammatica marcia forzata a guida imperialista verso il capitalismo monopolistico basata sull’estrazione mineraria industriale, sin dall’ultimo venticinquennio dell’Ottocento. Negli anni Venti, vasti tratti non soltanto del Sudafrica ma dell’intera regione si erano ormai trasformati in riserve di manodopera immiserita che esportavano emigranti maschi verso le miniere. La lotta in Sudafrica si configurava ancora come una lotta «classe contro classe», malgrado il ruolo reazionario svolto da molti lavoratori bianchi e dai loro partiti politici.

Fu il 6° Congresso dell’Internazionale Comunista del 1928 a spingere il CPSA a perseguire una lotta democratica nazionale come «tappa» verso la «repubblica degli operai e dei contadini». Questo impegno richiedeva la presa d’atto del fatto che la mobilitazione incentrata sulle rimostranze e sulle aspirazioni della maggioranza nazionale oppressa dei sudafricani costituiva il motore cruciale della lotta per il socialismo contro una realtà doppiamente coloniale – la persistente egemonia del capitale imperialista britannico e del capitale monopolistico nazionale emergente, rafforzata da un «colonialismo interno» (il predominio della minoranza bianca).

Pur riconoscendo che l’Unione Sudafricana istituita nel 1910 aveva concesso un certo grado di indipendenza politica al Sudafrica sotto il regime della minoranza bianca, l’Internazionale Comunista ribadì correttamente che il Sudafrica rimaneva una realtà essenzialmente coloniale. Per citare la Risoluzione sul Sudafrica del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista:

«Il Sudafrica è un dominion britannico di tipo coloniale. Lo sviluppo di rapporti di produzione capitalisti ha fatto sì che l’imperialismo britannico conducesse lo sfruttamento economico del Paese con la partecipazione della borghesia bianca sudafricana (britannica e boera). Naturalmente, ciò non altera il carattere coloniale complessivo dell’economia del Sudafrica, in quanto il capitale britannico continua a occupare i gangli economici principali del Paese (banche, miniere e industria), e in quanto la borghesia sudafricana è altrettanto interessata allo sfruttamento più spietato della popolazione nera».

La stessa risoluzione dell’Internazionale Comunista diede istruzioni ai comunisti sudafricani di dedicare particolare attenzione alle emergenti formazioni nazionaliste nere, ancora embrionali, citando specificamente l’ANC (African National Congress). Questa nuova linea strategica fu adottata dal CPSA nel 1929.

In quanto partito affiliato all’Internazionale Comunista, il CPSA era obbligato ad accettare la risoluzione del Comintern. E lo fece, ma non senza livelli diversi di entusiasmo o di riluttanza. Molti vivevano il sostegno a quelle che venivano considerate piccole formazioni nere d’élite quali l’ANC come un tradimento della lotta della classe operaia, e come una minaccia alla solidarietà operaia inter-razziale.

D’altro canto, il CPSA aveva già collaborato con l’ANC. Il partito ebbe un ruolo decisivo nell’organizzare la partecipazione del presidente generale dell’ANC Josiah Gumede alla conferenza della Lega Anti-imperialista tenutasi a Bruxelles nel 1927. Di lì Gumede raggiunse l’Unione Sovietica e ne visitò le regioni asiatiche, riscontrando in prima persona come le persone non europee di pelle scura godessero di pieni diritti di cittadinanza. Al suo ritorno in Sudafrica, Gumede dichiarò di aver visto «la nuova Gerusalemme». Peraltro, la sua crescente vicinanza ai comunisti sudafricani lo rese inviso a molti esponenti dei vertici dell’ANC, in particolare ai leader tradizionali della «camera alta» dell’ANC, a detta dei quali i bolscevichi avevano ucciso lo zar in Russia, e lo stesso destino sarebbe spettato a loro stessi qualora i comunisti fossero arrivati al potere in Sudafrica. Gumede fu estromesso dai vertici dell’ANC nel 1930.

Malgrado questa e altre dinamiche contraddittorie, nel corso dei decenni successivi e fino a oggi in Sudafrica il partito comunista ha mantenuto un’alleanza con l’ANC – un’alleanza relativamente inedita, con esponenti iscritti a entrambe le formazioni e importanti influenze simbiotiche. Benché Gumede venisse estromesso dai vertici dell’ANC per i suoi stretti legami con il partito comunista, nei decenni successivi molti leader di primo piano dell’ANC furono anche membri del partito comunista; tra loro Moses Kotane, J. B. Marks, Walter Sisulu, Nelson Mandela, Joe Slovo e Chris Hani.

Questa relazione simbiotica rivoluzionaria deve molto alla Grande Rivoluzione d’Ottobre e alla sua filiazione diretta – l’Unione Sovietica. In Sudafrica, il prestigio dell’Unione Sovietica nell’ambito delle forze democratiche e progressiste crebbe immensamente durante la seconda guerra mondiale, in particolare dopo l’ingresso dell’Unione Sovietica nel conflitto nel 1941. Il ruolo centrale svolto dall’Armata Rossa nella sconfitta del fascismo riscosse grande prestigio popolare e contribuì a elevare il profilo del partito comunista a livello locale. Negli anni successivi al 1945, con l’inizio della Guerra Fredda, i neoeletti esponenti del Partito Nazionale – formazione razzista estremista con legami ideologici con il fascismo – tentarono di mascherare la loro ideologia razzista presentandosi come componente di una sedicente crociata occidentale contro la «minaccia comunista globale».

Il CPSA, odiato e temuto a livello locale più per il suo coerente antirazzismo e per la sua capacità di mobilitare una classe operaia nera sempre più numerosa che per il suo socialismo, fu messo fuori legge nel 1950. Il suo successore clandestino, il SACP (South African Communist Party, Partito Comunista Sudafricano), fu costantemente presentato dal regime della minoranza bianca come agente locale di Mosca e come rooi gevaar («pericolo rosso»). Dopo la messa fuori legge dell’ANC nel 1960 e la sconfitta strategica subita dal movimento a metà degli anni Sessanta, buona parte dei leader superstiti furono costretti ad andare in esilio lontano dal Paese. Fu durante questo periodo estremamente difficile che il sostegno solidale e disinteressato fornito dall’Unione Sovietica all’ANC – così come ad altri movimenti di liberazione nazionale dell’Africa meridionale – svolse un ruolo assolutamente decisivo nella sconfitta finale del colonialismo e del dominio della minoranza bianca in tutta la nostra regione. Nella cultura popolare dei neri, l’Unione Sovietica divenne un punto di riferimento leggendario in quel periodo. Oggi in Sudafrica molti quarantenni e cinquantenni portano nomi quali Soviet, Sputnik, Lenin, Russia e perfino Kalashnikov.

La duratura importanza dell’Unione Sovietica nella realtà sudafricana ebbe un risvolto paradossale alla fine degli anni Ottanta. Con il crollo del blocco sovietico a partire dal 1989, il regime dell’apartheid cessò di svolgere un ruolo utile all’imperialismo occidentale quale principale gendarme regionale nel contesto delle «guerre calde» regionali combattute nell’Africa meridionale nell’epoca della Guerra Fredda, che fecero oltre un milione di vittime. Di fatto, grazie a un movimento mondiale anti-apartheid di grande successo, il regime dell’apartheid era divenuto ormai un imbarazzante relitto per le élite imperialiste dominanti. Le pressioni imperialiste sul regime dell’apartheid nel contesto post-sovietico svolsero un ruolo importante nel promuovere l’accordo negoziale concluso in Sudafrica. Naturalmente, il ruolo più importante ai fini della transizione verso una soluzione democratica non razziale fu svolto dalle continue lotte semi-insurrezionali di massa messe in atto sin dalla metà degli anni Settanta, e in gran parte guidate dall’alleanza ANC-SACP.

È superfluo aggiungere che questa alleanza ha vissuto numerosi alti e bassi. E oggi, nel centenario della Rivoluzione Russa, l’alleanza sta attraversando ancora una volta uno dei suoi momenti più difficili.

Perché?

L’Africa meridionale tra gli anni Sessanta e Ottanta: un anello debole della catena imperialista

Per andare alla ricerca di risposte, noi del SACP abbiamo ritenuto utile (tra le altre cose) fare un salto all’indietro di cento anni, fino ai progressi strategici e in particolare leninisti del marxismo che furono forgiati nel crogiolo della Rivoluzione d’Ottobre e degli anni immediatamente precedenti e successivi.

Le lotte di liberazione nazionale contro il colonialismo portoghese e i regimi coloniali interni dei bianchi in Zimbabwe, Namibia e soprattutto Sudafrica fecero dell’intera regione meridionale africana un «anello debole» turbolento, instabile e semi-periferico nella catena imperialista del secondo dopoguerra. Le questioni in gioco furono colte assai chiaramente tanto dalle centrali imperialiste quanto dalle forze di liberazione progressiste e radicali della nostra regione. L’evidente complicità dell’imperialismo e del capitale monopolistico locale sudafricano con la perfida oppressione nazionale della maggioranza africana faceva sì che l’interconnessione tra la lotta democratica nazionale e la lotta contro il capitale monopolistico esercitasse un richiamo diretto ed evidente sulle masse.

Era possibile separare la richiesta di un sistema istituzionale non razziale e basato sul principio «una testa, un voto» dalla lotta anti-capitalista in corso? Era possibile contenere una «rivoluzione di febbraio» sudafricana, impedendone l’avanzata ininterrotta fino a una più radicale «rivoluzione d’ottobre»? Fu questo il rischio che il capitale monopolistico sudafricano e i suoi sostenitori imperialisti decisero di correre accettando di negoziare con l’alleanza guidata dall’ANC nel 1990-1993. Furono incoraggiati a farlo dal crollo del blocco sovietico, oltre che dal generale arretramento delle conquiste democratiche nazionali seguite all’indipendenza nel resto dell’Africa meridionale – arretramento dovuto in gran parte alla brutale opera di destabilizzazione e di istigazione di guerre civili per procura in Angola e Mozambico messa in atto dal regime dell’apartheid.

Nei primi anni Novanta, all’interno del SACP nessuno si illudeva che l’imminente svolta democratica del Sudafrica avrebbe posto le basi per un’avanzata rapida e magari insurrezionale verso un «ottobre» socialista. La realtà del secondo dopoguerra, e in particolare la congiuntura globale del dopo-1989, erano qualitativamente diverse dalla situazione mondiale così acutamente analizzata da Lenin nel 1915 e negli anni successivi. Le rivalità e i conflitti inter-imperialisti non costituivano più il tratto dominante. Esisteva allora (e oggi) una sola potenza imperialista egemone, e il predominio del capitale finanziario globalizzato aveva preso il posto dei capitali monopolistici nazionali rivali.

Ma nell’analisi del SACP, questa realtà non implicava che quanto ribadito da Lenin – e cioè che nelle società semi-periferiche della catena imperialista la borghesia nazionale è incapace di portare a termine una rivoluzione democratica nazionale – fosse divenuto irrilevante. Al contrario, abbiamo continuato ad affermare che per il progresso, l’ampliamento e la difesa della nostra rivoluzione democratica nazionale è necessaria un’egemonia popolare operaia e semi-proletaria.

Coerentemente con ciò, il SACP ha elaborato la prospettiva strategica di una lotta ininterrotta contro il capitale monopolistico, finalizzata a profonde trasformazioni strutturali, a partire dalla testa di ponte costituita dalla svolta democratica del 1994 (il nostro «febbraio»). Abbiamo concepito questa lotta come una lotta prolungata, una «guerra di posizione», più che come una «guerra di movimento», per richiamare un’espressione gramsciana. Nella nostra situazione all’indomani del 1994, non si trattava di abolire la nostra Assemblea Costituente eletta democraticamente, come avevano fatto i bolscevichi. Si trattava invece di utilizzarne i frutti istituzionali conquistati a caro prezzo, e gli spazi aperti da questi progressi, allo scopo di far progredire, di ampliare e di difendere una rivoluzione democratica nazionale che avrebbe necessariamente dovuto avere un carattere anti-imperialista e anti-monopolista.

Due elementi importanti favorivano tale sviluppo. In primo luogo, il capitale monopolistico sudafricano, cresciuto per lungo tempo al riparo delle barriere protettive del dominio della minoranza bianca, si trovava relativamente sbilanciato all’indomani della trionfale vittoria elettorale dell’alleanza guidata dall’ANC nel 1994. In secondo luogo, le forze di liberazione nazionale anti-apartheid avevano condotto lotte di massa semi-insurrezionali per buona parte di un decennio e mezzo. Il movimento sindacale era relativamente ampio e radicale sul piano ideologico, ed esisteva un ricco patrimonio tattico e organizzativo per la lotta di massa che collegava le lotte delle comunità locali a quelle del mondo del lavoro. A metà degli anni Novanta queste forze di massa erano ancora mobilitate.

Quale la strada da imboccare?

Le due tendenze dei movimenti nazionali del Terzo Mondo

Come riconobbero correttamente Lenin e M. N. Roy nel 1920, i movimenti nazionali nelle aree semi-periferiche del mondo imperialista tendono a manifestare due tendenze divergenti – una borghese-democratica e una nazional-rivoluzionaria. A partire dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni Novanta fu la tendenza nazional-rivoluzionaria a dominare all’interno dell’ANC, pur non costituendo mai una tendenza esclusiva.

A partire almeno dal 1994, queste due tendenze sono al centro di un duro dibattito interno all’alleanza guidata dall’ANC. Per varie ragioni, a prevalere nel corso degli ultimi due decenni è stata la tendenza borghese-democratica. E nel suo prevalere possiamo riscontrare tutte le problematiche illusioni così acutamente criticate da Lenin nelle sue polemiche con Bernstein, Kautsky e la tendenza della Nuova Iskra – in particolare. l’idea che il progresso sia essenzialmente evolutivo, incentrato su fasi e a-dialettico; che il progresso prenda le mosse dal lato più «avanzato» e mai dall’anello debole, e non sia mai il risultato del sottosviluppo totalmente ineguale insito nell’accumulazione capitalista.

In Sudafrica, questa tendenza evoluzionista ha concettualizzato la nostra svolta democratica come il «ritorno» di un Sudafrica precedentemente ostracizzato nel seno della «normalità» di una famiglia felice delle nazioni (come se l’isolamento – relativo e sempre soltanto parziale – del Sudafrica dell’apartheid non avesse costituito una delle strategie centrali dello stesso ANC). L’arcivescovo Tutu, nella sua prefazione al rapporto della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, proclamò che la scomparsa dell’apartheid segnava la fine dei tre grandi «crimini anomali» del Novecento contro l’umanità – da lui individuati nel fascismo, presumibilmente soppresso nel 1945, nel comunismo, presumibilmente soppresso con la caduta del Muro di Berlino, e nell’apartheid soppresso nel 1994. Nella concezione del mondo di Tutu mancava totalmente qualunque percezione della persistente realtà dell’imperialismo e della sua esistenza secolare sotto una molteplicità di forme coloniali, semi-coloniali nonché coloniali interne, come nel caso del regime della minoranza bianca sudafricana. Naturalmente, l’apartheid non ha mai costituito una realtà a sé stante – è stato invece parte integrante di un sistema imperialista persistente e più ampio, che è semmai divenuto ancor più forte e arrogante con il crollo del blocco sovietico.

Benché Tutu non abbia mai fatto parte dell’ANC, questo tipo di prospettiva è stata condivisa dagli esponenti succedutisi ai vertici dell’ANC dopo il 1994, compresi molti che avevano precedentemente fatto parte del SACP. Il «completamento» della Rivoluzione Democratica Nazionale veniva ora concettualizzato come una «normalizzazione» del capitalismo sudafricano attraverso la «de-razzializzazione» (ma non certo la socializzazione) della proprietà privata e del controllo del capitale monopolistico. Un settore capitalista emergente nero presuntamente «patriottico», portato alla ribalta da una varietà di interventi statali, è stato presentato quale forza-guida di classe nell’ambito della Rivoluzione Democratica Nazionale. Qualunque progresso reale anti-monopolista, anti-imperialista e di orientamento socialista viene rimandato a una «fase» futura, remota e in gran parte simbolica. In questi ambienti, il richiamo di Lenin a un’avanzata ininterrotta è stato dimenticato.

Purtroppo, ma inevitabilmente, queste illusioni strategiche e programmatiche hanno determinato oggi una netta stagnazione dei progressi democratici e dello stesso ANC. La presunta borghesia nera «patriottica» si è prevedibilmente rivelata essere una forza essenzialmente parassitaria e compradora, che dipende per la sua accumulazione primaria dal saccheggio delle risorse pubbliche condotto mediante mezzi sempre più di natura criminale, che hanno frantumato l’ANC in fazioni e avvelenato la nostra democrazia conquistata a caro prezzo. La sovranità nazionale, uno dei compiti cruciali della rivoluzione democratica nazionale, viene tradita con il trasferimento illecito di capitali verso Dubai e altri paradisi fiscali.

Le profonde distorsioni strutturali della nostra economia politica capitalista non hanno subito alcuna trasformazione – tra esse figurano livelli estremamente elevati di concentrazione monopolistica; un’economia degli spazi legata alla razza, oggi perpetuata dal mercato immobiliare con la stessa efficienza dimostrata dall’ingegneria sociale dell’era dell’apartheid; e il persistente ruolo del nostro Paese quale esportatore semi-periferico di materie prime nell’ambito della catena capitalista mondiale. Queste caratteristiche strutturali, a loro volta, continuano a produrre livelli critici di disoccupazione (attualmente al 27,7% secondo le stime più prudenti), diseguaglianza e miseria, in gran parte legati alla razza.

Il vicolo cieco in cui si trova attualmente bloccata la nostra rivoluzione democratica nazionale, e l’instabilità che caratterizza l’ANC sia al suo interno sia nei suoi rapporti con gli alleati, non sono sostenibili. L’instabilità prodotta dalla crisi sociale, come sappiamo bene – non ultimo alla luce della Grande Rivoluzione d’Ottobre – è un terreno che può condurre sia a ulteriori arretramenti, sia a grandi progressi. Nel SACP siamo perfettamente consapevoli del fatto che la realtà del 2017, a livello locale, regionale e internazionale, è sotto molti aspetti decisamente diversa dalla realtà del 1917. In ogni caso, vi è comunque molto da celebrare e soprattutto da imparare in quel momento decisivo del Novecento in cui, per la prima volta nella storia dell’umanità, lavoratori e lavoratrici abolirono il capitalismo e seppero tenere a bada l’imperialismo, contro ogni pronostico e pagando un enorme prezzo in vite umane, per oltre settant’anni.

Viva l’esempio vivente della Grande Rivoluzione d’Ottobre!