Beirut, Libano, 22-25 Novembre 2012
Intervento del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI)
Ringraziamo con spirito di solidarietà e gratitudine il Partito Comunista Libanese che, in una fase di acutizzazione dell’offensiva imperialista nella regione del Medio Oriente, sì è assunto l’onere di ospitare questo incontro internazionale.
Consideriamo positivo il titolo e l’impostazione di questo incontro che mette al centro dei suoi lavori il Che fare?, e cioè il modo in cui ciascuno di noi, al livello del proprio contesto nazionale e in modo coordinato su scala regionale e internazionale, puoi contribuire a fronteggiare una effettiva escalation dell’interventismo imperialista, così come essa è venuta sviluppandosi nel corso dell’ultimo anno. E a sostenere i diritti dei lavoratori e dei popoli.
Conosciamo e credo condividiamo tutti le ragioni di fondo, non congiunturali, di questa escalation:
– profondità di una crisi economica di sistema che ha basi strutturali e mette in discussione l’attuale assetto di dominio capitalistico sul pianeta, imperniato sulle maggiori potenze della cosiddetta triade imperialista (Usa-Ue-Giappone);
– mutamento dei rapporti di forza a livello mondiale e geo-strategico che vedono l’emergere di nuove potenze non subalterne (con diversa intensità e determinazione) al dominio della triade imperialista (paesi BRICS e loro affini, paesi non allineati, e cooperazione russo-cinese che svolge un ruolo centrale di contrappeso all’imperialismo): una dinamica che prefigura un declino della leadership dell’imperialismo oggi dominante, a partire dagli Stati Uniti che tentano di arrestare il loro declino facendo leva sulla loro superiorità militare ancora schiacciante sul resto del mondo, in condominio – grazie allo strumento della Nato – con le maggiore potenze imperialiste dell’Unione Europea.
Non ci auguravamo la vittoria di Romney alla presidenza Usa o la rielezione di Sarkozy in Francia, né intendiamo rinunciare ad una analisi differenziata delle diverse tendenze che operano, in modo anche contraddittorio, all’interno del mondo capitalistico. Ma, diversamente dalle speranze o illusioni che una parte della sinistra europea e mondiale ha coltivato o ancora coltiva, non pensiamo che la rielezione di Obama e l’elezione di Hollande in Francia, siano in grado o si propongano di invertire in senso progressista e di pace il corso degli eventi e la crescente aggressività neo-imperialista dell’asse euro-atlantico.
La rielezione di Obama alla presidenza Usa non porta con sé alcuna correzione in positivo del quadro internazionale, infatti Romney, che ha subito assicurato ad Obama la sua collaborazione leale e costruttiva nell’interesse della nazione (tanto più che i repubblicani mantengono alla Camera una solida maggioranza, in grado di condizionare pesantemente le scelte del presidente). Il che prevedibilmente collocherà più a destra la politica del secondo mandato di Obama rispetto al primo.
I primi 4 anni della presidenza Obama, che pure era stata accolta da settori ampi del mondo progressista americano e internazionale come portatrice di un’autentica svolta progressiva, hanno demolito speranze e illusioni. Esse si sono clamorosamente infrante – sono solo alcuni esempi – con la guerra di aggressione alla Libia, l’incipiente accerchiamento militare della Cina, le ingerenze militari in Siria (una guerra non dichiarata), le minacce di guerra all’Iran, l’aumento sostanzioso delle spese militari (che solo negli ultimi 6 mesi sono cresciute del 13% e hanno “contribuito” al 50% della crescita del PIL..), o nell’incapacità (o impossibilità, o non volontà) di porre alcuni limiti seri allo strapotere del capitale finanziario negli affari interni e internazionali, che rimane una delle cause più profonde della crisi mondiale.
In una situazione aggravata da una crisi economica mondiale del sistema capitalistico che ha basi strutturali, Obama si troverà ad affrontare una situazione interna segnata da una crisi profonda, con un debito pubblico interno salito a livelli astronomici; e un debito estero che è il più grande del mondo, una economia stagnante a rischio di recessione.
Continua ad incombere il rischio che il declino economico e politico della principale potenza imperialista possa indurre le sue componenti più reazionarie a risolvere la contraddizione ricorrendo in modo organico alla schiacciante superiorità militare che gli Usa conservano sul resto del mondo; ed a tentare di uscire dalla propria crisi economica “manu militari”, e recuperare la propria leadership planetaria, anche al prezzo di un conflitto globale.
Come dice giustamente il titolo del nostro incontro, la lotta contro una escalation dell’aggressività imperialista si conferma come una delle priorità dei comunisti in questa fase.
Lo constatiamo in questi giorni in cui, drammaticamente, il popolo palestinese è vittima di una nuova brutale aggressione da parte israeliana, senza che Usa o Ue muovano un dito (anzi in un contesto in cui questi paesi e anche la Nato nel suo insieme confermano la cooperazione militare con Israele). Mentre prosegue la guerra non dichiarata contro la Siria, le minacce di aggressione all’Iran e al Libano, le interferenze anche militari in un Sudan ormai spaccato in due, che rischiano di provocare un conflitto di proporzioni enormi in tutta la regione, con pericoli concreti di una sua estensione più a largo raggio. Mentre la presidenza Obama conferma la scelta di dislocare il 60% del potenziale aereo-navale Usa e oltre mezzo milione di uomini nella regione Asia-Pacifico, con una logica di accerchiamento della Cina; e la Nato conferma la scelta del cosiddetto “scudo spaziale” in funzione anti-russa.
Vorremmo essere smentiti, ma sul terreno della lotta per una politica estera alternativa, contro i piani aggressivi della Nato e dell’imperialismo, contro la presenza e l’utilizzo di basi Nato sul proprio territorio nazionale, contro le aggressioni (ieri Libia, oggi Siria) il movimento della pace oggi è in grave crisi nei Paesi dell’Ue – sicuramente in Italia.
Le ragioni sono molte, oggettive e soggettive:
-lavoratori e popoli europei sono concentrati nella difesa di se stessi dalla linea di massacro sociale promossa dall’Ue e dai governi nazionali;
-un livello che non ha precedenti storici di disinformazione mediatica;
-una debolezza di orientamento di molti PPCC e sindacati (come quando si dipingono ieri Milosevic, Saddam e Gheddafi, oggi Assad, come mostri sanguinari dediti al genocidio…).
Siamo convinti che il movimento contro la guerra e l’interventismo imperialista può riprendersi nei paesi Ue solo se si determina, in primo luogo, un intreccio, anche nelle mobilitazioni sindacali, tra lotta contro la guerra e lotte sulle questioni sociali più sentite dalle grandi masse, ad esempio introducendo il tema della riduzione delle spese militari nelle piattaforme sindacali.
Come è noto, l’Italia e le decine di basi americane e di basi Nato disseminate sul suo territorio, svolgono un ruolo logistico di grande importanza nel sistema di aggressione ai popoli della regione euro-mediterranea:
– ieri nella guerra contro la Yugoslavia, contro l’Iraq, contro la Libia;
– oggi nel supporto al sistema americano AfriCom (che pianifica l’intervento militare Usa nel continente africano), nella cooperazione militare con Israele, nelle interferenze politiche e militari contro la Siria, vanificando così una tradizionale politica italiana di amicizia col popolo palestinese e i popoli arabi che per decenni aveva per molti versi caratterizzato il nostro paese. E mentre continua l’impegno bellico in Afghanistan.
Anche dal punto di vista della politica estera l’attuale governo “tecnico” italiano si configura come il peggiore e il più atlantista dell’Italia repubblicana. La scelta di Monti come premier, Di Paola come ministro della Difesa, Terzi come ministro degli esteri, è stato caldeggiato da Washington grazie agli stretti rapporti che intercorrono tra il Quirinale e la Casa Bianca, consolidatisi durante il conflitto libico.
Non ci nascondiamo, e non vi nascondiamo, la grande debolezza in cui versa oggi nel nostro paese lo schieramento delle forze comuniste, anti-capitalistiche, antimperialiste. Ed anche la loro grande frammentazione. Nonostante il duro lavoro in questi anni ed il processo di Ricostruzione del Partito Comunista, avviato in Italia con il nostro Congresso, dobbiamo fare i conti con una difficoltà sociale molto forte. Da noi, a differenza che in altri paesi europei, la lotta operaia e di classe è molto debole. Questo ci induce ad una fermezza nei principi, ma anche grande flessibilità tattica, ed un minimo di corrispondenza tra il dire e il fare, se si vuol essere credibili agli occhi dei popoli.
UE: non è questa l’Europa che vogliamo
La quasi totalità dei popoli dell’Ue sono vittime della profonda offensiva che mira ad aumentare lo sfruttamento, a distruggere i diritti socio-economici e democratici dei lavoratori e dei popoli conquistati con decenni di lotta e a imporre un ancora maggiore grado di concentrazione e centralizzazione della ricchezza, soprattutto attraverso l’imposizione sovranazionale di relazioni di dominio economico e politico al servizio del grande capitale e contrarie al diritto sovrano dei popoli a decidere in piena autonomia le vie del proprio sviluppo economico e sociale.
Respingiamo la tesi di molti leader di centro-destra e di centro-sinistra dell’UE, secondo cui si esce dalla crisi rafforzando l’unità politica ed economica di questa Unione europea su basi federaliste, delegando a super-poteri sovranazionali spazi ancora maggiori di sovranità nazionale, anche se ciò – come motivano alcuni – si accompagnasse ad un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.
Nel contesto degli attuali rapporti di forza e di classe in questa parte del mondo, nel contesto ciò di questa Ue, dominata dal grande capitale multinazionale e dalle oligarchie finanziarie, subalterna alla NATO e all’egemonia dei nuclei dominanti dell’imperialismo – ora in concertazione, ora in competizione con l’imperialismo americano, ma nella stessa logica reazionaria – rafforzare l’unità politica ed economica di questa Ue significa rafforzare il nostro avversario di classe e i principali responsabili della politica di guerra e di massacro sociale che il nostro popolo e il nostro Paese stanno subendo.
Si tratta invece, anche per l’Italia, di rafforzare gli elementi statuali di difesa della sovranità della nazione e del Parlamento dall’attacco reazionario: difesa della sovranità di un’Italia non liberista che torni a un ruolo forte dello Stato nell’economia, di orientamento democratico e progressivo della produzione, nello spirito e nella lettera della nostra Costituzione. E una politica estera che rifugga da ogni interventismo militare neo-imperialista all’estero, nel rispetto dell’art.11 della nostra Costituzione.
Non siamo contrari per principio al rafforzamento di processi regionali di integrazione se essi (come quelli in corso in America Latina, o nell’area euro-asiatica) difendono gli interessi dei popoli e contribuiscono alla costruzione di alternative al dominio egemonico dell’imperialismo. Ma non è questo il caso della UE.
Non pensiamo ad alcun ripiegamento autarchico (che sarebbe fuori dalla storia nell’epoca della globalizzazione), ma ad una logica di concertazione e cooperazione economica, politica e valutaria con l’area dei BRICS e dei paesi non allineati, e con tutte le forze che nella regione pan-europea (dentro e fuori la Ue) operano per una cooperazione continentale e mondiale, alternativa a quella imperialista e neo-liberista.
Nell’Unione europea, operiamo – con tutte le forze disponibili e convergenti – per contrastare le ipotesi in atto di revisione dei Trattati che, abbandonando ogni elemento di coesione sociale e solidarietà tra aree forti e aree deboli, accentuano disuguaglianze sociali e asimmetrie macroeconomiche, vanificano ogni partecipazione democratica dei popoli alla costruzione europea, ridimensionano ulteriormente la sovranità nazionale dei paesi più deboli, e pretendono di introdurre per legge – con misure punitive per i trasgressori – misure coercitive e antipopolari di riduzione dei deficit statuali (come il fiscal compact), che avrebbero come conseguenza la distruzione di cioè che rimane di ogni parvenza di Stato sociale.
I popoli europei stanno reagendo, in forme e misura diversa da paese a paese, alla politica Ue di massacro sociale. Lo sviluppo dei movimenti di lotta (che hanno visto nello sciopero generale del 14 novembre un momento importante di coordinamento delle lotte nazionali su scala regionale, soprattutto in Portogallo, Grecia, Spagna e in misura minore Italia), ed anche l’avanzata complessiva delle forze comuniste e di sinistra in numerose consultazioni elettorali (Spagna, Francia, Grecia, Belgio, Repubblica Ceka, Olanda…) pur nella loro grande diversità, esprimono complessivamente aspirazioni popolari ad una cambiamento progressivo, anche se producono esiti politici e istituzionali di segno assai diverso.
E’ auspicabile che, pur nella diversità delle rispettive impostazioni strategiche e dei profili ideologici, i comunisti e tutte le forze autenticamente progressiste e di sinistra sappiano elaborare una risposta comune e convergente, con una base tattica anche minima di unità d’azione, su obiettivi anche parziali. Un contesto di divisione e contrapposizione tra le forze progressiste, anti-liberiste e di pace non giova agli interessi popolari. Indebolisce la nostra lotta.
Sottrarsi alla morsa Ue diversificando le proprie relazioni economiche, politiche e finanziarie internazionali
Consideriamo degna di attenzione l’esperienza di Cipro. Il governo cipriota, diretto dai compagni di Akel, di fronte all’esigenza di un prestito finanziario pari a circa 4 miliardi di euro, oltre che rivolgere la sua richiesta agli istituti finanziari dell’Ue, si è rivolto anche ad altri paesi extra-Ue come Russia e Cina per accordi bilaterali che non prevedono quelle condizioni capestro in termini di interessi, vincoli e pretese di interferenza nella politica interna dei paesi interessati, con modalità assai diverse da quelle in uso nell’Unione europea e nella BCE, come abbiamo visto nel caso estremo della Grecia, ma anche nell’Italia del governo Monti.
Questa logica colpisce la sovranità nazionale dei singoli paesi; sovranità che in nome dell’ ”Europa politica più integrata e federale”, i poteri forti di questa Ue neo-imperialista ed euro-atlantica, con il consenso delle rispettive borghesie nazionali, vorrebbero rendere ancora più subalterni agli interessi dei centri dominanti del capitalismo europeo (altro che “Europa dei popoli”!). Nessuno si faccia fuorviare da certa retorica “europeista” che a volte viene bevuta anche a sinistra senza il minimo senso critico: questa Unione europea “più politica e integrata” che hanno discusso a Bruxelles i vari Merkel, Hollande, Monti, Cameron, con la benedizione del presidente Obama, è una Unione in cui, come scrive apertamente il principale quotidiano della borghesia italiana, il Corriere della Sera, “Bruxelles potrà riscrivere i bilanci dei singoli Stati”; per cui “la Finanziaria di uno Stato che abbia i conti in disordine sarà esaminata in Europa prima ancora di approdare in Parlamento”. E “sarebbe di fatto riscritta a Bruxelles se non convince, e con la pena di multe salate se non si adeguasse”.
Quello che l’esperienza di Cipro ci indica, in piena autonomia dalla Nato e dai condizionamenti più pesanti di questa Ue di cui essa pure fa parte, è l’esigenza di una diversificazione delle proprie relazioni economiche, politiche, finanziarie dentro e fuori la Ue, con una sguardo attento ai BRICS e a quelle grandi potenze emergenti, come Russia e Cina, che, diversamente dai poteri forti della Ue, concedono prestiti senza pretendere di interferire nella politica economica interna dei paesi debitori: semmai stabilendo con essi rapporti di cooperazione mutualmente vantaggiosi, nel rispetto rigoroso delle rispettive sovranità, così come dovrebbe essere in un nuovo ordine mondiale democratico, di cooperazione e di pace. Che non è certo quello che oggi ci viene prefigurato dalla cosiddetta “comunità euro-atlantica” di cui l’Italia e il suo governo sono succubi.
Sulla situazione italiana
Le richieste iper-liberiste e antisociali dell’Ue e della Banca centrale europea (BCE) producono ovunque – e in special modo in paesi in crisi come l’Italia – uno “stato di eccezione” tendente a sospendere le democrazie, ad invalidare le Costituzioni, ad esautorare i Parlamenti e gli Stati, ad annullare la loro autonomia e sovranità.
I popoli si ritrovano d’improvviso ad essere governati da nuovi ed esterni poteri, e la UE si presenta sempre più, in questa fase, come una sorta di monarchia assoluta che estende il proprio dominio sull’intera popolazione europea. Lo “stato di eccezione” segna drammaticamente di sé il nostro Paese ed il governo Monti rappresenta lo sviluppo coerente e il compimento di questo processo. La fine del governo Berlusconi e la formazione del nuovo governo Monti, non è avvenuta sulla base di una normale dialettica parlamentare, come pure dovrebbe essere costituzionalmente. Bensì è avvenuto per decisione del Presidente della Repubblica che, fattosi interprete degli interessi strategici della grande borghesia italiana ed europea, in piena e concordata sintonia coi poteri forti nazionali e sovranazionali (EU, Nato, presidenza USA, Vaticano, Confindustria…), ha di fatto esautorato il Parlamento, il governo uscente e i partiti politici, di centro-destra e di centro-sinistra -considerati inadeguati a rappresentare in questa fase di grave crisi il comitato d’affari lucido e coerente della borghesia – ed ha affidato tale compito ad un ex commissario UE, Monti, chiedendogli di formare un governo di tecnocrati al servizio della politica determinata dai gruppi dominanti della EU e in piena sintonia con la NATO, e imponendo di fatto ai due schieramenti di CD e CS di sostenerlo.
L’ultimo anno della politica italiana è stata così determinata da una linea di austerità e riduzione del debito pubblico fortemente segnata da tratti anti-sociali e iniqui, che ha scaricato il peso della crisi in massima parte sui ceti sociali medio-bassi, che ha prodotto recessione e aumento della disoccupazione, che ha fortemente colpito lo Stato sociale e il sistema pensionistico, e che ha prodotto un rigido allineamento della politica estera dell’Italia alle direttive euro-atlantiche (come si vede ad esempio nell’aperto sostegno alla guerra non dichiarata contro la Siria).
Questa situazione è stata resa possibile anche dalla subalternità (in parte voluta, in parte subita) del PD alla politica del governo (non senza contrasti e contraddizioni interne), che a sua volta ha condizionato il comportamento della CGIL (il principale sindacato italiano), la cui opposizione alle misure più inique del governo è stata debole e oscillante, e non ha sprigionato tutto il potenziale di lotta del movimento operaio italiano, come invece è avvenuto ad esempio in occasione dei numerosi scioperi generali e delle grandi mobilitazioni che hanno caratterizzato in questo anno, fino allo sciopero “europeo” del 14 novembre scorso, paesi come il Portogallo o la Grecia, dove certamente le condizioni sociali sono più dure, ma dove anche più forti e determinati sono i PPCC e il sindacalismo di classe.
Non è un caso che la giornata di lotta del 14 novembre, dove la CGIL aveva comunque proclamato uno sciopero generale di 4 ore, ha visto in Italia una mobilitazione forte soprattutto da parte degli studenti, che è stata duramente repressa. E di un sindacalismo di base, combattivo anche se ancora largamente minoritario.
Emerge qui il ruolo prioritario, in questa fase, che il movimento sindacale di classe può e deve svolgere nell’opera di chiarificazione, nell’organizzazione e nella mobilitazione delle masse lavoratrici in forti azioni di lotta, scioperi e manifestazioni in difesa dei salari, dei diritti del lavoro e contro la disoccupazione. E un crescente coordinamento di queste lotte su scala regionale, aiuta anche a determinare una sorta di contagio virtuoso delle situazioni più avanzate rispetto a quelle più arretrate.
Le contraddizioni del PD italiano, e quelle connesse della CGIL, hanno comunque prodotto tensioni e lotta politica anche all’interno di queste organizzazioni che nel contesto italiano rivestono una importanza notevole rispetto all’orientamento di grandi masse, da cui sarebbe sbagliato autoescludersi: anche perchè, a causa delle debolezze e divisioni dei comunisti e della sinistra di classe italiana, essa si trova oggi fortemente indebolita nella sua influenza di massa. E il tutto è aggravato dal fatto che, per la prima volta nella storia d’Italia dopo la caduta del fascismo, essa si è trovata esclusa – negli ultimi 5 anni – da ogni rappresentanza parlamentare e dall’accesso sia pur minimo al sistema mediatico, a rischio stesso di sopravvivenza come forza capace di svolgere un ruolo non puramente testimoniale.
Tra poco più di tre mesi si terranno in Italia nuove elezioni politiche generali. E sulla base della cose dette, non è un caso che buona parte del dibattito politico in Italia in questa fase di vigilia elettorale sia caratterizzato da un confronto tra due posizioni prevalenti (che attraversano anche le forze di centro-sinistra e in particolare il PD): tra chi prospetta una soluzione di continuità (Monti-bis) e chi invece propone una correzione a sinistra che, pur non mettendo in discussione le basi del sistema capitalistico italiano e le sue alleanze internazionali, auspica una linea di maggiore equità sociale, ed una politica estera più indipendente dall’oltranzismo atlantico (è il caso di alcuni settori della socialdemocrazia italiana, interni ed esterni al PD e alla CGIL). Ovvero: una dialettica tra chi auspica il ritorno ad una vita politica fondata sulla centralità del Parlamento e della sovranità popolare, e chi invece (il Monti-bis) prospetta la continuità di una gestione tecnocratica scelta direttamente dai poteri forti del grande capitale italiano ed euro-atlantico, che di fatto esautora e scavalca la sovranità popolare (il cosiddetto “governo dei banchieri”).
Noi pensiamo che, anche sul terreno della tattica elettorale, i comunisti e le forze progressive in Italia non debbano estraniarsi da questa dialettica di posizioni, e – pur mantenendo una loro piena autonomia strategica e ideologica da tutte le posizioni di tipo socialdemocratico nelle loro diverse varianti – debbano ricercare tutte le convergenze tattiche possibili per isolare e sconfiggere le posizione più oltranziste e di destra. E per influire sulla dialettica interna al PD, il cui elettorato e la cui base militante (in buona misura ex PCI) si considera ancora, ed è permeabile a posizioni e valori di una sinistra di classe.
Ciò al fine di ottenere alcuni risultati programmatici parziali capaci di incidere sulle condizioni di vita del nostro popolo; e – last but not least – per poter riportare in Parlamento una presenza comunista e di sinistra anticapitalistica, che è per molti versi essenziale anche per la ripresa di una iniziativa politica appropriata e non testimoniale nel paese e nelle lotte. Il nostro partito opera affinché tale situazione non abbia a perpetuarsi nei prossimi 5 anni.
Diversità nazionali strutturali, di rapporti di forza tra le classi e le forze politiche, di sovrastrutture istituzionali o condizionamenti determinati da peculiari leggi elettorali e di finanziamento pubblico dei partiti – assai diverse da paese a paese – possono comportare per i comunisti scelte tattiche assai differenziate e mutevoli, di cui essi rispondono, sovranamente, ai rispettivi popoli, senza interferenze esterne, di qualunque natura. E che saranno comunque valutate sulla base dei fatti e dei risultati.
Unità nella diversità
Siamo seriamente preoccupati per le divisioni che continuano a caratterizzare in Europa, diversamente da altre regioni del mondo, le relazioni tra i partiti comunisti e le forze della sinistra di classe.
La discussione franca e condotta con spirito fraterno è sempre utile, anzi necessaria. Ma se vogliamo dare impulso e sviluppo alle lotte nazionali contro la linea Ue di massacro sociale e contro la politica della NATO, diversità di natura ideologica e anche di strategia e tattica; non devono essere di ostacolo a lotte comuni su obbiettivi parziali e condivisi, largamente sentiti dai nostri popoli; ad uno sviluppo dell’unità d’azione di un fronte ampio, capace di incidere sulla situazione. Come pure in parte è stato con le iniziative congiunte del 14 novembre. Tanto più se vogliamo che i partiti comunisti europei siano in grado, in questa fase, dentro e fuori la Ue, di porsi come fulcro continentale di un’iniziativa unitaria che riproponga in modo credibile e non meramente propagandistico ai popoli europei la questione del socialismo, la questione delle prospettive del socialismo in questo secolo. In una fase storica in cui grandi pericoli per i lavoratori e i popoli e per la stessa umanità coesistono con reali possibilità di sviluppo progressiste e anche rivoluzionarie.
Ci sembra che in questa fase, il contesto regionale europeo non sia certamente l’epicentro del processo rivoluzionario mondiale, e che le lotte dei comunisti e delle forze progressiste, segnatamente nei paesi UE, rivestano un carattere essenzialmente difensivo e di accumulazione di forze. In altri paesi e regioni del mondo le cose sono assai diverse, o possono diventarlo anche a breve termine. Lo sviluppo ineguale del capitalismo porta con sé anche lo sviluppo ineguale dei processi rivoluzionari.
Crediamo che uno sbocco di tipo socialista non sia all’ordine del giorno nel contesto regionale in cui operiamo, come prospettiva a breve termine. Lavoriamo per obiettivi intermedi e parziali che muovano comunque in quella direzione, con l’occhio attento ad un contesto mondiale dagli sviluppi imprevedibili, e con un lavoro incessante di maturazione di una coscienza socialista e comunista nelle avanguardie di lotta e nei popoli.
Se sapremo, insieme, ottenere dei risultati in quella direzione, avremo dato un contributo a concretizzare almeno in parte la parola d’ordine con cui abbiamo intitolato questo nostro 14° incontro internazionale: “Rafforzare le lotte contro l’escalation dell’aggressività imperialista, per il soddisfacimento dei diritti sociali, economici e democratici dei popoli, per il socialismo”.