Cina: Fronte unito, egemonia e sfide alla sicurezza

china-ngodi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Con l’espressione “Fronte unito” nella lunga fase rivoluzionaria della storia cinese si è inteso inizialmente definire la collaborazione tra il partito nazionalista – guidato da Sun Yat-sen – e il partito comunista cinese con l’obiettivo di riconquistare l’indipendenza, superare il sistema sociale incentrato sui signori della guerra (legati a loro volta a quella o a quell’altra potenza imperialista) e avviare una riforma politica e sociale del Paese. Come si precisava allora, da parte comunista anche in sede di Terza Internazionale, si trattava di avviare la fase democratico-borghese della rivoluzione.

Con l’aggressione giapponese a partire dai primi anni ’30 del secolo scorso e il successivo scoppio della seconda guerra mondiale, la collaborazione tra i comunisti – ormai in grado di governare e avviare la trasformazione socialista in diverse aree della Cina e dotati di una propria forza militare – e nazionalisti – guidati da Chiang Kai-shek e su posizioni conservatrici quando non apertamente reazionarie – riprese con alterna fortuna appunto in nome della liberazione nazionale dall’aggressore.

La vittoria comunista nella guerra civile e la fondazione della Repubblica popolare cinese riproposero la necessità del “fronte unito” ma in un quadro di rapporti di forza assai diversi: ormai era il partito comunista a dirigere il Paese in nome della “Nuova democrazia”, vale a dire con la collaborazione della borghesia nazionale, e a guidarlo nella ricostruzione e sulla via del socialismo in un contesto di crescente isolamento internazionale. Fondamentale si rivelava, quindi, la collaborazione di quadri tecnici esperti e di intellettuali che pur non essendo comunisti, avevano guardato con simpatia al ruolo nazionale rivestito dal Pcc.

In uno sforzo di portata storica, i comunisti cinesi chiamarono alla collaborazione tutte le forze sociali e i partiti borghesi e patriottici, dando anche sanzione formale a tale rapporto di collaborazione con la costituzione della Conferenza politica consultiva del popolo cinese che fino al 1954, anno della comparsa sulla scena istituzionale dell’Assemblea nazionale popolare, svolse di fatto un ruolo anche legislativo.

Con l’avvio della politica di riforma e apertura e l’emergere della Cina popolare a colosso economico e poi attore centrale negli equilibri internazionali post Guerra fredda, il richiamo al “Fronte unito” si è via via imposto, tanto da ritornare al centro nel discorso politico cinese e nei dibattiti in corso, rivitalizzando il ruolo di sostegno e controllo della Conferenza consultiva.

A partire dalla presidenza di Hu Jintao e ancor più con l’attuale generazione guidata da Xi Jinping, tale ruolo viene collegato allo sforzo collettivo, cui sono chiamate tutte le classi sociali e le forze sociali prodotte dall’impetuoso sviluppo economico, per il mantenimento dell’integrità e dell’indipendenza, la riunificazione nazionale e la costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi. Quando a Pechino si parla di approfondimento della riforma politica e di sviluppo democratico, il riferimento primo è proprio al crescente coinvolgimento di forze e personalità estranee al Partito comunista anche se non antagoniste. Mentre viene esclusa ogni ipotesi di democratizzazione di stampo occidentale con la sua competizione multipartitica (anche se spesso solo formale), l’intellettualità legata al partito comunista ormai da oltre un decennio si è stabilizzata sulla proposta di una sorta di “Stato di diritto di tipo consultivo”, più trasparente, con una progressiva separazione tra partito e istituzioni statali, con una magistratura più indipendente e più aperto alla partecipazione politica soprattutto a livello locale.

Tra il 18 e il 20 maggio scorsi proprio il tema del “Fronte unito” è stato al centro di una seduta del Comitato centrale del Pcc chiamato a valutare il livello di apporto al percorso di riforme in atto di “gruppi di persone” non aderenti al partito. La necessità di rafforzare il lavoro di “Fronte unito” passa ora attraverso l’identificazione di “tre nuovi gruppi di persone”: i rappresentanti di spicco dei “nuovi media” che devono supportare l’impegno del Partito in un settore, quello del cyberspazio, che rappresenta una nuova frontiera della sicurezza e dell’integrità nazionale; i cinesi che risiedono all’estero per motivi di studio, che potrebbero subire influenze giudicate pericolose e sovversive,  infine la nuova generazione di imprenditori, quelli in prima linea nella battaglia dell’innovazione tecnologica e tendenzialmente “globali”, la cui influenza a livello sociale è in rapida espansione. 

In gioco, oltre alla ovvia esigenza di garantirsi la collaborazione di una nuova intellettualità, è la capacità di tenuta “egemonica” del Partito comunista cinese in un contesto sociale in rapida trasformazione e che vede l’emergere di forze e gruppi sociali, all’interno come all’estero, che potrebbero aumentare la propria influenza e costruire un consenso tale da porli come alternativa politica o pericolosa massa di manovra, grazie alla propria esperienza in un settore strategico come quello dei media, per progetti di sovversione interna sostenuti dall’estero. Non è certo un caso che negli stessi giorni il quotidiano dell’Esercito popolare di liberazione abbia avvisato nuovamente del pericoloso “potenziale rivoluzionario” di internet, territorio di diffusione di ideologie avverse e di contestazioni nei confronti del governo e del partito con tanto di interessate interferenze esterne, utilizzando un’espressione che non lascia certo adito a dubbi sulla serietà delle intenzioni cinesi: “Internet è un campo di battaglia, e chi controlla questo strumento vincerà la guerra”.