di Marco Pondrelli
Il 24 luglio Marx21 ha organizzato un seminario di analisi della situazione mondiale. Il dibattito è stato introdotto dalla relazione del Direttore del sito che rappresenta una sintesi dell’analisi politica e delle prospettive dell’Associazione Marx21.
Non è semplice trovare un momento da cui partire per analizzare la politica internazionale del post-’89. Uno spunto per capire le linee strategiche teorizzate negli Stati Uniti dopo il crollo dell’URSS è dato dal libro di Zbigniew Brzezinski (la Grande Scacchiera) pubblicato nel 1997. In quest’opera, che partiva da alcuni articoli pubblicati negli anni precedenti, l’ex Segretario di Stato poneva le premesse teoriche della strategia statunitense nel XXI secolo. La tesi di fondo qui espressa è che per mantenere l’egemonia mondiale è necessario il controllo del continente euroasiatico.
Brzezinski non inventava nulla, prima di lui molti autori avevano affrontato questo tema, in particolare ne vanno citati due: Mackinder e Spykman. Il primo nel tentativo di rafforzare l’imperialismo inglese definisce l’Eurasia come il continente che unisce Asia, Europa e l’Africa del Nord (il confine non è il mediterraneo ma il deserto), per garantire l’egemonia dell’Impero britannico è necessario che non nasca in questo continente nessuno Stato egemone, questo perché, grazie allo sviluppo delle vie di comunicazione a partire dalle ferrovie, il dominio di questo continente garantirebbe oltre al predominio terreste anche quello marittimo emarginando il ruolo inglese. Spykman pur essendo morto nel 1943 può essere considerato il teorico del contenimento sovietico, non casualmente il suo allievo più brillante fu proprio Brzezinski. Pur con le dovute differenze di contesto storico ci sono due elementi che uniscono queste analisi. In primo luogo gli USA non possono accettare la nascita di uno Stato-egemone o di un’alleanza anti-statunitense. Brzezinski individua, e lo fa mentre negli stessi anni la sinistra era persa ad inseguire e concettualizzare fantomatici imperi, nell’alleanza fra Russia, Cina e Iran lo scenario più pericoloso per gli Stati Uniti. Occorre quindi rafforzare i propri alleati nell’area senza però consentirgli di divenire essi stessi egemoni. La politica immaginata da Brzezinski si pone l’obiettivo di disgregare la Russia, fomentando il terrorismo nel Caucaso e lavorando per staccare la Siberia, mentre verso la Cina (non ancora individuata come principale nemico) gli Stati Uniti devono attuare una politica di inglobamento.
Il secondo elemento in comune è quello dell’accerchiamento, Spykman contrappone Heartland e Rimland, guardando all’oggi questa operazione è ancora più evidente. Rovesciano il titolo di un libro del Direttore de ‘la repubblica’ è più corretto parlare di un assedio ‘dell’Occidente’ e non ‘all’Occidente’.
Questo conflitto dimostra che la domanda da porsi non è se si sarà una guerra ma che guerra sarà (come acutamente si chiede il Generale Fabio Mini in un libro di alcuni anni fa). Il conflitto fra Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altra è già aperto, quello che dobbiamo analizzare e come questo conflitto si sta dispiegando e quali possono essere gli sviluppi futuri.
Per portare a sintesi i tanti conflitti che insanguinano la nostra epoca e capirne le vere motivazioni dobbiamo imbarcarci in un viaggio attorno al Continente Euroasiatico, consapevoli, a differenza di quello che pensa una certa sinistra sedicente comunista, che parlare di Eurasia non vuole dire assumere le posizioni di Brzezinski o di Dugin ma solo mantenere una capacità di analisi. Analisi concreta della situazione concreta.
Indo-Pacifico
Il fronte principale oggi non è più quello europeo, così come il muro di Berlino (per quanto costruito nel 1961) è stato il simbolo della guerra fredda oggi la divisione ed il confronto più caldo fra le superpotenze avviene nell’Indo-Pacifico. La libertà di navigazione in questi mari è essenziale per Pechino, che ha articolato la sua politica di proiezione sui mari vicini, intermedi e lontani. Lo scontro nel Mar Cinese Meridionale non è solo funzionale al controllo di piccoli scogli in mezzo all’oceano ma è essenziale per garantire la sicurezza della Cina allontanando la presenza di navi nemiche dalle proprie coste. Nei mari intermedi si trova lo stretto di Malacca uno dei tanto colli di bottiglia che condiziona il commercio cinese. L’importanza degli oceani è dovuta al fatto che la maggioranza del commercio mondiale passa da qui, la Cina esporta manufatti ed importa energia, per gli USA condizionare trasporti marittimi vuole dire bloccarne o rallentarne la crescita. La risposta statunitense impostata nell’ultima parte della Presidenza Bush ha trovato uno sviluppo nell’Amministrazione Obama (Pivot to Asia), Trump (QUAD) e Biden. Sul tentativo di limitare l’azione cinese non c’è divisione a Washington, che sta operando stringendo sempre più i rapporti con Giappone, Australia e India per contenere la Cina.
È indubbio che ad oggi la potenza militare statunitense non abbia rivali ma questo non basta per garantirsi un predomino nell’area. Innanzitutto perché a differenza della Cina gli USA combattono lontano da casa, questo porta con se problemi e costi logistici, inoltre chi si difende è sempre in vantaggio su chi attacca. Difatti la strategia militare cinese è asimmetrica e può essere definita come anti-access e area-denial, l’obiettivo di Pechino non è distruggere gli Stati Uniti ma più realisticamente impedire l’accesso in alcune aree ai mezzi militari nemici, anche solo temporaneamente. La guerra si combatte tutti i giorni, ad esempio nel 2013 l’esercito cinese presentò il missile Dong Feng 21-D pensato per affondare le portaerei statunitensi, ovviamente anche da parte statunitense si sviluppano tecnologie per rispondere a queste minacce.
Il conflitto fra USA e Cina non è solo un conflitto asimmetrico da questo punto di vista. Se dopo la seconda guerra mondiale gli USA sostenevano, ad esempio attraverso il piano Marshall, le economie alleate oggi l’unica politica che riescono a mettere in campo è quella militare, chiedendo tra l’altro ai proprio ‘alleati’ di farsi carico delle spese. La strategia cinese è diversa è per quanto ci siano importanti investimenti in campo militare essa è prioritariamente commerciale, a differenza di quello che succedeva contro l’URSS negli anni ’80 oggi sono gli USA a dovere scegliere fra il burro e i cannoni.
Un esempio è quello del Giappone, con Abe Shinzō e successivamente con Suga Yoshihide, la politica giapponese è diventata maggiormente aggressiva arrivando perfino a prospettare modifiche all’articolo 9 della Costituzione (che fa del Giappone un Paese pacifista), il primo partner commerciale di Tokyo è però Pechino, come reagirebbe l’economia giapponese ad un collasso o anche ad una semplice crisi di quella cinese? Detto in altri termini ha interesse il Giappone ad indebolire la Cina? È un discorso che può essere esteso a molti altri paesi dell’Asia e del resto del mondo, a partire da Taiwan la cui integrazione economica con Pechino è già compiuta.
Europa
Pur non essendo più il fronte principale l’Europa rimane un importante tassello nello scontro euroasiatico. In questo quadrante è centrale il ruolo della Russia, dall’89 ad oggi l’obiettivo degli Stati Uniti è stato quello di spostare verso Mosca le proprie armi ed i propri missili, rafforzando l’assedio all’Eurasia. La guerra scoppiata in Ucraina nel 2014 è un tassello di questo accerchiamento, come scrisse Brzezinski ‘senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero Euroasiatico’. I rapporti sempre più stretti fra Russia e Germania sviluppatisi all’inizio degli anni 2000 non potevano essere tollerati dagli USA, gli stessi interventi nella Prima Guerra Mondiale e nella Seconda si spiegano con questa atavica paura, un’alleanza fra Russia e Germania (o la vittoria di un Paese sull’altro) creerebbe un asse politico in grado di guardare verso est, in particolare verso Pechino, emarginando il ruolo degli Stati Uniti d’America. È un tema che affronta Alberto Bradanini (ambasciatore italiano in Cina dal 2013 al 2015) nel suo ultimo libro ‘Cina. Lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi’. Fu Mackinder all’inizio del Novecento ad affermare la necessità di mettere alcuni stati indipendenti fra Russia e Germania. Ecco perché la guerra che l’Europa ha combattuto contro la Russia è stata innanzitutto una guerra contro se stessa, contro la possibilità di costruire una propria autonomia politica.
La Germania ha accettato di perdere il rapporto privilegiato con la Russia guadagnando una maggiore influenza ad est (l’estero vicino di Mosca) sfruttando una moneta forte Berlino può produrre a prezzi più bassi prodotti che saranno assemblati in Germania e poi esportati nel resto del mondo (soprattutto nel resto d’Europa). Il dibattito sul ‘che fare?’ interno al gruppo dirigente tedesco è aperto, la possibile vittoria dei Verdi alle elezioni di settembre porterebbe una svolta atlantista rafforzando queste politiche ma anche il grande capitale (o meglio chi dentro il grande capitale esercita un ruolo egemonico) è sempre più orientato verso le esportazioni e quindi propenso a difendere questo equilibrio.
Da questo scenario non è esclusa la Cina il cui peso economico non è trascurabile come dimostrano le esportazioni italiane verso questo Paese che hanno consentito alla nostra economia di non naufragare a causa del Covid. La Cina manovra con grande disinvoltura ad esempio attraverso il gruppo dei 16+1 (da cui si è recentemente staccata la Lettonia). Una scelta che rafforza l’idea di conflitto asimmetrico, riguardando una serie di paesi dell’est che quasi corrispondono con quelli che negli ultimi 20 anni sono entrati nella NATO. La disinvoltura con cui la Cina tratta con singoli Stati dell’Unione europea ha prodotto le critiche degli alti papaveri di Bruxelles che vorrebbero evitare trattative bilaterali. Questo porta a due considerazioni: innanzitutto Pechino non cerca solo la UE come proprio interlocutore, chi pensa che l’obiettivo sia costruire un asse anti-USA rafforzando l’UE sbaglia, inoltre la UE rifiutando di ratificare l’accordo con la Cina conferma la sua incapacità di autonomizzarsi da Washington. È un tema messo a fuoco da Alessandro Aresu nel suo ‘Le potenze del capitalismo politico’, l’impossibilità di parlare di un capitalismo politico europeo e di un imperialismo europeo. La guerra in Libia, con la minaccia francese di bombardare gli impianti dell’ENI, dimostra che le contraddizioni intermperialistiche non sono quelle fra il capitalismo statunitense e quello europeo ma quella fra i singoli stati anche europei. Non capire questo rischia di portarci fuori strada.
Medio Oriente
Il cosiddetto Medio Oriente è difficile da analizzare, già il nome non è univocamente riconosciuto, così come i confini di questa zona del mondo non sono chiari. Le dinamiche regionali sono molto complesse, quindi per motivi di tempo le prenderò in considerazione solo parzialmente per supportare il ragionamento più ampio in rapporto alla situazione mondiale.
L’interesse statunitense per questa parte del mondo è mutato negli ultimi anni. La novità più rilevante è stata la trasformazione dell’economia statunitense passata dall’essere importatrice di energia all’essere esportatrice.
L’interesse statunitense per questo pezzo di mondo nonostante questi cambiamenti permane. Il primo motivo è legato all’importazione di petrolio da parte cinese, condizionare gli approvvigionamenti del Paese rivale è importante per rafforzare il ruolo USA. Inoltre, secondo motivo, è necessario continuare, attraverso il rapporto con i sauditi, ad avere una voce in capitolo sul prezzo del petrolio. Un prezzo troppo basso blocca la produzione di scisti negli USA così come anche un prezzo troppo alto può causare difficoltà all’economia statunitense, il rapporto con l’Arabia Saudita rimane essenziale. Infine quest’area è fondamentale per impedire alla Cina di ‘bucare’ il Rimland attraverso la via della seta, la destabilizzazione dell’Afganistan e dell’Iraq vanno lette in questo contesto.
La politica statunitense nell’area è stata quella di intervenire per creare aree di instabilità, da questo punto di vista le guerre in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria hanno raggiunto il loro obiettivo. È questa la differenza più rilevante in politica estera fra Trump e gli altri presidenti (Clinton, Bush, Obama e Biden), il suo obiettivo era quello di stabilizzare la situazione costruendo un equilibrio favorevole agli USA che, coinvolgendo anche Russia e Cina, permettesse a Washington di disimpegnarsi dalla regione per contrare forze e risorse sull’Indo-Pacifico.
Oggi la politica di Biden è nuovamente votata alla destabilizzazione.
Il Medio Oriente è attraversato da quella che Dilip Hiro ha definito la guerra fredda del mondo islamico che vede fronteggiarsi Arabia Saudita ed Iran, nel dibattito questo scontro viene riassunto in quello più generale fra sunniti e sciiti. È una definizione che può essere accettata ma solo considerandola nella sua accezione politica e non religiosa. L’Iran dall’inizio degli anni 2000 ha rafforzato la propria posizione e attraverso quella che Vali Nasr ha definito ‘la rivincita sciita’ ha costruito la ‘mezzaluna sciita’ che comprende oltre a Teheran, il Libano (dove forte è la presenza di Hezbollah), l’Iraq che si sta sempre più autonomizzando dall’ingombrante presenza statunitense e la Siria. La forza della politica sciita è quella di non combattere per la creazione di un califfato ma di combattere all’interno del proprio Stato in chiave, oggettivamente, anti-imperialista e anti-sionista.
L’asse fra Iran, Russia e Cina, che tanto spaventava Brzezinski si sta rafforzando anche militarmente all’interno dello SCO. La risposta occidentale è l’alleanza con la parte più reazionaria e pericolosa. In Siria il tentativo, fallito, è stato quello di riproporre lo schema a suo tempo utilizzato contro l’Armata Rossa in Afghanistan. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno messo i soldi, la Turchia la logistica (lasciando passare i terroristi e commerciando il petrolio con lo Stato islamico) e l’ISIS, assieme ad altri gruppi terroristi, ha messo la manovalanza. Pur mantenendo ancora una presenza in Siria, soprattutto attraverso la sciagurata complicità curda, gli USA hanno per la prima volta dall’89 incassato una sconfitta, grazie alla lotta del popolo siriano, sostenuto attivamente dall’Iran, dalla Russia, dagli Hezbollah ed anche con il sostegno tecnologico dalla Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC). La sensazione è che fallita la spallata a Damasco, sauditi, israeliani e statunitensi considerino il Libano l’anello debole della catena da destabilizzare.
In questo quadro la Turchia si sta sempre più ritagliando un ruolo di potenza regionale, dopo la sconfitta in Siria Erdogan ha ribaltato la sua politica ed in cambio di una garanzia rispetto al ruolo dei curdi ha rinunciato a porre il tema del regime change. Una battuta che sentii pronunciare a Prodi ad un convegno spiega molto bene la situazione: la Turchia è un Paese che monta missili russi su aerei statunitensi. Il ruolo che la Russia ha giocato nell’avvisare Erdogan del colpo di stato aumenta l’ambiguità del ruolo turco. Erdogan non è cambiato negli ultima anni ma per la stampa e la politica italiana è passato da Presidente a Dittatore, non perché prima la Turchia non conoscesse repressione interna ma solo per avere raffreddato il ruolo nell’Alleanza Atlantica. Personalmente ho parlato con compagni turchi che conoscono molto meglio di me la realtà del loro paese, che confermano che a breve non è immaginabile un’uscita della Turchia dalla NATO, anche e soprattutto in virtù di un’economia ancora sbilanciata ad occidente, ma il rapporto con la Cina e la Russia sarà sempre più stretto nei prossimi anni, rafforzando un ruolo autonomo da potenza regionale della Turchia. Ankara rimarrà avversaria di Mosca in molteplici scacchieri impegnandosi ad impedire escalation militari e laddove possibile (Libia?) a trovare accordi stabilizzatori.
Mi scuso se non dedicherò spazio alla questione palestinese che al momento sembra non avere possibilità di soluzioni positive. Israele continua a fomentare le divisioni nel campo avverso, attraverso gli Accordi di Abramo sta preparando il terreno per un’alleanza con i sauditi. In quest’ottica il problema palestinese è destinato a rimanere tale innanzitutto perché non è più una priorità per il mondo arabo.
Ritengo che questo tema possa trovare una soluzione positiva nel lungo periodo grazie ad un rafforzamento dell’Iran ma soprattutto grazie ad una maggiore presenza cinese, nel 2016 la Cina è intervenuta in Medio Oriente con 26 miliardi contro i 6 degli Stati Uniti, questo ruolo si è accresciuto negli ultimi anni. Gli Emirati Arabi Uniti, fedeli alleati di Washington, hanno accettato di diventare parte della nuova via della seta sanitaria, divenendo hub nella produzione dei vaccini cinesi. Questo ruolo cinese potrà giocare un ruolo nella stabilizzazione dell’area e nella lotta contro il terrorismo, ancora presente nonostante la sconfitta in Siria, attraverso la cooperazione economica ed anche grazie al ruolo sempre più assertivo dello SCO.
Artico
Il viaggio attorno al continente Euroasiatico si conclude nell’Artico. Qui il cambiamento climatico con il successivo disgelo ha aperto nuovi scenari. Se da una parte turismo e pesca possono avere un notevole sviluppo e contribuire al progresso economico, dall’altra in alcuni mesi dell’anno le acque sono divenute navigabili, per la Cina questa rotta vuole dire non solo accorciare il viaggio verso l’Europa ma anche evitare lo Stretto di Malacca, ecco perché la Cina è entrata come osservatore permanente nel Consiglio Artico.
In quest’area il ruolo di preminenza della Russia non è in discussione e non solo perché lì si trovano le sue coste ma anche per la forza militare, superiore a quella statunitense sprovvista di sommergibili nucleari essenziali per incrociare in acque ghiacciate. Gli USA si limitano considerando questo un fronte secondario a presidiare i colli di bottiglia. Da una parte lo stretto di Bering e dall’altra la linea che collega Groenlandia, Islanda e Gran Bretagna. È questo il motivo che spinse Trump a proporre l’acquisto della Groenlandia, ma anche in questo caso la Cina parte con un notevole vantaggio essendo il primo partner commerciale e il primo investitore.
La nuova frontiera
L’assedio all’Eurasia non è combattuto solo con i metodi tradizionali ed in luoghi delimitati, il conflitto moderno è molteplice e tocca anche campi nuovi.
La finanza è uno di questi. Basti pensare, ma sono solo due esempi, alla crisi Russia del 1998 e a quella libanese del 2019. si può creare il panico in una popolazione non solo sganciando bombe ma anche (Draghi docet) impedendo ai bancomat di funzionare. Nel 1998 il FMI bloccò i prestiti a Mosca, la speculazione di alcuni grandi hauge found fece il resto tentando di perseguire l’obiettivo prefissato da Brzezinski di disgregare la Russia. Un sistema simile ha portato dal default del Libano nel 2019 quando i sauditi (nemici dell’Iran alleato agli Hezbollah) bloccarono i prestiti al Paese del cedri. I grandi fondi d’investimento sono uno strumento della politica (di quello che Aresu chiama il capitalismo politico), la differenza che emerge e che mentre in Cina ed anche in Russia è la politica (nel caso cinese il Partito Comunista) a guidare le scelte di questi fondi, nel caso statunitense la politica è subordinata a questi poteri.
Come sito internet marx21.it abbiamo dedicato molti articoli (lo ha fatto Francesco Galofaro) sulla cyberguerra, oggi gli USA (a prescindere da quello che scrivono i nostri giornali) guidano lo spionaggio mondiale a livelli tali da fare passare la STASI come circolo del dopo lavoro. Inoltre è sempre grazie alle tecnologia informatiche che Israele ha colpito ripetutamente il programma nucleare iraniano, siamo di fronte a territori inesplorati e pericolosi. Come può rispondere un Paese che è stato aggredito da attacchi informatici? Israele ha detto di considerare questi come attacchi militari quindi la reazioni potrebbe essere anche armata. Anche in questo campo i rischi aumentano.
Infine la guerra si combatte anche con la corsa allo spazio, il cui obiettivo è legato allo sviluppo di tecnologie in grado di regalare vantaggi non nella corsa verso Marte ma nel controllo del pianeta Terra.
Prima di esaminare i tre principali protagonisti dello scontro attuale è necessaria una riflessione sulla pandemia. Il Covid rappresenterà un’accelerazione delle tendenze in atto, così come la crisi del 2007-08 rappresentò per la Cina la possibilità di presentarsi come una potenza stabilizzatrice. Sono convinto che dalla pandemia usciremo con una Cina più forte, il cui ruolo nel combattere la malattia e nell’aiutare il resto del mondo a farlo sarà riconosciuto. L’aiuto cinese non è solo quello medico ma anche economico, le resistenza dell’economia italiana è dovuta alle esportazioni verso la Cina, la repressione ideologica può anche aumentare ma la realtà è questa.
I 3 attori principali
Gli Stati Uniti d’America
Gli Stati Uniti continuano a vivere una profonda crisi. Lo smantellamento della manifattura ha portato ad un grande sviluppo delle attività finanziarie creando grande sacche di povertà, inoltre come afferma il Generale Qiao Liang la manifattura è fondamentale anche per combattere una guerra, la politica trampiana di dazi contro la Cina non ha risolto il problema statunitense: lo sbilancio commerciale di un Paese che consuma più di quello che produce.
Questi sono i problemi che la politica statunitense non affronta e che la stampa italiana non vuole vedere, di contro la politica estera è quanto mai aggressiva. Oggi la Cina è il principale pericolo, la sua ascesa pacifica va contenuta perché essa è considerata una potenza revisionista ovverosia una potenza che vuole ridiscutere gli equilibri e le regole internazionali unilaterali.
All’attacco alla Cina si accompagna una politica più articolata verso la Russia, come hanno messo in evidenza Andrea Kendall-Taylor e David Shullman su Foreing Affairs il 3 maggio 2021, gli USA devono bloccare la convergenza fra Cina e Russia. Washington sa benissimo che una guerra contro questi due paesi non può essere vinta per cui l’obiettivo è quello di incunearsi fra i due paesi. Nell’articolo citato si propone di accompagnare ad una politica aggressiva su alcuni dossier la proposta di collaborazione su altri, questo per rafforzare la parte più dialogante interna al potere moscovita. Non è casuale che dopo l’incontro Putin-Biden non si parli più di hacker o di Navalny, che l’adesione dell’Ucraina alla NATO sia stata messa nel cassetto e che gli USA non si siano opposti al north stream 2.
Nel rapporto con la Cina si ripropone oggi un dibattito che ha già segnato la storia degli Stati Uniti dalla seconda metà degli anni ’40 all’inzio degli anni ’50. Le elezioni del 1944 videro confrontarsi due posizioni differenti, rappresentate dai due candidati presidenziali. Entrambe le parti davano già per vinta la guerra, ma mentre Franklin Delano Roosevelt immaginava un mondo in cui l’ONU avrebbe svolto un ruolo di governo sterilizzando i conflitti grazie alla cooperazione USA-URSS, il candidato repubblicano Thomas Dewey sosteneva che, sconfitta la Germania nazista, si sarebbe aperto un nuovo conflitto con l’Unione Sovietica. La vittoria di Roosevelt avvenne in un paese che si stava trasformando e che stava virando a destra verso una nuova guerra fredda, in risposta egli cambio il proprio candidato alla vicepresidenza, Wallace (che nel 1948 si sarebbe candidato con il sostegno del Partito Comunista) venne sostituito da Truman. Nel dopoguerra il dibatto si trasforma, le posizioni di cooperazione con l’URSS sono emarginate (se non represse) e la discussione e fra chi vuole aprire una nuova guerra e chi vuole limitarsi al contenimento sovietico. Truman nonostante la guerra in Corea dovette fronteggiare una destra oltranzista che avrebbe voluto estendere il conflitto in Cina e in Unione Sovietica. Fu Eisenhower ha chiudere il dibattito confermando nei fatti la politica del contenimento. Oggi il dibattito interno agli Stati Uniti ricorda da vicino questo delicato passaggio storico.
La Cina
Sulla Cina non mi dilungherò, la crescita impone alla dirigenza cinese una grande capacità di sintesi all’interno del Paese. La trasformazione da un’economia orientata alle esportazioni ad una che si regga sul doppio standard: interno ed esterno. Sviluppare i consumi richiederà una grande capacità non solo di gestione economica dei problemi ma anche politica.
La sfida che Xi Jinping ha lanciato di un’umanità dei destini condivisi sarà possibile solo in un contesto internazionale di pace. La via della seta ha bisogno di stabilità politica ed è proprio su questo che si misureranno le tensioni nei prossimi anni. A differenza di quello che una certa sinistra sostiene non c’è fra Cina e USA un lotta fra differenti imperialismi, innanzitutto perché se ci rifacciamo alla definizione leniniana non è possibile parlare di un imperialismo cinese. Inoltre la Cina sta sviluppando l’economia reale (guidata dal pubblico) non quella finanziaria, un rafforzamento cinese aiuterebbe una ripresa ed uno sviluppo anche nel resto del mondo. Questo percorso che la Cina ha scelto non è funzionale alla creazione di uno Stato capitalista ma è alla base del socialismo con caratteristiche cinesi, la Cina rappresenta un sistema politico-economico alternativo a quello occidentale. Quando Xi Jinping nel 2017 intervenne a Davos lo fece per difendere la globalizzazione intesa come cooperazione, allo stesso tempo condannò le storture del nostro sistema (diseguaglianza, povertà e guerra), è difficile considerare queste posizioni sullo stesso piano di quelle statunitensi.
La Russia
Putin rappresenta per la Russia un elemento di compromesso fra le due grandi correnti di pensiero che hanno attraversato la storia di quel Paese da Pietro il Grande in poi: la parte cosiddetta occidentalista e quella slavofila. Cosa succederà nei prossimi anni è difficile dirlo, personalmente mi sento di dire che i tentativi statunitensi di incunearsi fra Russia e Cina non sortiranno gli effetti sperati. Innanzitutto perché il sostegno che la Cina, uno Stato che cresce ed ha bisogno di energia, può offrire in termini economici e commerciali è un’occasione troppo ghiotta per lo sviluppo della Russia. Inoltre Mosca sa che Washington teme la saldatura di un asse con la Germania, questa è la paura strategica e quindi il conflitto sarebbe solo rimandato.
La gestione del dopo-Putin sarà complicata. Oggi le posizioni che storicamente furono di Primakov, apertura ad est, trovano in Lavrov un capace esecutore ma le tendenze filo-occidentali sono ancora presenti (Medvedev, Nabiullina…), la Russia economicamente sta vivendo momenti di grande difficoltà, un precipitare della situazione potrebbe esacerbare le posizioni ed aprire uno scontro le cui risultanze sono oggi difficilmente prevedibili.
Gli scenari possibili
Ci troviamo in un momento di passaggio. Il sistema unipolare a guida statunitense è in crisi ma il mondo multipolare non ha ancora prodotto un sistema multipolare, fatto di regole e del ristabilimento del diritto internazionale. Si dischiudono davanti a noi 3 possibili scenari.
- Uno scenario di cooperazione, sarebbe lo scenario migliore ma è anche il meno probabile. Ad oggi la cooperazione pacifica vorrebbe dire il sorpasso della Cina sugli USA (non solo dal punto di vista economico) e questo per Washington non può essere accettato. Il passaggio che vi fu nel Novecento fra Impero inglese e Stati Uniti d’America, come sottolineato da David Lai, maturò in una condizione diversa a partire da un’unità linguistica, culturale e politica fra le due nazioni. Questo permise un passaggio non pacifico ma senza conflitti mondiali.
- L’aumento delle tensioni, senza escludere lo scoppio di una guerra calda. Anche questo scenario non sembra il più probabile, gli USA sono l’unico Paese che oggi potrebbe avviare un nuovo conflitto ma da una parte tutti gli scenari di guerra analizzati non consigliano uno contro contro Cina e Russia, dall’altra per quanto gli USA siano militarmente superiori a tutti gli altri Stati sanno che non potrebbero fermare la reazione nucleare, nessuno gode del ‘privilegio’ del first strike. Per quanto improbabile questo scenario non va escluso. Innanzitutto vanno considerati gli sforzi statunitensi per garantirsi il first strike, dallo scudo spaziale all’avere installato missili al confine della Russia, inoltre lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari (in Italia le nuove B61-12) consente di calibrare l’utilizzo del nucleare, limitando la potenza esplosiva si rende questo tipo di armamento impiegabile anche in conflitti regionali. La domanda a cui oggi non si può dare risposta e se è possibile fermare l’escalation di un conflitto regionale combattuto con armi nucleari.
- Una nuova guerra fredda, lo scenario più probabile. In un articolo apparso su Foreign Affairs il 23 marzo 2021, Kupchan e Haass sostenevano la necessità di una nuova Yalta che trovasse la propria legittimazione in una cooperazione fra USA, Cina, Russia, India, Giappone e UE. Una nuova Yalta non aprirebbe un periodo di copperazione ma, come fu nel secondo dopo guerra, di scontro. Una nuova guerra fredda sarebbe uno scenario negativo anche per la battaglia dei comunisti nei propri paesi, non solo ad essa si accompagnerebbe (come è già iniziato) una forte repressione ma sarebbe il mondo del lavoro a pagare le spese di questa guerra. L’alternativa ad una nuova Yalta e ad una nuova guerra fredda è però quella peggiore, non la cooperazione ma l’accentuazione dell’unipolarità statunitense, con un aumento degli scenari di guerra. L’89 non ha rappresentato la fine della storia ma solamente del diritto internazionale, una nuova guerra fredda, per quanto deprecabile ed intrinsecamente anti-operaia, produrrebbe un sistema multipolare fatto di regole. Le regole, come durante la guerra fredda fra Usa e URSS, sono esplicite (risoluzioni dell’ONU, accordi internazionali) ed implicite (sfere d’influenza). Si può obbiettare che questo vuole dire consegnare pezzi di mondo all’influenza USA come fu negli anni passati per l’America Latina (con l’eccezione di Cuba), ripeto però che l’alternativa è peggiore. All’interno dell’establishment statunitense questa scelta non sarà indolore, possiamo immaginare come nelle segrete stanze di Washington si decida se e cosa abbandonare (Venezuela, Taiwan…). Dal punto di vista statunitense, mi rendo conto di esprimere una tesi discutibile, questo è un passo indietro mentre per la Cina vorrebbe dire garantirsi la possibilità di rafforzarsi in Asia (con una battuta potremmo dire che l’obiettivo è quello di dare l’Asia agli asiatici) limitando l’azione degli USA. I rapporti con l’Europa sarebbero soprattutto commerciali con alcune limitazioni (ad esempio il 5G). Personalmente considero questa una scelta strategica che per gli USA rappresenterà un pesante arretramento come quella compiuta all’inizio degli anni 2000 con la guerra infinita.
Che fare?
Questo è il contesto in cui dobbiamo operare anche in Italia. Si impone quindi l’eterna domanda del che fare? La nuova guerra fredda per il mondo del lavoro, anche in Italia, sarà un arretramento. Quando la CGIL protesta davanti all’ambasciata iraniana, così come quando il PRC protestò davanti all’ambasciata libica sventolando le bandiere di re Idris, che rappresenta: gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici o degli Stati Uniti?
I comunisti devono rilanciare la battaglia per la pace. Non c’è all’orizzonte una rivoluzione socialista ma un mondo pacificato garantirebbe uno spostamento in avanti dell’equilibrio e quindi aprirebbe spazi di lotta e possibilità di conquista sociali anche dentro i paesi occidentali.
Per fare questo è necessario lavorare su due piani. Innanzitutto allargare il fronte dell’opposizione alla nuova guerra fredda. Non solo il mondo del lavoro deve temere questa deriva ma anche pezzi del mondo politico e della borghesia nazionale (quella che un tempo avremmo definito illuminata) vogliono la pace, non per nobili motivi etici ma per interesse. Il pensiero non può che andare alle tante aziende italiane che hanno sofferto a causa delle contro-sanzioni russe, qual era l’interesse dell’Italia nell’aprire uno scontro con Mosca e qual è l’interesse ad aprirlo contro il paese che in questo periodo di pandemia ha sostenuto le nostre esportazioni? I tanti artigiani e commercianti italiani sarebbero felici di una riduzione del turismo cinese? La borghesia nazionale, come ci spiega Lenin, può avere un ruolo positivo e anti-imperialista, è quello che sta succedendo in Russia dove non c’è più il Paese dei Soviet ma non c’è neanche più il comitato d’affari mafioso-atlantista dell’epoca Eltsin.
Se da una parte è necessario allargare il nostro campo d’azione, sfruttando le divisioni interimperialistiche, dall’altra è necessario strutturare la nostra presenza della società italiana. L’obiettivo non è costruire l’ennesimo partitino comunista ma dare voce alle nostre posizioni, non vogliamo costruire sezioni e comitati federali, occorre strutturare una presenza in tutte le regioni italiane e nelle maggiori metropoli. Ci sono quadri sparsi sul territorio, chi fa attività sindacale, chi si occupa di casa, chi di antifascismo, occorre raggruppare quest’area dispersa costruendo iniziative contro la nuova guerra fredda. Anche pochi compagni ma con un influenza di massa possono costruire iniziative importanti, così come possono costruire una rete di relazioni con chi è sensibile a questi temi ed ha importanti ruoli politici (parlamentari) o opera nel campo degli studi o del giornalismo.
Sono queste le due strade su cui lavorare per impedire che le nostre analisi sul contesto internazionale rimangano al livello della pura teoria.