Le origini della Rivoluzione Cinese

di Salvatore Tinè

da https://www.marxismo-oggi.it/

La fondazione del Partito Comunista Cinese il 1° luglio del 1921 a Shangai costituisce certamente un passaggio fondamentale nella lunga e complessa vicenda della rivoluzione cinese. Tale avvenimento è infatti destinato a segnare una svolta decisiva nel processo rivoluzionario che, iniziato in Cina con il crollo dell’Impero e l’avvento della Repubblica nel 1911, già nel 1919 con il cosiddetto Movimento del 4 maggio aveva impresso nel paese una poderosa spinta verso una profonda modernizzazione politica e culturale del paese.

Le grandi manifestazioni studentesche e giovanili contro il trasferimento dei diritti della Germania sullo Shantung al Giappone deciso dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale con il Trattato di Versailles sono la prima grande manifestazione del carattere insieme nazionale e antimperialista della Rivoluzione cinese. Le decisioni ratificate nel Trattato di Versailles rivelavano il carattere del tutto illusorio e demagogico dei 14 punti di Wilson e delle idee di autodeterminazione dei popoli che le avevano ispirate. Esse dimostravano come nell’epoca dell’imperialismo, anche dopo la fine della prima guerra mondiale, non esisteva per la Cina una prospettiva riformista e pacifica di conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionali, ma solo una prospettiva democratico-rivoluzionaria. Il tema della modernizzazione al centro del sommovimento culturale della Cina teso al superamento della vecchia cultura feudale e alla conquista delle idee e dei valori di una cultura nuova e scientifica si intreccia a quello patriottico della difesa dell’indipendenza e dell’autonomia nazionale della Cina. Lo sviluppo in senso imperialista del capitalismo, ovvero il suo trasformarsi in un sistema compiutamente mondiale gestito da un pugno di grandi potenze sulla base dello sfruttamento economico e dell’oppressione politica dei popoli e delle nazioni dei paesi coloniali e semi-coloniali impone alle élites e ai gruppi politici che guidano e orientano questa fase iniziale del processo rivoluzionario in Cina una nuova definizione del tema della modernizzazione, diversa e alternativa ad una prospettiva puramente riformista e occidentale. Di qui le difficoltà e le contraddizioni del processo rivoluzionario, la necessità della ricerca di una via originale, insieme democratica e rivoluzionaria, allo sviluppo e alla modernizzazione. L’esempio della Rivoluzione d’Ottobre, l’esperienza rivoluzionaria in atto nel primo Stato socialista della storia costituisce in questo senso già per le tendenze più avanzate che animano il Movimento del 4 maggio, un riferimento non solo fondamentale ma perfino decisivo per i destini stessi della Cina nel Novecento. L’acquisizione delle tradizioni e della cultura moderne dell’Occidente non potrà che passare in Cina attraverso la mediazione del marxismo e del leninismo. Solo infatti con l’Ottobre sovietico e il leninismo, il marxismo come una delle massime espressioni non solo della cultura e della storia dell’Occidente ma anche del movimento di emancipazione economica e politica del proletariato e delle classi oppresse sorto nei paesi dominanti del sistema capitalistico mondiale, diventa un riferimento teorico e scientifico fondamentale anche per le lotte di liberazione dei popoli e delle nazioni oppresse delle colonie e delle semi-colonie. Ciò è vero soprattutto all’inizio del Novecento per i popoli oppressi dell’Asia, come Lenin aveva lucidamente intuito quando nei sommovimenti dell’Asia “avanzata”, nel suo “risveglio” aveva visto l’inizio del declino storico del dominio imperialista di un’Europa di fatto già “arretrata”. La rivoluzione cinese è certamente la prima colossale manifestazione del risveglio dell’Asia così prontamente individuato nell’analisi leniniana dell’epoca imperialista. Tuttavia, a partire dalla fase che possiamo fare iniziare proprio col Movimento del 4 maggio, è la stessa la Rivoluzione d’Ottobre ad imprimere ad essa una fondamentale spinta propulsiva, segnandone i destini e le prospettive di sviluppo democratico e rivoluzionario. Poco dopo nell’estate del 1919 le grandi vittorie dell’Armata rossa nella guerra contro le truppe di Kolčak, sostenute dagli imperialisti inglesi, americani e giapponesi infondo un nuovo slancio alla lotta di liberazione del popolo cinese. Il governo sovietico rinuncia a tutti i privilegi e diritti sulla Cina imposti a quest’ultima dalla Russia zarista, invitando il popolo cinese alla lotta per la libertà, contro i Trattati di Versailles e i disegni dell’imperialismo. Un invito che viene subito accolto dai gruppi più avanzati della gioventù rivoluzionaria cinese: sul giornale di Pechino, Nuova gioventù” si leggeva: L’aurora viene dalla Russia… ci viene tesa una mano amico… porgiamo anche noi la mano senza titubanze.”

Il partito comunista fondato a Shangai in una riunione di soli dodici delegati in rappresentanza di 50 quadri si trasforma subito nei mesi seguenti come l’avanguardia di possenti movimenti di massa della classe operaia nei grandi centri industriali in cui le rivendicazioni economiche e salariali si legano ad obiettivi di lotta antimperialista. Ma già al suo II Congresso sempre a Shangai nel luglio ’22, il partito comunista definiva nei suoi termini essenziali accanto al programma massimo della realizzazione del comunismo il programma minimo della creazione di un fronte democratico unitario per la pace interna e l’unificazione del paese contro il dominio dei “militaristi” e l’oppressione dell’imperialismo internazionale. La condizione di semi-colonia cui era stata costretta dal dominio congiunto di diversi paesi imperialisti nel corso dell’Ottocento e che l’avvento della Repubblica con la rivoluzione del 1911 non aveva per niente scalfito costringeva la borghesia nazionale cinese ad un ruolo subalterno, rendendola una classe debole economicamente e politicamente, incapace di dirigere una rivoluzione democratica-borghese. Come la Russia nel 1905 e nel 1917, anche in Cina dunque la rivoluzione democratico-borghese sarebbe stata condotta e diretta dal proletariato alleato con le masse contadine e la piccola borghesia delle città. E tuttavia, a differenza che in Russia, proprio in virtù del suo carattere non imperialista la borghesia nazionale era una componente fondamentale per quanto non dirigente del fronte rivoluzionario. La questione della natura e quindi del ruolo della borghesia nazionale nella rivoluzione cinese sarebbe stata non a caso uno dei problemi più discussi nell’elaborazione teorica e strategica dell’Internazionale Comunista e del partito comunista cinese. Attorno ad essa ruotava infatti la definizione delle peculiarità, delle particolarità storiche della rivoluzione cinese, che se per un verso si poneva come parte fondamentale del processo rivoluzionario mondiale innescato dalla Rivoluzione d’ottobre, per un altro verso si differenziava dal modello del 1917, proprio per il carattere nazionale e antimperialista della rivoluzione democratico-borghese in Cina. La lotta per l’indipendenza nazionale contro l’imperialismo così come quella per l’unificazione nazionale contro l’anarchia feudale dei “signori della guerra” coinvolgeva almeno alcuni dei gruppi più avanzati e progressisti della borghesia nazionale. La debolezza economica e politica di quest’ultima nulla toglieva alla sua differenza oggettiva dai gruppi di borghesia cosiddetta “compradora”, dalla borghesia burocratica legata all’imperialismo, subalterna non solo al capitale straniero ma anche e alle stesse classi feudali come ai ceti burocratici della vecchia Cina imperiale. La linea del Komintern riprendeva così la teoria leninista delle due fasi della rivoluzione, quella democratico-borghese e quella socialista sviluppandola ed applicandola in modo originale in Cina, in termini adeguati alle particolarità storiche e nazionali della rivoluzione cinese. Fatta salva l’idea leniniana del ruolo di direzione, della egemonia del proletariato anche nella tappa democratica del processo rivoluzionario, il carattere nazionale ed antimperialista della rivoluzione in Cina imponeva una diversa articolazione e definizione di tale funzione egemonica e quindi della stessa tattica del partito comunista come avanguardia della classe operaia e delle masse contadine. La decisione del Partito Comunista Cinese presa al suo III Congresso nel giugno del 1923 di entrare nel Kuomintang, nel partito democratico fondato da Sun Yat Sen per riorganizzarlo dall’interno e trasformarlo nell’organismo politico fondamentale di un ampio fronte unito per la liberazione nazionale costituì la concretizzazione sul piano della strategia e della tattica politica di uno sviluppo originale della teoria leninista dell’egemonia proletaria che non ricalcava in modo meccanico il modello dell’Ottobre. Non è un caso che sarebbe stato Stalin, nel corso di una dura polemica con la cosiddetta Opposizione di sinistra di Trotskij e di Zinov’ev, il più convinto sostenitore dalla scelta di entrare nel Kuomintang e più in generale della necessità di una applicazione della teoria leninista dell’egemonia adeguata alla particolarità storiche della rivoluzione cinese e alla necessità di una alleanza anche di lungo periodo tra il proletariato cinese e la borghesia nazionale. Ciò mostra come la strategia del “socialismo in un solo paese” sia nella sua versione staliniana che buchariniana non sia certo riducibile ad una idea di chiusura nazionalistica in se stessa dell’Unione Sovietica, ovvero ad una pura e semplice negazione delle prospettive della rivoluzione internazionale ma ben al contrario essa presupponga una più complessa e differenziata visione del processo rivoluzionario a scala mondiale, il cui sviluppo per tappe e di lungo periodo riflette lo stesso coinvolgimento in esso delle lotte di liberazione democratica e nazionale dei popoli e delle nazioni oppresse e insieme il loro nesso organico con la lotta di classe del proletariato nelle metropoli imperialiste.

Insomma, la linea del fronte unico, sintetizzata nella cosiddetta teoria del blocco delle quattro classi (il proletariato, i contadini, la piccola borghesia, la borghesia nazionale) è essa stessa un momento del processo di formazione a scala mondiale di un fronte unito internazionale contro il capitalismo e l’imperialismo che trova nella funzione dirigente dell’Urss la sua principale spinta propulsiva e la sua fondamentale base di riferimento. Non a caso è nel ruolo fondamentale dell’Urss che il programma politico del nuovo Kuomintang individua una dei perni della sua idea di rivoluzione democratica e nazionale in Cina, affiancando all’alleanza tra la borghesia nazionale da un lato e la classe operaia e i contadini dall’altro, l’alleanza con l’Urss. La missione nella Cina meridionale, del funzionario del Komintern Borodin ottiene nell’immediato dei successi importanti sia sul terreno della collaborazione militare tra i sovietici e il governo di Canton con la costituzione della nuova Accademia militare di Whampoa, sia su quello della riorganizzazione e rifondazione politica del Kuomintang, ovvero della sua trasformazione in un vero partito popolare e di massa effettivamente anti-imperialista e non solo in una potenza militare attraverso il rafforzamento al suo interno dei comunisti e della sua ala sinistra. Il lavoro del Komintern è in questo senso prezioso nella costruzione e nella formazione del fronte unico all’inizio degli anni ’20 e costituisce in questa fase una base politica ed organizzativa fondamentale della rivoluzione cinese. Una fase decisiva nella formazione delle basi di massa, insieme proletarie e contadine del processo rivoluzionario nel corso della quale la Cina appare già come il paese in cui sono destinati a decidersi, più che in qualunque altro paese coloniale, più che nella stessa India, la vittoria del socialismo o la sopravvivenza dell’imperialismo in tutto il mondo. Tuttavia proprio l’impetuosa crescita del movimento proletario, manifestatasi in modo particolare con i fatti di Shangai del 30 maggio 1925, “la prima grande rivolta proletaria contro il capitalismo industriale” secondo la definizione dello storico inglese Carr, insieme con la stessa avanzata della lotta armata rivoluzionaria per strappare le regioni controllati dai militaristi feudali durante la cosiddetta Spedizione del Nord finiscono per spaventare l’ala più moderata e di destra della borghesia nazionale spingendo i settori più reazionari del Kuomintang ad una rottura violenta del fronte unico. Il colpo di stato di Chiang Kai-shek a Shangai il 12 aprile del 1927 e la conseguente formazione di un governo controrivoluzionario a Nanchino rappresentano una sconfitta tremenda della rivoluzione cinese. La direzione del partito comunista pagò probabilmente una scarsa di vigilanza sugli spostamenti dei settori di destra della borghesia nazionale, non cogliendone a fondo i limiti e la natura essenzialmente oscillante e applicando quindi in termini sostanzialmente opportunisti la tattica del fronte unico. Lo stesso Stalin in un importante intervento alla Commissione cinese del Comitato Esecutivo del 30 novembre 1926 su Le prospettive della rivoluzione in Cina non aveva mancato di sottolineare insieme alla “debolezza della borghesia nazionale in Cina” l’importanza fondamentale della lotta del popolo armato e quindi della presenza e vigilanza dei comunisti nell’esercito rivoluzionario come “garanzia” che esso avrebbe seguito la “strada giusta”, senza “esitazioni” ed “oscillazioni”. L’estensione e il rafforzamento del movimento contadino dovevano essere in questo senso considerati non come un elemento di debolezza del fronte unico ma al contrario come un elemento fondamentale del suo rafforzamento. La concezione staliniana della tattica del fronte unico in Cina e dell’egemonia del proletariato e del partito comunista nella rivoluzione nell’ambito dell’alleanza con la borghesia nazionale e col Kuomintang era nella sostanza la stessa visione di Mao-tze-tung non a caso in quella fase molto critico della direzione di destra del partito guidato da Chen Tu-hsiu. In uno scritto del marzo 1926 dal titolo Analisi delle classi nella società cinese, Mao individuava con chiarezza gli “amici” e i “nemici” della rivoluzione, indicando i primi nel proletariato, nel semiproletariato e nella piccola borghesia e i secondi nei signori della guerra, nei burocrati, nella classe dei ‘compradores’ e nella classe dei grossi proprietari fondiari. Ma sottolineando il carattere “sempre oscillante” della “media borghesia” ne individuava un’ala destra “nostra nemica” e un’ala sinistra “nostra amica”. Perciò come Stalin nella già citata riunione dell’Internazionale concludeva affermando la necessità di “stare sempre in guardia e non permettere a questa classe di creare confusione nelle nostre file.” La sconfitta del 1927 apre una nuova fase della rivoluzione, segnata dalla direzione e dalla leadership di Mao. Sulla base della sostanziale identità tra questione nazionale e questione contadina stabilita da Stalin nel suo fondamentale intervento alla già citata riunione del Komintern del novembre 1926, Mao ridefinì le prospettive della rivoluzione cinese rimettendo al centro il tema della “Rivoluzione agraria” ovvero delle basi di massa contadine della rivoluzione nazionale. Mao fa sua la tesi di origine leniniana e su cui aveva più volte richiamato con forza l’attenzione Bucharin del carattere “antifeudale” della rivoluzione cinese, dato il legame profondo tra la tra l’arretratezza dei rapporti di produzione nelle campagne e del dominio dei grandi proprietari fondiari da un lato e il carattere reazionario dell’imperialismo straniero. Ma l’indicazione staliniana sul ruolo dell’esercito rivoluzionario, della lotta di popolo armata come particolarità della rivoluzione cinese ha trova nella sua elaborazione sul processo rivoluzionario come “guerra di lunga durata” nel corso dei primi anni ’30, un approfondimento e uno sviluppo originali. La centralità della questione contadina e insieme il frazionamento del potere politico-militare consentono in Cina secondo Mao la costruzione nelle campagne di basi di potere rosso in grado di imporre insieme al controllo militare del territorio misure di riforma agraria finalizzate alla confisca delle grandi proprietà e alla distribuzione della terra ai contadini. Alla centralità del ruolo dell’Esercito popolare si accompagna una teoria e una pratica del rapporto tra partito e popolo che fa della cosiddetta “linea di massa”, ovvero di un giusto rapporto tra iniziativa dal basso e direzione politica dall’alto uno degli elementi fondamentali della rivoluzione cinese. Così alla critica e al superamento dell’opportunismo di destra di Chen Du Xiu che aveva condotto alla sconfitta del 1927 si accompagna una critica altrettanto radicale alla cosiddetta “linea Li li san” fondata sull’idea della necessità della conquista immediata del potere nei centri urbani ma nella sostanza ancorato ad una visione generalmente “putchista” della tattica rivoluzionaria. E’ in fondo l’idea leniniana e staliniana della rivoluzione come un processo scandito da due tappe nettamente distinte, quella democratico-borghese e quella socialista, a sorreggere l’impostazione maoista. Ciò che spiega come nonostante le divergenze interne al Partito Comunista Cinese e l’emergere di un orientamento più di “sinistra” in seguito al VI Congresso del Komintern del 1928, la linea di Mao non incontrerà resistenze insormontabili da parte dell’Internazionale Comunista. L’esperienza della Repubblica sovietica del Kiangsi rappresenterà così il punto più alto di questa fase della Rivoluzione cinese che si concluderà con la fine della Lunga Marcia dell’Esercito rosso verso il Nord della Cina, la ritirata strategica che ne avrebbe salvato il nucleo rivoluzionario, e l’inizio della guerra cino-giapponese. L’invasione da parte del Giappone segna l’inizio di un nuovo periodo anche nella direzione del partito comunista cinese finalmente conquistata da Mao, grazie alla piena convergenza della sua impostazione strategica con la linea dei Fronti popolari che trova la sua più compiuta definizione sul piano della teoria e della strategia con il VII Congresso del Komintern nell’estate del 1935. Direi che l’elaborazione del Komintern e soprattutto il grande rapporto di Dimitrov al VII Congresso sono imprescindibili per capire l’intera elaborazione di Mao intorno alla necessità della costruzione di ampio fronte unico antigiapponese che in modo geniale riprende e insieme supera l’esperienza fondamentale del fronte unico degli anni ’20. L’esistenza di un Esercito rosso profondamente radicato nelle masse popolari costituisce l’elemento nuovo sia negli equilibri tra le quattro classi (classe operai, contadini, piccola borghesia, borghesia nazionale) in cui Stalin aveva individuato come s’è visto già nel ‘26 la base sociale del fronte unico sia nei rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione interna ed esterna. Mao individua nell’imperialismo giapponese il nemico principale e pone di nuovo il problema dell’alleanza con il Kuomintang definendo nelle sue linee essenziali la prospettiva della costruzione di una nuova Cina democratica, di una “nuova democrazia”, ancora nettamente al di qua dell’obiettivo finale della costruzione del socialismo e del comunismo. Appare evidente la consonanza con la contemporanea elaborazione del Komintern intorno ai temi della “democrazia di nuovo tipo”, una formula politica che Togliatti pone al centro della sua riflessione sulle particolarità della rivoluzione spagnola nel 1936 così come con la riflessione teorica di Dimitrov di “democrazia popolare” come tappa intermedia del processo rivoluzionario destinato nel medio o lungo periodo a sfociare nel socialismo e nella dittatura del proletariato. Di nuovo è il tema dell’articolazione complessa e perfino contraddittoria tra costruzione del fronte unico e lotta di classe. Anche il tema della riforma agraria, che aveva sorretto l’esperienza della Repubblica del Kiangsi, viene rivisto. Dalla parola d’ordine ispirata al programma democratico rivoluzionario di Sun Yat Sen della “terra a chi la lavoro” si passa alla lotta per la riduzione dei canoni d’affitto e degli interessi sui prestiti, al fine di rafforzare l’alleanza con il Kuomintang nella guerra di resistenza al Giappone. Il nesso tra lotta di classe e fronte unico non è statico ma dinamico, muta con il mutare delle fasi e delle situazioni concrete, così come del rapporto tra contraddizione principale e contraddizioni secondarie. Lo scritto del 1937 Sulla contraddizione definisce in tal senso anche sul piano teorico e filosofico le basi della tattica del fronte unico nel periodo della guerra di resistenza al Giappone, costituendo nello stesso tempo un importante contributo all’approfondimento di alcuni temi cruciali del materialismo dialettico e del materialismo storico. Sul piano dell’elaborazione strategica la teoria della “nuova democrazia” compiutamente definita in un fondamentale lavoro di Mao del 1940 ridefinisce il rapporto dialettico tra la fase democratico-borghese e quella socialista della rivoluzione cinese sulla base delle differenze e delle coincidenze tra i Tre Principi popolari di Sun Yat Sen, ovvero nazionalismo, democrazia e benessere del popolo da un lato e dall’altro il comunismo. Mao non esita ad individuare in quei tre principi la base della convergenza tra il Partito Comunista e il Kuomintang nella fase democratico-borghese della rivoluzione. Ma nello stesso tempo evidenzia come al di là della coincidenza formale, nel programma di Sun Yat Sen non compaiano gli obiettivi del potere del popolo e di una completa rivoluzione agraria. Anche nel contesto della guerra di resistenza al Giappone, Mao rivendica, di nuovo richiamandosi con forza alla tesi di Stalin, già formulato dal dirigente bolscevico nel 1925 secondo cui “i contadini rappresentano l’esercito fondamentale del movimento nazionale”, che “la Guerra di resistenza contro il Giappone è essenzialmente una guerra contadina”. Ma è nell’alleanza con l’Urss che la politica del fronte unico e una applicazione concretamente rivoluzionaria e non formalistica dei Tre principi di Sun Yat Sen possono trovare una base effettiva, dato il carattere di nuovo tipo della rivoluzione democratico-borghese in Cina. In un quadro enormemente più avanzato che nel periodo del primo fronte unico, Mao rilanciava su nuove basi la politica staliniana del “blocco delle quattro classi” evidenziando come un nesso organico legasse nella rivoluzione cinese la sua appartenenza alle grandi correnti della storia mondiale alle esigenze profonde delle masse e della nazione cinesi. Del resto proprio questa caratterizzazione del carattere insieme nazionale e internazionale della rivoluzione cinese, del suo scaturire dalle correnti più profonde della nazione e del popolo cinesi e insieme della sua appartenenza al processo della rivoluzione mondiale innescato dall’Ottobre sovietico, Mao individuava nel grande saggio sulla contraddizione la più clamorosa conferma della dialettica materialistica, ovvero del nesso tra cause interne e cause esterne come motore del permanente sviluppo, del processo di continua trasformazione del mondo storico nell’epoca dell’imperialismo: “nell’epoca del capitalismo- egli scriveva- e in particolare nell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria lo stimolo e l’azione che i diversi paesi esercitano gli uni sugli altri in campo economico, politico e culturale sono veramente notevoli. La Rivoluzione socialista d’Ottobre ha dischiuso una nuova era non solo nella storia della Russia, ma nella storia di tutto il mondo essa ha influito sulle trasformazioni interne dei diversi paesi e in egual modo, ma con particolare intensità, sulle trasformazioni interne della Cina. Tuttavia, queste trasformazioni si sono verificate attraverso le leggi interne proprie di quei paesi e della Cina.” La rivoluzione cinese si poneva così consapevolmente, dopo la rivoluzione d’Ottobre come un momento grandioso non solo del risveglio e della rinascita della Cina e dell’intera Asia ma anche del più generale processo di unificazione economica, politica e culturale del genere umano in un mondo globale.

Nell’importante rapporto al VII Congresso del Partito Comunista Cinese tenutosi a Yenan del 24 aprile 1945 egli lancia la proposta di un governo di coalizione con il Kuomintang nella prospettiva della distruzione della dittatura monopartitica del Kuomintang e della costruzione di uno stato e di un potere politico di nuova democrazia, guidato dal proletariato ma diverso dal sistema russo e fondato sull’alleanza delle varie classi democratiche. Uno stato sorretto da una struttura economica non ancora di tipo socialista, che avrebbe assicurato il libero sviluppo dell’economia capitalistica privata ma nei limiti della sua utilità per il popolo. Il sistema economico della nuova Cina avrebbe dovuto comprendere un settore statale, un settore privato e un settore cooperativo. Ma la proposta di un governo di coalizione ha anche l’obiettivo di sconfiggere i piani dell’imperialismo americano finalizzati a spezzare l’unità del fronte antigiapponese al fine di isolare i comunisti in Cina e a sconfiggere la loro politica di pace e di unità nazionale. Nella celebre intervista rilasciata alla giornalista americana Anna Luise Strong dell’agosto 1946, Mao sottolineava come i piani dell’imperialismo americano al di là dei loro dichiarati propositi aggressivi e di guerra verso l’Unione Sovietica puntassero nello stesso tempo ad un dominio mondiale che colpiva sia gli altri paesi capitalisti sia i paesi coloniali e semicoloniali. “Non intendo dire – egli affermava – che i reazionari americani non abbiano l’intenzione di attaccare l’Unione Sovietica. L’Unione Sovietica difende la pace mondiale e rappresenta un fattore potente, che impedisce ai reazionari degli Stati Uniti di conquistare l’egemonia mondiale. L’esistenza dell’Unione Sovietica rende assolutamente impossibile ai reazionari degli Stati Uniti e di tutto il mondo la realizzazione delle loro ambizioni. Ma il fatto che i reazionari degli Stati Uniti vadano ora strombazzando con tanta insistenza una guerra americano-sovietica e tendano ad intorbidire l’atmosfera internazionale a così poco tempo dalla fine della seconda guerra mondiale, ci costringe a guardare alle loro intenzioni reali. Emerge così chiaramente che protetti dagli slogan antisovietici, stanno freneticamente attaccando in dipendenze degli Statu Uniti tutti i paesi che rappresentano il bersaglio dell’espansione americana.” E’ la stessa espansione americana, la dinamica globale del suo disegno egemonico ad ampliare ed estendere a scala mondiale il fronte unito internazionale. E’ di fatto una visione profondamente dialettica, organicamente legata ad una visione dinamica ma robustamente realistica e concreta, tutt’altro che avventuristica o astrattamente radicale, della rivoluzione mondiale ad ispirare, in questa fase l’elaborazione di Mao e dei comunisti cinesi.

Perciò, dopo la conclusione della la guerra di guerra di resistenza al Giappone, la fine della seconda guerra mondiale e la conseguente unificazione del campo imperialista attorno al ruolo egemonico globale degli Stati Uniti segna una nuova tappa anche nella storia della rivoluzione cinese. E’ l’imperialismo americano a scatenare attraverso il sostegno politico, militare, finanziario ai gruppi più reazionari del Kuomintang la guerra civile contro il partito comunista e l’Esercito rosso, nonostante i finti tentativi di mediazione pacifica del conflitto del generale Marshall. La vittoria dei comunisti nella guerra rivoluzionaria contro Chiang Kai-shek sarà quindi anche una grande vittoria contro l’imperialismo americano, nemico principale del fronte rivoluzionario mondiale, del campo socialista e antimperialista guidato dall’Unione Sovietica. Proprio celebrando il 30 giugno 1949 il 28 anniversario della nascita del Partito Comunista Cinese, Mao fissava il carattere duplice, nazionale e internazionale, della rivoluzione cinese, sottolineando come l’instaurazione della dittatura democratica popolare si era basata e avrebbe continuato a basarsi sul fronte unito nazionale diretto dalla classe operaia e su un fronte unito internazionale costituito dall’unione della Cina con “l’Unione Sovietica, con i paesi di democrazia popolare, con il proletariato e le larghe masse popolari di tutti gli altri paesi”. Il trionfo della rivoluzione cinese mostrava agli occhi di Mao come la stessa formazione di un campo socialista attorno alla funzione dirigente dell’Unione Sovietica dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale costituiva un momento fondamentale di un più generale processo di formazione di un fronte rivoluzionario mondiale che vedeva nelle lotte di liberazione nazionale di tutti i popoli oppressi le sue principali forze motrici. E’ sulla base di questa visione dinamica della stessa contrapposizione tra i blocchi, pure destinata a cristallizzarsi proprio nel corso della grandi vittorie dei comunisti cinese nell’ultima guerra civile, che Mao fissa il ruolo potenziale della Cina popolare nella più ampia e vasta dinamica del processo rivoluzionario mondiale, ma anche la necessità di un suo saldo le profondo legame con l’Unione Sovietica, le democrazie popolari e l’insieme delle forze rivoluzionarie internazionali: “Nell’epoca dell’imperialismo -afferma sempre commemorando il 28 anniversario del PCC- è impossibile che una vera rivoluzione popolare in qualsiasi paese possa ripotare la vittoria senza varie forme d’aiuto da parte delle forze rivoluzionarie internazionali, e anche se si ottiene la vittoria essa non può essere considerata. E’ stato così anche per la vittoria e il consolidamento della grande Rivoluzione d’Ottobre, come Lenin e Stalin ci hanno detto da molto tempo. E’ stato così anche pe la disfatta delle tre potenze imperialiste nella seconda guerra mondiale e per la creazione degli Stati di democrazia popolare. E sarà così anche per la Cina popolare.” La vittoria della Rivoluzione cinese allarga quindi, per Mao, il campo socialista e l’intero schieramento delle forze rivoluzionarie ma pone nello stesso tempi nuovi problemi relativi alla loro unità e compattezza, sul piano ideologico e politico come su quello dei rapporti internazionali tra stati e nazioni con sistemi sociali differenti, in termini non interamente riducibili a quelli della contrapposizione politico-militare tra i blocchi. In questo senso la nascita della Repubblica Popolare Cinese segna l’inizio di una nuova tappa nel processo della “rivoluzione mondiale” così come nella storia sempre più “globale” della seconda metà del XX secolo.