L’AQUILA E IL CORVO. Il bivio degli Ottanta e le due vie di Cunhal e Occhetto

di Carlo Formenti

da https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com

Questo articolo nasce da due suggestioni. La prima è frutto delle impressioni raccolte negli ultimi anni confrontandomi con i militanti delle diverse formazioni neo comuniste nate dalla dissoluzione del PCI, e con gli amici di Cumpanis che, fuorusciti da alcune di tali formazioni, sono impegnati nel difficile – per usare un eufemismo – tentativo di saldare gli spezzoni della diaspora  nell’atto fondativo di un nuovo Partito Comunista che meriti di essere definito tale. La seconda è più occasionale: mi è capitato di leggere, a distanza di pochi giorni, Il partito dalle pareti di vetro, un libro dell’ex segretario del Partito Comunista Portoghese, Alvaro Cunhal, uscito nel 1985, ripubblicato in Portogallo nel 2002 e in Italia (dalle Edizioni La Città del Sole) un paio d’anni fa, e Idee e proposte del nuovo corso del PCI, un libercolo in cui “l’Unità” aveva raccolto una serie di interviste e interventi di Achille Occhetto preparatori del 18° Congresso del Partito (marzo 1989), propedeutico alla svolta della Bolognina che si sarebbe celebrata pochi mesi dopo. 

Questa duplice lettura ha rafforzato le convinzioni che esprimo in un libro che ho appena consegnato all’Editore Meltemi (uscirà in due volumi nei primi mesi del 2023). In particolare, ha corroborato le mie tesi relative: 1) al fatto che il decennio degli Ottanta (non solo nel finale, che ha visto la caduta del sistema socialista dell’Europa Orientale) rappresenta il punto di non ritorno del processo di separazione fra comunismo occidentale e comunismo orientale, e coincide con il pressoché totale annientamento del primo, già avviato nei Settanta; 2) al fatto che, al culmine del loro progetto di autoliquidazione, i partiti comunisti (con poche eccezioni, fra le quali spicca quella del partito portoghese) non si sono socialdemocratizzati, bensì convertiti in partiti liberali allineati al consenso di Washington; 3) al fatto che le radici della svolta affondano in una mutazione culturale iniziata nel corso del trentennio dorato del compromesso postbellico fra capitale e lavoro; 4) al fatto che i compagni che guardano con nostalgia all’esperienza del PCI, illudendosi che si possa costruire un futuro a partire da quelle macerie, non hanno capito che il seme della sconfitta (ideologica prima che politica) era già saldamente piantato in quel glorioso passato. Per approfondire queste tesi rinvio alla lettura del libro che uscirà fra pochi mesi; in questo articolo ne estraggo alcuni spunti ragionando sulla distanza abissale che separa il volo dell’aquila Cunhal da quello del corvo  Occhetto.

Contrappunti

Parto dalle parole con cui Cunhal sintetizza l’essenza dell’operazione avviata dai partiti eurocomunisti negli anni che vanno dalla controrivoluzione liberale alla caduta del Muro: “Dicono di rifiutare il ruolo rivoluzionario e di avanguardia della classe operaia sostituendolo con il ruolo di avanguardia degli intellettuali e della piccola borghesia urbana. Dicono di rifiutare la concezione di alleanza della classe operaia con i contadini sostituendola con un’alleanza indefinita di forze sociali eterogenee. Dicono di rifiutare la teoria dello Stato e del Partito. Dicono di rifiutare la critica leninista alla democrazia borghese e al parlamentarismo borghese come forme politiche di oppressione economica e sociale e trovano valori che si sovrappongo agli obiettivi di emancipazione sociale. Dicono di rifiutare metodi rivoluzionari di accesso al potere della classe operaia”. Nelle pagine seguenti provo ad articolare questa incisiva descrizione mettendo in contrappunto le tesi di Cunhal e quelle di Occhetto, così come emergono dai testi sopra citati.  

a) A proposito della natura di classe del partito.

Per Cunhal “le profonde modifiche riscontrate nella composizione sociale della società e della classe operaia non mettono in discussione la natura di classe del partito”. L’evoluzione del modo di produzione capitalistico e gli sconvolgimenti provocati dai processi di finanziarizzazione dell’economia e dalle ristrutturazioni tecnologiche hanno trasformato radicalmente il mondo del lavoro e influito sui processi ideologici e culturali, ammette Cunhal, ma da ciò non consegue il cambiamento dell’obiettivo strategico dei comunisti, che resta quello della costituzione del proletariato in partito politico, un partito indipendente che ”non deve concepirsi come una coda di qualche partito borghese”. Tale obiettivo comporta, fra le altre conseguenze, che l’ossatura organizzativa debba fondarsi sulle cellule nei luoghi di produzione, e che la sua natura di classe debba tendenzialmente rispecchiarsi nella composizione sociale dei  membri  (più del 50% di quadri operai all’epoca in cui scriveva l’autore).   

Nello stesso periodo la preoccupazione fondamentale di Occhetto è viceversa quella della “conquista del centro”, obiettivo squisitamente elettoralistico che, tuttavia, implica inevitabilmente uno spostamento dell’attenzione verso gli interessi, i bisogni, i principi e i valori degli strati sociali che nel centro si riconoscono. Ciò comporta il rischio che sia il centro ad egemonizzare la sinistra piuttosto che avvenga il contrario? No ribatte il corvetto: “il centro conquista la sinistra solo se non si possiede la forza politico culturale che sappia dare risposte ad alcune delle verità interne al moderatismo”. Occhio al termine moderatismo: il grande pensiero marxista è da sempre attento ad alcune verità formulate dal grande pensiero di destra (da Heidegger a Weber passando per Schmitt, tanto per fare qualche esempio), ma trattasi di verità radicali, non delle ideuzze partorite dal moderatismo piccolo-medio borghese italiota che entusiasmava Occhetto, il quale, con la sua “svolta” anticipava la realtà dell’odierno PD, espressione esclusiva degli interessi delle élite neoborghesi dei centri metropolitani, mentre già allora volgeva le spalle a quelli dei proletari, incitando a “costruire una identità attuale partendo dalla considerazione che tutta una fase di lotta per l’emancipazione dei lavoratori è alle nostre spalle grazie alle nostre stesse battaglie, alle vittorie della sinistra”. Sublime ipocrisia che celebra vittorie passate, ai tempi già in larga misura dissipate dall’opportunismo sindacale, nonché in via di rapido smantellamento. 

b) A proposito della “inattualità” del leninismo

Sulla velleità di superare il leninismo il giudizio di Cunhal è lapidario: lo definisce “l’assurdo tentativo di separare il marxismo dal leninismo”, liquidando come ridicola la pretesa secondo cui la fedeltà al marxismo sarebbe compatibile con l’abbandono del leninismo. Ed è precisamente il rifiuto di imboccare la strada dell’abiura che gli consente di cogliere con lucidità l’obiettivo delle campagne condotte dai partiti borghesi e dai loro megafoni mediatici per accelerare la mutazione degli eurocomunisti da avversari in compagni di strada; ecco come descrive il tentativo di isolare il Partito Comunista Portoghese: “o mantiene i principi, gli obiettivi e l’orientamento attuale e, di conseguenza, è costretto all’isolamento, alla marginalizzazione, al ghetto e non può essere considerato un partito avente diritto alla partecipazione in termini di uguaglianza nella vita politica nazionale o, se vuole essere trattato in termini paritari, deve modificare principi e orientamenti deve diventare un partito moderno (aggettivo da mettere fra virgolette per sottolinearne la valenza ironica) occidentale”. 

Di tutt’altro tenore la strada imboccata da Occhetto per superare la conventio ad excludendum nei confronti del PCI. Facendosi forte dell’infelice battuta di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Riconduzione d’Ottobre (a proposito delle mal riposte nostalgie di certi compagni nei confronti del teorico del compromesso storico), e dell’azione liquidatrice di Gorbaciov nei confronti di quel glorioso evento storico, il corvetto respinge “la falsa alternativa secondo cui avremmo di fronte la scelta secca omologazione o identità comunista”, dopodiché ci ammannisce “una concezione del socialismo come massima realizzazione delle libertà individuali “ (sic) e, dopo avere riproposto la frusta contrapposizione fra Oriente e Occidente come endiadi uguaglianza versus libertà, ne annuncia il definitivo superamento retrodatando dal 1917 al 1789 l’eredità ideale del suo partito: “il PCI è figlio della Rivoluzione francese della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dell’affermazione della democrazia come valore universale (nessun punto di domanda su quale democrazia: è una sola, vale a dire quella borghese, senza se e senza ma)”. Appurato che quella è la sua stella polare, precisa che il compito è quello di realizzarne compiutamente il lascito ideale, non senza avere precisato che tale lascito va depurato della macchia del giacobinismo che “aveva in sé i semi del totalitarismo” (sgangherato omaggio alle tesi di Hannah Arendt, e alla sua celebrazione della Rivoluzione americana in quanto più democratica di quella francese). 

A questo punto, prima di proseguire nel ping pong fra l’aquila e il corvo, mi permetto di fare un inciso su comunismo e liberalismo, proponendo qui di seguito un sunto del paragrafo che ho dedicato al tema nel lavoro di prossima pubblicazione di cui sopra:   

Essere comunisti implica il rifiuto radicale di ogni forma di liberalismo: quello classico, il neoliberalismo, l’ideologia “liberal” delle sinistre angloamericane, l’ ideologia liberal progressista dei movimenti postcomunisti, le ideologie liberal socialiste e anarchiche, ecc. Questo perché tutte queste varianti condividono i principi e i valori dell’individualismo occidentale. Ricordo che per Marx i diritti dell’uomo riconosciuti dalle costituzioni borghesi sono diritti che sanciscono la separazione dell’individuo dalla sfera dello Stato, della società, della politica, offrendogli piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico. Una “libertà” che Marx liquida così: “Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”.

Ciononostante persino un pensatore marxista radicale come Domenico Losurdo ha sostenuto, nel suo ultimo lavoro, che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene. Dopo avere ricordato che Norberto Bobbio opponeva ai comunisti le ragioni della irrinunciabilità della libertà formale e delle sue garanzie giuridico istituzionali, Losurdo scrive che la cultura comunista ha reagito a questa sfida in due modi: da un lato, come Galvano Dalla Volpe, contrapponendo alla libertas minor (la libertà negativa, olibertà da, tipica del diritto borghese e ritagliata sul diritto dell’individuo proprietario) la libertas maior  (la libertà positiva, o libertà di, ritagliata sui diritti collettivi della comunità dei produttori). Dall’altro con i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo, concetti che, secondo Losurdo, dimostrerebbe che i comunisti, piuttosto che negare o svalutare le conquiste di cui erano stati protagonisti liberali e democratici ,“si proponevano di universalizzarle (mettendo fine alla clausole di esclusione) e di far valere tali conquiste anche nella materialità dei rapporti economici e sociali tenendo conto di volta in volta della concreta situazione storico-politica”.

Contrariamente a Losurdo, ritengo che il punto di vista di Galvano Dalla Volpe (che coincide con quello di Marx, il quale sosteneva che mettere al centro la libertà individuale significa non riuscire a guardare al di là di una società di imprenditori privati) sia quello giusto, laddove i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo contenevano un tasso di ambiguità che, se non ha causato, certamente non ha impedito la trasformazione del  PCI in partito liberale. L’equivoco di fondo consiste nell’idea che la rivoluzione socialista rappresenti l’attuazione dei principi e dei valori della rivoluzione democratico borghese, rimasti inattuati a causa del dispositivo di limitazione che li confina all’ambito della tutela dei diritti di proprietà e delle libertà negative. Ciò è tre volte sbagliato: 1) perché la storia non è una successione di fasi governate da ferree “leggi” evolutive; 2) perché rivoluzione borghese e rivoluzione socialista sono fenomeni strutturalmente diversi, in quanto la borghesia conquista il potere politico dopo avere già conquistato quello sulla società e sull’economia, viceversa il proletariato è privo di ogni potere, tanto economico che politico, per cui può vincere solo distruggendo le forme di potere esistenti; 3) perché l’argomento secondo cui la rivoluzione consisterebbe nell’estendere i principi liberali dall’ambito economico all’intero ambito delle relazioni sociali, ignora che la libertà liberale non è limitataall’ambito economico: essa coincide totalmente, per forma e struttura, con tale ambito, per cui chi la assume come principio regolativo agisce, consapevolmente o meno, a favore della conservazione del potere borghese. 

c) Statalismo e antistatalismo

“Il programma di un partito non si deve considerare come un programma di governo, relativo a un breve periodo della sua amministrazione, ma come la definizione degli obiettivi e delle misure necessarie in un tappa determinata dello sviluppo sociale e politico”. Così scrive Cunhal che, in questo modo, contribuisce indirettamente al dibattito su riforme e rivoluzione che si sviluppò nella socialdemocrazia tedesca fra fine Ottocento e primo Novecento (con la partecipazione di pezzi da Novanta come Engels e Luxemburg); dibattito che si è recentemente riproposto in America Latina, dopo il successo delle rivoluzioni Venezuelana e Boliviana, chiarendo che la vera contrapposizione non è fra riforme e rivoluzione, bensì fra riforme fine a sé stesse e riforme finalizzate al superamento del capitalismo. Del resto nemmeno la via riformista al socialismo, ove assunta in una prospettiva di cambiamento sistemico radicale, mette in discussione il ruolo strategico dello Stato nel processo di transizione. E infatti Cunhal, riferendosi alla prima fase della Rivoluzione dei Garofani, scrive che “la nazionalizzazione delle banche e dei settori di base dell’economia sorsero in maniera naturale e quasi inevitabile nel processo di formazione del nuovo regime democratico”.

Viceversa Occhetto, dopo avere assicurato che il suo PCI ha messo da tempo in discussione “lo statalismo tradizionale del movimento operaio”, così come ha “completamente abbandonato ogni visione negativa dell’impresa”, imputa alla DC di essere rimasta ancorata a quello statalismo “di vecchio tipo”, necessariamente (!!??) associato a clientelismo e spreco del denaro pubblico. Dopodiché candida il proprio Partito, che di lì a poco giustamente non si chiamerà più comunista, a realizzare una “nuova” concezione dello Stato che sembra copiata di peso dalle tesi del guru dell’ordoliberalismo von Hayek: “abbiamo bisogno di uno Stato che garantisca di più i diritti sociali e gestisca di meno (una parafrasi del concetto neoliberista di “economia sociale di mercato”) . Che indichi a tutti i soggetti i criteri dell’interesse generale ai quali devono attenersi”; e ancora: “il Paese ha bisogno di uno Stato che gestisca meno e che invece sia più in grado di fornire progetti e definire regole per una pluralità di soggetti pubblici e privati.” E’  un sunto del paradigma ordoliberale che supera la concezione tradizionale del laissez faire, rimpiazzandola con quella di uno Stato forte, non nel senso dell’intervento diretto nell’economia, bensì in quanto garante delle regole del corretto funzionamento del mercato (regole che, come abbiamo imparato sulla nostra pelle, contemplano il contenimento dei salari e della spesa sociale)

d) Internazionalismo proletario versus cosmopolitismo borghese

Da un lato, Cunhal ha costantemente dedicato ampio spazio alle questioni dell’imperialismo e della lotta antimperialista, così come ha ribadito in più occasioni che patriottismo e internazionalismo sono tratti essenziali della politica e dell’attività del Partito Comunista Portoghese, nella misura in cui “la fase imperialista dello sviluppo del capitalismo determina un crescente abbandono  degli interessi nazionali da parte della borghesia”. In altre parole, secondo Cunhal, l’attenzione alla dimensione nazionale della lotta di classe non solo non è un tratto conservatore (o addirittura reazionario nell’ottica di certe sinistre “radicali”) ma è un fattore essenziale della battaglia per il socialismo nell’era dell’internazionalizzazione dei capitali. 

Dall’altro lato Occhetto, quando non si spinge a delirare su un fantasmatico “governo mondiale”, presenta il processo di unificazione europea (che fino ai Settanta il PCI aveva giustamente indicato come un fattore di indebolimento dei rapporti di forza dei proletari dei vari Paesi europei attraverso la loro messa in competizione reciproca) come una gloriosa marcia verso gli Stati Uniti d’Europa (obiettivo che tanto Marx quanto Lenin avevano esorcizzato come una Santa Alleanza del capitalismo internazionale contro i proletari di tutti i Paesi). Per il corvetto “L’Europa non va vista come un elemento aggiuntivo, ma come il prisma attraverso il quale vedere i problemi sociali, i problemi dello sviluppo e delle politiche industriali, i problemi  istituzionali”. Un prisma che trent’anni dopo si è rivelato l’irriformabile gabbia d’acciaio, priva di qualsiasi legittimità democratica, che soffoca ogni velleità di emancipazione delle classi subalterne del Vecchio Continente.   

A mo’ di appendice

Per concludere ripropongo tre temi trattati da Cunhal nel libro sopra citato che mi paiono di stretta attualità. In primo luogo, chi accusa lui e il suo partito di passatismo e dogmatismo dovrebbe leggere passaggi come quello in cui scrive che “la memoria non può significare la pretesa di ripetere l’esperienza passata come norma di in una nuova situazione concreta” o quest’altro in cui, contro il vizio del citazionismo, aggiunge che “un marxista leninista non può mai opporre i testi alla realtà”, e che “se si combatte il culto dei vivi è anche necessario combattere il culto dei morti”. La sua visione, che oggi il partito Comunista Portoghese continua meritevolmente a fare propria, non è dunque ispirata a una ottusa fedeltà ai “testi sacri” del marxismo, bensì alla necessità di coglierne lo spirito e il metodo per calarli nella concreta realtà storica.

Secondariamente, mi preme sottolineare come questa attenzione all’analisi concreta della situazione concreta gli consentisse di cogliere l’insegnamento di certi processi rivoluzionari che sfuggono ai “canoni” di una malintesa ortodossia marxista (si pensi alla Rivoluzione Cinese e alle rivoluzioni latinoamericane), come si evince dal seguente passaggio: “estendendosi a paesi e società con le più varie strutture economiche  e sociali, il processo rivoluzionario mondiale avviene inevitabilmente in maniera irregolare e diversificata. In forme molto variegate di azione, attraverso vie di sviluppo differenziate, insperate e impreviste…non ci sono né ‘modelli’ di rivoluzione ne ‘modelli’ di socialismo”. E ancora: “Non si può considerare sbagliata una rivoluzione che trionfa”, un detto che andrebbe mandato a memoria da tutti i sedicenti marxisti che sostengono che le rivoluzioni avvenute in Paesi dove le “condizioni oggettive” (sviluppo delle forze produttive, prevalenza delle masse contadine sulle masse operaie, ecc.) non erano “mature”, non possono essere considerate socialiste. Per inciso, il rifiuto di formulare modelli di socialismo non può essere usato per giustificare la via liberal liberista imboccata da Occhetto e successori, dal momento che costoro hanno esplicitamente abbandonato l’obiettivo strategico della costruzione di una società socialista.   

In terzo luogo, Cunhal ha dato un contributo importante alla chiarificazione del concetto di centralismo democratico. In particolare ha fustigato il culto della personalità, denunciandone ripetutamente le conseguenze dannose per la vita del partito: “le cose vanno male, scrive, quando il nome del più responsabile non può essere pronunciato senza che un applauso lo accolga”. Dopodiché aggiunge che l’adulazione come costume sistematico può prosperare “solo quando incontra terreno propizio, quando è redditizia, quando in maniera diretta o indiretta viene premiata”; e quando ciò avviene genera conseguente disastrose, a partire dalla formazione di una direzione “i cui membri hanno come principale credenziale quella di essere ‘fedeli’ (a un certo) dirigente” e dalla formazione “di un intero apparato (di)  ‘devoti’ non  tanto al partito ma al dirigente in questione”. Rifiutare il culto della personalità non significa adottare una visione egualitaria dei membri del partito, negando il fatto che non tutti i quadri “pesano” ugualmente negli equilibri dell’organizzazione, perché non tutti sono in grado di dare lo stesso contributo al suo sviluppo, significa piuttosto comprendere che l’autorità nel partito dev’essere legittimata dall’atteggiamento di coloro che la riconoscono, sempre sottoposta a verifica e mai accordata a priori. A proposito delle piccole ambizioni dei leader dei micropartiti che ostacolano la ricostruzione di un Partito Comunista nel nostro Paese.

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