La fine del PCI e la distruzione della ragione

di Roberto Gabriele

Dopo la liquidazione del PCI nel pensiero politico comunista si è verificato una sorta di big bang che ha inciso profondamente nelle formulazioni di ipotesi su come ricominciare un percorso rivoluzionario nelle mutate condizioni storiche. Il risultato è stato un dibattito incapace di determinare ipotesi alternative, che ha prodotto invece una sorta di pratica politica contestativa dell’esistente, senza però che la strategia del partito comunista entrata in crisi fosse sostituita da un nuovo asse di riferimento. E’ subentrata una sorta di distruzione di quella ragione politica e storica che aveva accompagnato lo sviluppo del PCI dal congresso di Lione fino alle elaborazioni togliattiane ed era rimasta saldamente in campo fino all’inizio della controrivoluzione in URSS del 1956 – una ragione che aveva dimostrato la sua validità e ricevuto la sua conferma dalla storia.

Se guardiamo alla sostanza dobbiamo dire che in seguito, a partire soprattutto dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, la spinta al superamento del revisionismo del PCI da parte delle correnti che si consideravano rivoluzionarie ha impedito in realtà di vedere l’assenza di un’analisi alternativa su cui ricostruire un percorso concreto di trasformazione sociale, non basato sulla quotidianità ma su un’ipotesi generale di sviluppo delle contraddizioni della società italiana con cui il nuovo partito avrebbe dovuto cimentarsi. Ipotesi alternative sono state sì messe in campo, ma per la loro inconsistenza hanno avuto vita breve non solo ma, come è facile constatare, non hanno mai prodotto una riflessione vera sui loro fallimenti, neppure sulla scelta della lotta armata. Andare a fondo delle questioni avrebbe comportato un giudizio anche sulla trasformazione intervenuta dopo i grandi fallimenti post-sessantotteschi nel tessuto politico che oggi si definisce alternativo e conflittuale.

Certo, a una mutazione genetica come quella determinatasi nel PCI e alle circostanze internazionali che l’hanno prodotta non si poteva ovviare in tempi brevi. Bisognava che il fumo degli avvenimenti degli anni ’90 del secolo scorso si diradasse per rendere possibile una rilettura della nuova fase, da cui ridefinire anche il nuovo percorso strategico. Nel frattempo però hanno continuato a svilupparsi teorie e posizioni politiche che ancora oggi costituiscono il substrato della cultura che si definisce ‘alternativa’. Con questo tipo di cultura bisogna fare i conti oggi, se vogliamo tornare a ragionare sul futuro. Per uscire dallo stallo è necessario un cambio di paradigma. In sostanza dobbiamo dare risposta all’interrogativo su come oggi si debba sviluppare l’azione politica dei comunisti rispetto a un processo di trasformazione sociale, con una strategia di lungo periodo che recuperi quella visione di carattere storico che il crollo del PCI aveva messo in crisi.

Nella politica del partito comunista ‘cambiare l’Italia’ significava proporre un tipo di società che partiva dal modello costituzionale dove confluivano le istanze di pace, di un sistema economico basato sulle riforme di struttura, di difesa dei diritti sociali e democratici, per arrivare a una ‘democrazia progressiva’. Su quel livello si è attestata la lotta politica e sociale fino alla trasformazione genetica del PCI.

Le vicende degli anni ’70 hanno distrutto, per scelta del PCI, quella prospettiva e la disgregazione del partito ha aperto la via al consolidamento del sistema liberista e atlantista.

La domanda a questo punto è: da quale modello strategico bisogna ripartire per riprendere la marcia? C’è bisogno o no di un cambiamento di paradigma rispetto a come sono andate le cose negli ultimi decenni e qual è il paradigma che ci suggerisce la realtà odierna?

La domanda finora è rimasta inevasa. Quelli che una risposta hanno cercato di darla a suo tempo, dalla scelta della lotta armata, all’anarcosindacalismo dell’autonomia operaia, ai teorici del ‘prima il partito poi la rivoluzione’, sono scomparsi dalla scena senza alcuna autocritica, il che ci conferma nel giudizio negativo sul ruolo esercitato dai ‘cattivi maestri’ nel deviare la discussione e portarla sul terreno di ipotesi rivoluzionarie fasulle. Quanto dei residui di questa cultura rimane oggi nelle esperienze dei gruppi che si definiscono alternativi? E se infine si condivide il giudizio sulla necessità di cambiare rotta, come si può configurare oggi un processo di cambiamento, con quali forze reali e attraverso quali passaggi? Il recupero della ragione politica parte dalla risposta a questi interrogativi.

Non definire i termini delle questioni significa non avere un punto di riferimento per costruire una strategia. É inutile infatti continuare a parlare di lotta di classe, di conflittualità sociale, di alternativa se non si mette in chiaro come possa partire un disegno che sia in grado di agganciare la realtà e portarla a un livello di dignità strategica. Domandiamoci soprattutto se la ginnastica ‘rivoluzionaria’ di questi decenni ha portato a un risultato o si continua a macinare retorica mentre il mondo cambia e la Meloni diventa capo del governo.

La risposta è contestuale a quella necessità di ricostruzione della ragione politica che è all’ordine del giorno da tempo, anche se la discussione non è ancora iniziata. Per cominciare dobbiamo uscire da un pensiero minoritario che bene o male ancora ci si illude possa essere un punto di partenza di qualcosa di diverso, un pensiero e una logica che non riguarda solo le esperienze organizzate, ma anche quelli che pensano di salvarsi l’anima evitando di contaminarsi e costruendo nicchie culturali che non producono alternative.

C’è un modo grossolano di usare il Marx delle tesi su Feuerbach, laddove afferma che fino ad oggi i filosofi hanno interpretato il mondo ma ora bisogna cambiarlo, che viene tradotto in un “mettiamoci al lavoro”. Non è in questo senso che va interpretata l’affermazione di Marx perchè ‘cambiare il mondo’ implica che si capisca come si possa farlo. Ma la scienza del cambiamento ha una sua specificità. I principî non bastano. Bisogna, come dicono i cinesi, basare le ipotesi sui fatti e sui risultati.

Il bandolo della matassa dei problemi posti ai comunisti dopo gli anni ’90 del secolo scorso non poteva emergere subito, non solo relativamente al quadro internazionale, ma anche per quanto riguarda in particolare l’Italia, dove lo sconquasso politico e nei rapporti di forza tra gli schieramenti è stato enorme a partire dagli anni ’70. Ridefinire una strategia non era cosa a portata di mano, ma senza strategia si è vissuti e si continua a vivere alla giornata, senza intaccare il corso degli avvenimenti. Di qui la necessità che non si continui ad andare in una direzione sostanzialmente sterile.

Ma qual è la direzione giusta? I dati oggettivi ci dicono che le forze di destra avanzano, che circa la metà del popolo italiano si è ritirata sull’Aventino dell’astensionismo e che l’Italia è la coda dell’Europa quanto a lotte dei lavoratori. Questo non ci porta a dire che la partita è persa, ma ci induce a riflettere su come uscire dallo stallo, senza prescindere da questi dato di fatto e prendendoci anche la nostra parte di responsabilità. Smettiamo di recitare la parte delle anime belle e delle vittime.

Nel 1964 Palmiro Togliatti, alla vigilia della morte, scrisse un importante articolo su Rinascita intitolato ‘Capitalismo e riforme di struttura’. In quell’articolo Togliatti diceva che fino ad allora il partito comunista, nonostante la Costituzione varata nel 1948, non era riuscito a modificare i rapporti di forza. Questo veniva detto dal segretario di un partito che esprimeva una grande forza politica nel paese. Poteva sembrare una dichiarazione di fallimento ma, se proseguiamo nella lettura, troviamo un altro giudizio che chiarisce il concetto. Togliatti aggiunge infatti che, se fino ad allora la struttura del sistema non era stata intaccata, si era però mantenuta aperta la prospettiva con una guerra di posizione che aveva condizionato le mosse dell’avversario, all’epoca rappresentato dal blocco conservatore che faceva capo alla DC, e questo risultato apriva la porta a ulteriori passaggi. Ma poco dopo Togliatti morì e con lui si interruppe definitivamente una fase storica e si imboccò quel tunnel che portò allo scioglimento del PCI.

Nonostante ciò, l’eredità di quella esperienza ancora sopravvive nella cultura della società italiana e, seppure mal rappresentata da ridicole riproposizioni di partiti e nicchie che giocano a utilizzare rendite di posizione, rappresenta la base per una via d’uscita dal minoritarismo.

Le due grandi questioni che si pongono all’ordine del giorno oggi e che possono avere un senso strategico per il futuro sono rappresentate dalla capacità da un lato di sbarrare la strada alla destra, mantenendo aperta la strada indicata dalla Costituzione, dall’altro di rimediare al disastro prodotto da PD e CGIL per impedire ai lavoratori di difendersi e partecipare alla battaglia contro la destra e il liberismo. Su queste due grandi indicazioni va intrapresa la ricostruzione di una visione storica, spazzando via nicchie e cocci ideologici che facilitano l’esistenza del governo Meloni e consentono alla Schlein di presentarsi in combutta con Landini come la svolta del giorno.

L’alternativa è possibile, ma bisogna lavorarci con nuovi paradigmi.

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