IN RISPOSTA AD UNA LETTERA APERTA

di Bruno Steri

Seguo con una certa continuità quello che pubblicano i compagni e le compagne di marx21. In particolare, sulla prima pagina del loro sito, mi è stato segnalato (con richiesta di risposta) un impegnativo contributo di Fausto Sorini: una lettera aperta, come l’ha definita lo stesso autore, il cui titolo esemplifica bene l’argomento: Sulla condizione dei comunisti in Italia. Che fare? Note per una discussione aperta. Certamente, per chi nel nostro Paese è comunista non è purtroppo difficile riconoscere la condizione di marginalità politica in cui oggi si trova ad operare, “la palude in cui siamo immersi, tutti”: una palude -annota Sorini – che rischia di vanificare il sacrificio di tanti militanti, impegnati in “gruppi, associazioni, reti, istanze partitiche comuniste, che a tale militanza sacrificano tanta parte della loro vita”. Di qui la proposta, rivolta “a tutte le compagne e i compagni italiani”, di un Forum di discussione tra comunisti, tra quanti ritengano “del tutto insoddisfacente la situazione attuale” e conseguentemente vedano l’urgenza di indagare a fondo le sue cause e le prospettive per un eventuale ripresa. Beninteso, l’autore si affretta ad escludere, nominandola esplicitamente, qualunque pretesa di creare con questa sua iniziativa “nuovi cenacoli”, qualunque scorciatoia organizzativa di breve periodo. Dovrebbe trattarsi al contrario di un percorso da impostare – egli dice – “come processo storico-politico di lunga durata”.

Raccogliamo la sollecitazione e seguiamo il ragionamento proposto. Prima di arrivare al cuore di tale ragionamento, quello sul “che fare”, è bene procedere ad una verifica dei suoi “fondamentali” politici, caratterizzati dalla critica nei confronti dell’involuzione che ha condotto dal Pci all’attuale Pd, con la connessa “mutazione genetica”. Qui Sorini riprende quanto aveva più ampiamente sostenuto qualche anno fa nel libro scritto con Salvatore Tinè Alle origini della Bolognina e della ‘mutazione genetica del Pci’ . Giustamente egli ritiene che la suddetta involuzione non sia spiegabile unicamente con la crisi del socialismo reale in Europa e i riflessi politico-ideologici prodotti dalla persistente stagnazione dell’Urss e poi dal suo crollo. Contrariamente a quanto avvenuto in altri partiti comunisti, un insieme di concause ha agito sulla profonda mutazione subita dal Pci: ad esempio – sottolinea l’autore – l’emarginazione di Pietro Secchia e, successivamente, la promozione di giovani dirigenti provenienti dalla piccola e media borghesia; dopo la morte di Berlinguer, l’accelerazione del cambiamento della composizione di classe del partito a tutto danno della presenza operaia; la conseguente deideologizzazione e la crescente integrazione nella socialdemocrazia europea; la minore influenza delle cellule nei luoghi di lavoro e la preponderanza della dimensione propagandistico-elettorale. Ciò è del tutto condivisibile.

Scriviamo queste note avendo sotto gli occhi le prime pagine dei quotidiani che commentano la scomparsa di Giorgio Napolitano. Nel merito, un titolo così sintetizza: “Alleanza atlantica e Europa: le sue stelle polari. Oltre i vecchi confini”. Mettendo tra parentesi una dialettica interna che pure nel Pci esisteva, potremmo comunque estendere il suddetto titolo alla parabola di quel partito in quanto tale. Oggi, la fedeltà atlantica del Pd non arretra neanche davanti all’insorgere di un conflitto bellico nel cuore dell’Europa: e i presunti propositi di correzione a sinistra che qualcuno ha ritenuto di vedere nella nuova segreteria della Schlein si guardano bene dall’includere una critica alla scelta dell’invio di armi in Ucraina da parte del nostro Paese, scelta compiuta in ossequio ai desiderata degli Usa e in flagrante violazione del nostro dettato costituzionale.

Quanto all’Unione Europea, la lettera aperta le dedica un intero allegato in cui si riprendono le considerazioni contenute nei due volumi di Carlo Formenti “Guerra e rivoluzione” e nella relativa postfazione di Vladimiro Giacché. Sull’argomento i giudizi di Formenti non potrebbero essere più netti: l’Ue nasce avendo come fondamento le teorie di Friedrich von Hayek, tese a favorire l’economia di mercato e la concorrenza tra soggetti privati, con limitazione o azzeramento delle “intromissioni” pubbliche. Ciò avviene imponendo appunto dall’esterno la disciplina sociale e ridimensionando di fatto la sovranità popolare. Colpisce la tempistica di tale processo involutivo, giustamente ricordata. L’Atto Unico Europeo, con cui si formalizza il mercato unico, è del 1986; il Trattato di Maastricht che vara la moneta unica del 1992. Ebbene, tra il 1985 e il 2009 l’Italia privatizza beni pubblici per 160 miliardi di euro (il 18% del Pil italiano del 1994): viene sottratta alla proprietà pubblica la quasi totalità del sistema bancario e dell’industria, a cominciare dalle imprese facenti capo all’Iri. Commenta Giacché: con ciò “è venuto meno il nesso, ben chiaro ai costituenti, tra proprietà pubblica ed esigibilità dei diritti costituzionalmente riconosciuti e quello, non meno importante, tra proprietà pubblica ed economia”. L’obiettivo della ricostruzione di un’ economia mista resta oggi un elemento importante nel perseguimento di una “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che recuperi al suo interno l’obiettivo dell’uguaglianza.

Sulle questioni politiche sin qui trattate c’è da parte nostra pieno accordo con la lettera aperta. E del resto il nuovo Pci, alla cui costituzione lo stesso Sorini non a caso aveva preso parte, è nato in completa alternativa al Partito democratico, facendo della critica all’atlantismo filo-Usa e a questa Europa un caposaldo della sua cultura politica e riservando contestualmente un’attenzione particolare alla Cina e all’esperienza del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Ma sul “che fare” la critica (autocritica?) di Sorini ai “cattivi maestri postsessantottini e neobordighisti (il partito a prescindere)” è impietosa. Possiamo compendiarla nei seguenti punti: 1) Nei 35 anni che vanno dalla Bolognina ad oggi, non sono state indagate “le ragioni di fondo che hanno segnato l’insuccesso delle esperienze comuniste seguite allo scioglimento del Pci”: fallimenti che, secondo la lettera aperta, hanno innanzitutto a che vedere con i limiti di “un comunismo di tipo massimalista e parolaio”: un illusorio “romanticismo autoreferenziale” che ha impedito di comprendere che non basta “uno stendardo con la falce e il martello per riprendere il percorso glorioso del Partito comunista italiano”, che è “inutile parlare di lotta di classe se non c’è un concreto disegno che agganci la realtà” e sappia rivolgersi a milioni di persone: “di qua il partito dei principi e dall’altra parte (…) la situazione reale”, in questa dicotomia sta il limite di fondo. 2) In definitiva, “i rivoluzionari hanno continuato ad abbaiare alla luna, senza spiegarci (e soprattutto dimostrare) come un processo rivoluzionario potesse avanzare in Italia”; “in alternativa alla deriva rivoluzionaria”, quasi l’altra faccia di una moneta fasulla, “si è andato diffondendo nella sinistra un pensiero debole a sfondo prevalentemente elettoralistico”. 3) Così “a partire soprattutto dalla fine degli anni 60 del secolo scorso, la spinta al superamento del revisionismo del Pci (…) ha impedito in realtà di vedere l’assenza di un’analisi alternativa su cui ricostruire un percorso concreto di trasformazione sociale”. Si è criticato la togliattiana ‘via italiana al socialismo’ e il ‘compromesso storico’ berlingueriano, ma poi non c’è stata una chiara risposta alla domanda: “da quale modello strategico bisogna ripartire per riprendere la marcia?” 4) Per rispondere proficuamente alla suddetta domanda – prosegue la lettera aperta – ci sarebbe stato bisogno ed invece è mancata un’elaborazione politica legata alla nuova fase storica. “Quelli che noi definiamo livornisti, cioè quei gruppi che usano dar vita alle rievocazioni del gennaio 1921 per riproporre improbabili partiti comunisti, gli identitaristi, dimenticano il fatto che la fondazione dei partiti comunisti è avvenuta in un’epoca storica precisa, quella della guerra imperialista e dell’apertura di un processo rivoluzionario che ha avuto il suo epicentro nella Russia zarista”. Non per nulla, “l’esperienza storica (…) ci insegna molte cose: in primo luogo, che per avere l’effetto su larga scala di un movimento rivoluzionario come quello del 1917 bisogna che le condizioni oggettive abbiano uno spessore profondo, come quello determinato dal conflitto mondiale e dal crollo dell’impero zarista”. E, conclude Sorini, “nella fase storica attuale, ancora non è maturata una condizione che riapra un fronte rivoluzionario di ampie proporzioni”. 5) Da quanto detto si evince che la domanda ‘rivoluzione o riforme?’ avrebbe dovuto esser posta esplicitamente; e che, nell’attuale contesto storico, occorra realisticamente optare per le riforme. Occorre dunque, secondo Sorini, costruire un “programma minimo condiviso (pace, democrazia, stato sociale, antiliberismo)”: non un programma bolscevico “oggi certamente inattuale”, ma un programma non settario, “che si ispiri alle componenti programmatiche più avanzate della Costituzione”. Un programma minimo ma tutt’altro che minimalista: che punti per un verso alla “ri-costruzione di un’economia mista, con poteri di indirizzo dello Stato sull’economia” e, per altro verso, recuperi “all’interno del discorso sulla democrazia l’obiettivo dell’eguaglianza riproponendo il concetto di democrazia sociale”. 6) E siamo ad uno dei nodi cruciali di questa lettera aperta, punto saliente per una risposta alla domanda sul ‘che fare?’ : in questi anni – dice la lettera aperta – sarebbe stato necessario approfondire e discutere tutte le questioni teoriche e strategiche fin qui menzionate (ad esempio all’interno di un Forum dei comunisti italiani), invece che “ricostituire qui e subito improbabili partiti comunisti”. Ciò vale anche per l’oggi: l’individuazione di un percorso che favorisca un’aggregazione non eclettica e di corto respiro non può produrre la “moltiplicazione di partitini autoreferenziali e ininfluenti”. Tale percorso “a mio parere non può essere a breve un processo di costituente partitica (non ne vedo oggi le condizioni)”. Dovrebbe invece prendere piede un lavoro collettivo organizzato che valorizzi l’approfondimento dei punti teorico-strategici discriminanti: una battaglia culturale che utilizzi la rete, le riviste disponibili, condotta da “compagni con diversa collocazione partitica o senza partito né affiliazione politica determinata – ma con una forte affinità politica, ideologica, di collocazione internazionale”. Un lavoro di lunga lena che possa arrivare a dar luogo alla costruzione di un Fronte, composto anche da non comunisti, sul modello del Frente amplio in Uruguay e, in Brasile, del Fronte progressista tra il Pc do B e il Pt di Lula, i quali sono giunti a vincere e a governare. Come testimonia il fallimentare “bilancio della Rifondazione comunista e di tentativi analoghi”, il costituirsi in partiti ha avuto invece il solo scopo di “godere, usando i simboli comunisti, di una rendita di posizione dimostratasi peraltro inesistente”.

Ho ritenuto opportuno riportare con una certa ampiezza le considerazioni che Fausto Sorini ha dedicato alla dirimente domanda sul ‘che fare?’ e le sue osservazioni critiche su quanto avvenuto nei trascorsi decenni, così da poter poi esprimere un mio sintetico giudizio ed anche qualche riserva. Beninteso, penso che le suddette osservazioni critiche abbiano un loro fondamento; ma penso anche che esse evidenzino un solo lato in una vicenda che è multilaterale e più complessa. Lo stesso autore della lettera aperta sarebbe ad esempio senz’altro d’accordo nel rilevare l’importanza epocale (nel senso che segna un’intera epoca) del ’68 studentesco: una generazione di giovani sottratta al qualunquismo e proiettata sulla scena della politica; un’effervescenza sociale, peraltro preparata nei comitati territoriali e nelle stesse sezioni del Pci, che ha poi rotto gli argini tradizionali scavalcando un partito che aveva cominciato già a palesare i primi segni di rilassamento ideologico e arrivando a contagiare il mondo del lavoro, il quale solo un anno dopo si sarebbe reso protagonista di quello che a giusto titolo è passato alla storia come il ‘1969 operaio’. Tutto ciò va evidenziato, al netto dei limiti, persino delle flagranti ingenuità politiche, di cui qui potremmo fare facilmente l’elenco.

Il biennio ‘68/’69, nel bene e nel male, ha influenzato profondamente i vent’anni successivi, fino allo sciagurato scioglimento del Pci, avvenuto a febbraio del 1991. Non c’è dubbio che la stessa opposizione tra rivoluzione e riforme, più che costituire la proposta di un nuovo modello strategico (appunto rivoluzionario) capace di costruire solidi legami tra i comunisti e la società, in particolare con i soggetti sociali di riferimento, è servito soprattutto a marcare la distanza da un partito, quello comunista, che era visto sempre di più come facente parte ‘del sistema’. Di qui la veemenza delle frasi scarlatte e delle simbologie, in assenza tuttavia di un approccio più concreto e dell’indicazione di precisi, praticabili ‘obiettivi intermedi’. E’ la fase della formazione di ‘gruppi’ (da Lotta continua ad Avanguardia operaia ed altri) che hanno operato nel successivo ventennio senza tuttavia riuscire a costruire un solido fronte di classe per il proletariato italiano. Ma vorrei anche dire che non penso si trattasse di limiti evitabili. Come ho detto, il 1968 e lo stesso 1969 hanno costituito, per lo meno qui in Italia, la reazione alla progressiva mutazione del Pci: reazione che in quanto tale è stata spontanea (diciamo pure, ‘spontaneista’) e non si è potuta avvalere della direzione di un gruppo dirigente storicamente rodato. La rivoluzione non era matura; e neanche le riforme.

Nel ’91, dopo il definitivo scioglimento del Pci, è nata Rifondazione Comunista. Qui non c’è bisogno di essere “identitaristi” per comprendere che quel frangente storico spingeva alla nascita di un partito che raccogliesse l’eredità dispersa del Pci. Non concordo con l’affermazione che tale nascita sia stata fatta per “godere, usando i simboli comunisti, di una rendita di posizione”. Basta ricordare le conseguenze prodotte da quello scioglimento: centinaia di migliaia di italiane e di italiani rimasti da un giorno all’altro privi del riferimento politico che per decenni aveva orientato i loro pensieri e i loro ideali. La nascita di Rifondazione non è stata la furba invenzione di una minoranza che si candidava a gruppo dirigente, ma il prodotto di una forte spinta di massa. Il fatto che l’esito del suo percorso sia stato un fallimento politico non può mettere in questione i motivi della sua nascita. Con Fausto Sorini siamo stati a lungo in Rifondazione Comunista, in posizione di minoranza: eravamo critici nei confronti del ‘movimentismo’ di Fausto Bertinotti; e per questo, con buona pace delle attuali considerazioni di Sorini, venivamo identificati come ‘partitisti’. Come annota la lettera aperta, siamo stati sconfitti; e lo stesso Prc non naviga oggi in buone acque. Io stesso ho lasciato quel partito ed è inutile qui elencare le mie ragioni: ma, come sappiamo, ci sono battaglie che devi comunque combattere, anche se difficili o perdenti.

Ma vengo ad avvenimenti temporalmente più vicini. Quando, qualche anno fa, compagni provenienti dal Prc ed altri dal disciolto Pdci si sono incontrati, assieme a compagni di altre provenienze, per dare vita al nuovo Pci, essi avevano in mente un progetto unificante alla sinistra del Pd e non certo l’idea di aggiungere un’altra tessera ad un mosaico già sufficientemente frammentato. Un tale obiettivo continua ad essere mantenuto oggi, anche se la menzionata unificazione politica non è stata raggiunta. Non a caso il nuovo Pci continua a mantenere nel quadro della sinistra di classe un atteggiamento unitario, stigmatizzando ogni isolazionismo settario. Ma non è facile. La stessa lettera aperta prende le distanze da “una indistinta, amorfa, eclettica ‘unità dei comunisti’ “; e ad esempio ritiene assolutamente da evitare “la convivenza nella stessa organizzazione” con “quadri che considerano la Cina e la Russia di Putin obiettivi della lotta antimperialista”. Resta il fatto che un alleantismo a qualsiasi prezzo così come un settarismo propagandistico (magari scambiato per irriducibile coerenza) costituiscono altrettante degenerazioni della politica, un intralcio per una vera politica di classe.

Quanto detto non mi porta però a condividere una tesi che a tratti emerge alla superficie di questa lettera aperta; e cioè che non sia auspicabile nella presente fase storica la costituzione di partiti in quanto tale. Non mi pare teoricamente utile né praticamente efficace contrapporre l’associazionismo diffuso all’organizzazione partitica (al “livornismo” direbbe Sorini). Intanto per la banale constatazione che alla sinistra del Pd – piaccia o no – oggi esistono tanto associazioni diffuse che partiti. Non mi pare questo il problema, quanto piuttosto – questa sì – la disponibilità da parte di entrambe queste forme di impegno politico a mettersi in questione per essere all’altezza del loro compito. Un partito non è per definizione votato alla chiusura: caso mai ciò dipende dalla cultura politica in esso prevalente e dalla sua linea politica. Così come un’associazione non è destinata per difetto di organizzazione (come i movimenti) ad evaporare. Proprio per questo, se così posso dire, il nuovo Pci e marx21 collaborano proficuamente, mettendo in comune le forze politiche e intellettuali di cui dispongono.

Per pulizia del ragionamento è bene precisare che quanto si è detto sin qui non può essere piegato alla comprensione di dinamiche puramente elettorali. Abbiamo argomentato – come la stessa lettera aperta auspica – cercando di mantenere una prospettiva di lunga lena. Ciò tuttavia non impedisce anche in questa sede di ricordare che la storia recente ha offerto abbondanti prove che dovrebbero indurre ad evitare scorciatoie prive di futuro (anche e soprattutto elettorali). Tra queste, emblematico resta il caso della cosiddetta Sinistra Arcobaleno, lista elettorale costituita (ma vorrei dire: improvvisata) per le politiche del 2008 dal Partito della Rifondazione Comunista, dal Partito dei Comunisti Italiani, dalla Federazione dei Verdi e da Sinistra Democratica, avente come candidato premier l’ex Presidente della Camera Fausto Bertinotti: nonostante una campagna elettorale in cui erano stati aggregati i temi tradizionali della sinistra (lavoro, precarietà, pensioni) con le tematiche ambientaliste e nonostante la profusione di pronostici ultra-ottimistici, la lista si fermò al 3% dei voti, non superando le soglie di sbarramento e non eleggendo rappresentanti né alla Camera né al Senato. A riprova che, senza un percorso serio, costruito nel tempo sulla composizione della dialettica politica e sulle reali esigenze sociali, non si va da nessuna parte.

L’ho già fatta troppo lunga. In conclusione, ribadisco che il punto a mio parere essenziale e da promuovere in questa lettera aperta sta, accanto all’indicazione dei condivisibili ‘fondamentali’ politici da cui essa muove, nella preoccupata enfasi sull’attuale stato delle cose: uno stato delle cose che è del tutto insoddisfacente e che non dovrebbe consentire ad alcuno di trastullarsi con le eventuali piccole gratificazioni che il suo ambito politico operativo possa offrirgli. Per quanto mi riguarda, ben venga dunque un Forum di discussione tra comunisti. Quanto alla costruzione di un Fronte di cui comunisti e non comunisti facciano parte – sull’esempio dell’uruguaiano Frente amplio e del brasiliano Fronte progressista, che ha legato il Pc.doB. al Pt di Lula – non mi pare che ve ne siano in Italia le condizioni politiche (Giuseppe Conte non è Lula…). L’ipotesi frontista resta comunque nel novero delle possibilità: ma il quando e il con chi sono ancora tutti da vedere.

Chiudo davvero menzionando i titoli delle tre campagne su cui il Nuovo Pci è intenzionato a operare, augurandomi anche su queste la più ampia convergenza possibile. Le menziono con titoli miei: Basta Guerra (e subito stop alla produzione e all’invio di armi), Dignità per il Lavoro (non solo salario minimo ma, ad esempio, la riproposizione di un meccanismo di ‘scala mobile’), Risorse alla Sanità (11 milioni di italiani non si curano: e non perché siano sani ma perché non hanno i soldi per farlo).

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