di Fabio Nobile | da fabionobile.wordpress.com
Il voto del 24 e 25 febbraio ha delineato un quadro politico estremamente fluido. E’ la crisi, del resto, l’elemento, che più di ogni altro, condiziona e determina l’attuale fase politica. Una crisi che, da ultimo, ha portato alla ribalta la vicenda cipriota: l’ennesima crepa per l’Europa della Bce e del «pilota automatico» di Mario Draghi. Una crepa che, unita alla questione dello sfruttamento degli straordinari giacimenti di gas nell’area attorno all’isola, dimostra ancora una volta che l’austerity e il debito sono pistole puntate alla tempia degli stati del sud Europa. Ricatti guidati dal capitaleeuropeo a base tedesca finalizzati a scaricare su questi paesi la crisi, rapinandone risorse e spazi produttivi, anche a costo di violare uno dei principi aurei del capitalismo: la sacralità della proprietà privata.
Il tentativo di stabilizzazione del quadro politico italiano passa in queste ore, con l’assenso di SeL, Grillo e dei Fassina, per l’ennesima accelerazione «bonapartista» impressa da Re Giorgio. Lo spettro delle larghe intese, o meglio il concreto esautoramento delle istituzioni rappresentative nate dalla Resistenza in favore del «pilota automatico» di cui sopra, si è materializzato. Il Partito Democratico, stretto tra un governo di larghe intese ed elezioni anticipate con Renzi candidato premier, vive una fase delicatissima. Grillo getta la maschera plaudendo alla gattopardesca scelta di Napolitano, la destra, forte dei sondaggi e dell’ipoteca che oggi esercita sull’intero sistema politico, gongola. Al progressivo spostamento a destra del baricentro politico del Paese non corrisponde, tuttavia, una riorganizzazione della sinistra. Gli automatismi pavloviani, subalternità vs marginalità, continuano ad imperare. Eppure un dato può considerarsi pacifico: la fine delbipolarismo. I venti milioni di elettori che hanno votato Grillo o non hanno votato dimostrano quanto grande sia lo spazio per la ricostruzione di un campo autonomo dei comunisti e della sinistra.
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Un primo riflesso della disarticolazione della sinistra politica è ravvisabile in ambito sindacale. All’ipoteca permanente del Pd sulla Cgil non corrisponde un efficace, o comunque adeguato nella forza, contraltare della sinistra comunista e di classe: un riflesso diretto dell’assenza di una forza comunista organizzata. Da questo punto di vista la generosa e determinata azione del sindacalismo extra-confederale, in particolare dell’Usb, risulta ad oggi insufficiente. Gli stessi «movimenti» sono stati ridimensionati ad un ruolo di completa marginalità. La loro riconducibilità ai fallimenti dell’intera sinistra politica ne rende evidente la stretta connessione con i suoi stessi limiti. Ma non poteva avvenire diversamente. Senza una sintesi soggettiva in grado di dare uno sbocco generale, quella dimensione rischia continuamente la marginalità da una parte e la subalternità dall’altra.
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La sinistra politica, o meglio ciò che ne rimane, non riesce, tuttavia, a trarsi fuori dalle sabbie mobili in cui si dibatte da tempo. Avvitata su stessa non sembra cogliere le dimensioni e la profondità di quest’ennesima sconfitta, finendo quindi per ricorrere a scorciatoie e soluzioni assolutamente inadeguate.
Sinistra Ecologia e Libertà ha scelto il Pse quale riferimento europeo. Una scelta strategica che, aldilà delle scelte tattiche che potranno anche vedere momentanei ritorni a «sinistra» di quel partito, lo ancora saldamente alle compatibilità imposte dall’attuale quadro europeo (Fiscal Compact e gli altri vincoli economici imposti dalla UE) in cui il Pse è una delle gambe politiche che ne governa la stabilità.
Rifondazione Comunista ed i Comunisti Italiani, senza voler esagerare, non sembrano nemmeno poter ambire a guidare un processo di ricomposizione della sinistra, né tantomeno costruire un progetto politico autonomo e credibile agli occhi dei lavoratori. Di fronte alle dimensioni delle questioni aperte la sola idea che i soggetti politici esistenti dei comunisti e della sinistra possano essere in competizione distruttiva tra loro, per far prevalere solitariamente la propria prospettiva, è quantomeno bizzarra. Eppure il culto delle autosufficienze, il «ripartiamo da noi», così come la salvaguardia dei mitici «equilibri interni», continuano ad imperversare e ad avere la meglio.
Il tema, più che il destino delle singole organizzazioni, è invece la ricomposizione prospettica dei comunisti e della sinistra. Riuscire a costruire, cioè, un progetto politico e di lotta per i lavoratori di questo paese che sia in grado di porsi in una relazione avanzata con i movimenti dei lavoratori degli altri paesi d’Europa.
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In questo senso credo sia necessario dar vita ad un nuovo soggetto comunista, attraverso cui costruire una relazione, anche organizzata, con il resto della sinistra diffusa e di classe. I principi essenziali su cui avviare questo percorso potrebbero essere: il superamento del capitalismo e la costruzione del socialismo del XXI secolo quale obiettivo strategico, l’autonomia politica dalle classi dominanti, l’opposizione senza mediazioni alla guerra imperialista. Nell’immediato, invece, la nostra azione dovrebbe focalizzarsi sulle politiche imposte dal capitale finanziario europeo, per mezzo della Bce e dei singoli governi. Un’iniziativa di lotta politica e sociale che punti, cioè, alla rottura degli equilibri che attualmente sostanziano l’Unione Europea.
Se l’obiettivo per chi scrive è la ricostruzione di un nuovo e unitario soggetto comunista e di una vasta area politica della sinistra di classe, il senso della misura e del reale deve metterci da subito in cammino. L’ipotesi di una «costituente», come sommatoria raccogliticcia, è assolutamente astratta: prima è necessaria un’unità d’azione, sul terreno della lotta politica e sociale.
In questo senso bisogna trarre insegnamento dall’esperienza della Federazione della Sinistra, indagandone attentamente i limiti e cercando di individuare i motivi del suo fallimento. In modo sommario voglio esprimere il mio giudizio: la FdS è stata costruita da PdCI e Prc come cartello elettorale, ed è stata costruita per impedire la fusione tra i due partiti. L’idea di federare i due partiti per superare gli sbarramenti e non cimentarli in una discussione strategica unitaria ha determinato una discussione tra gruppi dirigenti ristretti, interessati solo all’autotutela. Ovvero determinati a decidere su stessi, aldilà e al di sopra di qualsiasi necessità unitaria. Il sistema pattizio che sottostava a quel rapporto ne ha determinato l’implosione di fronte alla divisione sull’unica questione che aveva originato l’unità: le elezioni. Certamente la forma e la sostanza delle esperienze politiche hanno un nesso indissolubile. Il motivo che ha fatto nascere la FdS l’ha fatta morire. E le stesse modalità ambigue che l’hanno tenuta insieme erano falsamente unitarie. Volare alto in questo senso è l’unico modo per superare le miserie che hanno determinato l’esito disastroso di questa esperienza.
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Un’ipotesi di confronto potrebbe partire da una sorta di «Fronte dei comunisti e della sinistra» fondata su un patto d’unità d’azione dentro cui favorire anche processi organici di ricomposizione politico-organizzativa dei comunisti: partendo da una rapida fusione di Prc e PdCI, aperta a tutti coloro i quali sono interessati, in un nuovo soggetto comunista.
Le ipotesi di relazione unitaria devono tuttavia tenere conto della necessità di avviare un processo che ha i suoi tempi di maturazione: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Per questo motivo il Prc e il PdCI insieme alle varie anime della diaspora comunista disponibili possono essere parte attiva in tale processo, purché pongano alla base il loro rinnovamento e la loro messa a disposizione e quindi il loro superamento. In un nuovo Partito comunista, definito chiaramente sul piano politico e nell’orientamento strategico, i militanti e i quadri provenienti da queste organizzazioni rappresenterebbero del resto un nucleo importante da spendere unitariamente in un fronte più largo in grado di riacquisire credibilità sul piano di massa.
Lo stesso funzionamento del Fronte fondandosi sull’unità d’azione – quale valore su cui sedimentare organizzazione, coscienza e prospettiva unitaria – deve costruirsi a partire dagli obiettivi di lotta politica e sociale. Senza appesantimenti organizzativi, definendo a priori i temi su cui decidere insieme, uscendo quindi dalla logica di autotutela dei gruppi dirigenti. E’ giunto il momento, a mio avviso, di sfidarsi unitariamente in un percorso che tenga conto delle articolazioni soggettive senza che queste siano un freno all’agire. La dialettica tra fronte unitario e ricomposizione dei comunisti, a partire dall’unificazione-superamento di Prc e PdCI aperta a chi ci sta, può definire un processo positivo in grado di ricostruire una prospettiva.
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Per quanto riguarda il mio partito, il PdCI, ha deciso di andare a Congresso entro e non oltre il mese di luglio. Bene, ulteriori temporeggiamenti decreterebbero la nostra definitiva morte politica. Alla giusta premessa va data la necessaria conseguenza, definendo gli obiettivi del Congresso.
Il primo è il rinnovamento nella funzione del PdCI, senza i tatticismi auto-conservativi che hanno determinato gli esiti disastrosi della Federazione della Sinistra e rendendosi disponibile ad avviare un processo ricompositivo dall’ampio respiro strategico questo partito può svolgere un ruolo importante. Il secondo è il complessivo rinnovamento dei gruppi dirigenti quale premessa positiva finalizzata al raggiungimento degli obiettivi di cui sopra. Il terzo è l’apertura ad un confronto con tutti i soggetti politici e sociali della sinistra di classe. Una Conferenza dei lavoratori e delle lavoratrici, costruita unitariamente con tutte le forze comuniste e della sinistra, potrebbe essere la via giusta per rimettere a tema la conflittualità sindacale e la lotta politica dei lavoratori del XXI secolo.
Un Congresso con tali obiettivi deve costruirsi prima, durante e dopo, nella limpidezza dei diversi punti di vista, a tesi anche alternative per giungere quindi ad una chiarificazione della linea. Deve essere costruito con la massima capacità di partecipazione, cercando quindi di renderlo utile e permeabile al dibattito più generale della sinistra.
Nella chiarezza il PdCI può concorrere a recuperare l’autonomia strategica del campo comunista in Italia. In alternativa ci sarebbe solo una penosa marginalità, contestuale alla subalternità. Pensarsi ed agire come il Partito Socialista di Nencini, politicamente subalterni ed elettoralmente agganciati al Pd, ipotesi uno. Procedere, magari attraverso un’associazione, all’ingresso nel Pd di Renzi, ipotesi due.