di Alessandro Pascale
Riceviamo dal compagno Alessandro Pascale, del CPN del Partito della Rifondazione Comunista, e pubblichiamo come contributo alla discussione sulla storia e le prospettive dei comunisti in Italia.
Di seguito un estratto del libro “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo” (cap. 21, paragrafo 3.14; il libro è scaricabile gratuitamente su http://intellettualecollettivo.it/) con cui si perviene ad un bilancio politico assai critico sulla figura di Enrico Berlinguer e sul PCI degli anni ’70. Lo scopo del brano è quello di far riflettere su come gli errori in cui sia incappata la sinistra italiana dagli anni ’80 (ancora in epoca PCI) in poi (PRC, ecc.) abbiano la propria origine in processi di lungo termine sui quali è ormai opportuno riflettere serenamente e costruttivamente, rinunciando all’agiografia, al fine di favorire una ricostruzione più salda possibile dell’organizzazione comunista, ieri come oggi sempre indispensabile e necessaria per ottenere miglioramenti e conquiste progressive per le classi lavoratrici.
“In Italia […] l’anticomunismo contribuì, in modo determinante, all’affermazione dell’atlantismo. Furono, infatti, la paura e l’avversione al comunismo a rimuovere le pregiudiziali neutraliste e anticapitaliste, presenti tanto nel mondo cattolico quanto nella destra storica e in quella neofascista, favorendo l’inserimento dell’Italia nel mondo occidentale e nell’alleanza atlantica. A sua volta, l’atlantismo condizionò gli equilibri politici tracciando un confine invalicabile che nessun compromesso e nessuna convergenza politica o parlamentare avrebbe potuto superare. Questo confine fu avvertito e denunciato dal PCI come una ingiusta discriminazione nei suoi confronti, addirittura la ragione ultima della mancata conquista della maggioranza elettorale. Anche da parte della DC la scelta atlantica del 1949 fu sofferta politicamente, tanto che una latente opposizione sopravvisse per qualche tempo in alcune frange della sua sinistra interna. L’atlantismo finì per essere adottato anche dalle forze politiche che l’avevano avversato nel 1949. Per primo lo adottò il MSI, nel 1952, attraverso l’anticomunismo; e dieci anni dopo, nel 1963, anche il PSI. Nel 1975-77 perfino il PCI si espresse per l’accettazione della NATO, sia pure con forti ambiguità nel gruppo dirigente e marcate resistenze nella base, che si manifestarono poi nella mobilitazione pacifista contro l’installazione degli Euromissili e contro la guerra nei confronti dell’IRAQ (e quest’ultima proprio in occasione del congresso che sancì la trasformazione del PCI in PDS).” (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 2001) [1]
“Nel decennio decisivo 1964-1973 il PCI diventa uno strumento diretto per l’integrazione di grandi masse studentesche ed operaie nel sistema capitalistico. Non si tratta a mio avviso di un “tradimento”, ma di una funzione fisiologica tipica di ogni normale socialdemocrazia europea moderna. […] Io ripeto fino alla nausea: non ci fu tradimento. Tutti coloro che fantasticano di una situazione rivoluzionaria causata dalla sinergia delle lotte studentesche del 1968 e delle lotte operaie del 1969, con un “autunno caldo” che sembrò protrarsi fino al 1973, costruiscono a mio parere un mito storiografico estremamente diseducativo per le nuove generazioni. Bisogna distinguere in proposito fra due livelli storici distinti, il livello della dinamica superficiale ed il livello della dinamica profonda. La dinamica superficiale era quella della formazione di gruppi rivoluzionari (Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo in una prima fase, e poi i gruppi armati in una seconda fase) che mettevano all’ordine del giorno una rivoluzione di tipo socialista. In termini marxiani, si trattò della falsa coscienza necessaria, ma illusoria, di un’intera generazione. La dinamica profonda era invece quella della integrazione in un capitalismo dei consumi, una dinamica che ovviamente avvenne in modo diverso per gli studenti e per gli operai. Gli studenti confusero un processo di modernizzazione del costume per un processo anticapitalistico, e questa confusione fu propiziata da una ideologia invecchiata che identificava la borghesia con il capitalismo, e non capiva che il capitalismo maturo per poter allargare il proprio spazio di mercificazione universale deve far fuori lui stesso i vecchi residui moralistici borghesi tradizionali. I posteriori esiti innocui di tipo pacifista, ecologista e femminista erano già dialetticamente contenuti in potenza dall’impossibilità di qualunque rivoluzione socialista in Italia. Un discorso diverso deve essere fatto per gli operai. Nella loro stragrande maggioranza (e chi vive a Torino lo ha chiaro come il cristallo, mentre solo chi vive a Teramo o a Benevento può non capirlo) gli operai sanno perfettamente di non potere “dirigere tutto”, e di aver bisogno per difendere i loro interessi di una classe politica e sindacale istituzionalizzata e professionalizzata. È questa la chiave del balzo in avanti elettorale del PCI dal 1968 al 1976. Il PCI garantiva alla piccola borghesia una stabile modernizzazione e liberalizzazione del costume contro i residui del tradizionalismo clericale, ed alla nuova classe operaia di recente emigrazione un processo graduale di integrazione nella società. In assenza di qualunque prospettiva rivoluzionaria […] era il massimo che si poteva ottenere, ed il PCI contribuì ad ottenerlo. Dunque, nessun tradimento sociale e politico. Il tradimento però ci fu lo stesso, e fu un tradimento culturale terribile. In una parola: il graduale processo di modernizzazione del costume e di integrazione sociale delle classi popolari nel capitalismo fu fatto passare per una sapiente “via italiana al socialismo” ed addirittura per “eurocomunismo”. In questo modo si contribuiva ad un vero e proprio “impazzimento ideologico” di cui continuiamo ancora oggi a pagare i prezzi […].” (Costanzo Preve) [2]
La figura di Berlinguer è ricordata con affetto da milioni di persone, tanto da essere da molti considerato l’ultimo grande dirigente della sinistra italiana. Per certi versi è sicuramente vero, ma noi vogliamo cercare di tracciare un quadro meno agiografico della sua pur imponente figura, segnalando come nella sua guida politica non ci siano solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Quali sono stati i suoi meriti:
1) Con la politica del compromesso storico ha portato il PCI al 34% del consenso (nelle Politiche del ’76, ad un passo dalla maggioranza relativa), garantendo al Paese una forza progressista tale da poter consentire o sostenere conquiste fondamentali come lo Statuto dei Lavoratori, la Scala Mobile, il servizio sanitario nazionale, l’aborto, il divorzio, i salari più elevati d’Europa, ecc.; il fatto che la NATO avesse già pronti i piani di golpe evidenzia come il PCI costituisse ancora un pericolo per gli interessi dell’imperialismo internazionale.
2) Lo spessore politico, morale, umano dell’uomo, dotato di grande cultura e ideali, modesto, schivo, totalmente alieno dalla logica deleteria della “casta” e dei privilegi. Nonostante fosse di origine borghese era un generale con l’animo ed uno stile di vita proletario non solo nei discorsi ma anche nelle vicende private e nel modo di fare politica.
3) Aver saputo anticipare la questione morale almeno un decennio prima dello scandalo di Tangentopoli, denunciando quella partitocrazia che si fondava sul Pentapartito e che divorava il Paese, traendone la conclusione, negli anni ’80, che il PCI non potesse allearsi con nessuno, entrando in quello che fu definito “lo splendido isolamento” del Partito; l’analisi non era propriamente marxista, ed avrà effetti deleteri negli anni, ma la conclusione politica nell’immediato portava ad un posizionamento conflittuale adeguato.
4) La capacità di saper riconoscere i propri errori e di invertire la rotta, come fece nell’ultima fase della sua segreteria (1979-84) abbandonando la politica della “solidarietà nazionale” e tornando a proporre un’alternativa di classe, sostenendo in prima persona le lotte degli operai come quelli della FIAT, sfociate nel referendum sulla scala mobile contro le abrogazioni del governo Craxi.
5) Il non aver mai voluto abbandonare l’idea che il PCI dovesse restare un partito comunista dotato della cultura marxista, e che non si potesse né dovesse volgersi verso un modello socialdemocratico, il cui mondo poteva al più rappresentare un alleato ma non la propria stessa identità.
6) L’aver combattuto la fissità del concetto di comunismo, cristallizzatosi nei paesi dell’Europa dell’Est in forme di socialismo non esenti da errori e contraddizioni, come abbiamo ampiamente visto. La questione posta da Berlinguer di tendere verso un sempre maggiore nesso tra democrazia e socialismo poteva e doveva essere accolta per tempo dall’URSS in termini però diversi da quelli posti dal segretario del PCI. Se quest’ultimo la intendeva come un ridare valore alla democrazia liberale borghese e al pluripartitismo, il PCUS avrebbe dovuto coglierne il messaggio della necessità di una maggiore lotta contro la burocratizzazione, il verticismo gerarchico e le sempre maggiori diseguaglianze interne, cercando gli strumenti per un maggiore coinvolgimento degli strati popolari più coscienti e lavorando al miglioramento del livello politico e ideologico di quelli meno coscienti.
7) L’aver introdotto per primo il tema di uno sviluppo umano eco-sostenibile che fosse diverso dal mero aumento quantitativo di merci. Nei discorsi che fece nel 1977 la sua concezione dell’austerità non era l’idea di far impoverire i lavoratori bensì quella di mettere in guardia dal fatto che la felicità individuale non si trovasse nel mero consumismo sfrenato, mettendo in guardia dalla corrispondenza tra progresso e accettazione di ogni bisogno indotto dalla società capitalistica.
Quali sono stati però i suoi grandi errori?
1) Sotto la sua segreteria sono avvenuti i maggiori cedimenti ideologici (anzitutto economici) non solo di una sua parte (ossia il rafforzamento dell’ala migliorista guidata da Napolitano, che si sarebbe dovuta cacciare subito) ma dell’intero Partito. Diamo per assodato il punto di partenza della “via italiana al socialismo”. Come è stata articolata? L’ossessione della legittimazione governativa (riconducibile ad una degenerazione che Lenin chiamava al suo tempo “cretinismo parlamentare”) ha portato il PCI a trasformare la politica del compromesso storico (1973-76), la quale poteva avere un senso dal punto di vista meramente tattico, nella stagione dell’austerity condotta attraverso il periodo della solidarietà nazionale (1976-79), durante la quale il partito si è alienato le simpatie di milioni di lavoratori, perdendo il contatto con gran parte dei movimenti giovanili e studenteschi e iniziando un declino elettorale ininterrotto per tutto il periodo successivo.
2) Il primo compito di un dirigente deve essere preparare la sua successione. Emerge qui l’evidente problema di non aver saputo crescere una nuova leva di dirigenti all’altezza della situazione. Fassino, D’Alema, Mussi, Vendola, Bassolino, Turco, Occhetto sono tutti stati “allevati” sotto la segreteria Berlinguer.
3) Nel 1974 Berlinguer ha deciso personalmente di smantellare l’impianto para-militare clandestino del PCI (celato sotto il nome di “Commissione Antifascismo”) rimasto in vita sottotraccia durante tutta l’epoca Togliatti, rendendo palese come la via democratica al socialismo fosse non un passaggio tattico, ma una questione strategica e di sostanza. In questa maniera però è stato costretto a subire la destabilizzazione interna e internazionale che preparava possibili colpi di stato nel Paese. Il passaggio assai delicato è infatti avvenuto proprio negli anni in cui esplodevano le bombe neofasciste della “Strategia della Tensione” e in cui i generali organizzavano progetti di golpe militari per ogni evenienza. Il tragico errore è lo stesso di quello compiuto da Allende in Cile, con l’aggravante che quest’ultimo non si era trovata già pronta ad uso difensivo una “Gladio rossa”.
4) La critica all’URSS e al socialismo reale si è spinta ad un livello inaccettabile, portando il PCI a rompere con i Paesi e le relative organizzazioni operaie alleati. Berlinguer ha di fatto portato il Partito fuori dal movimento comunista internazionale preparando, se non in maniera volontaria, nei fatti, il suo ingresso nel campo della socialdemocrazia europea.
5) L’aver intrapreso la fallimentare politica dell’Eurocomunismo, con cui ha per un certo periodo legittimato la NATO e avallato l’idea che si potesse costruire un’Europa dei popoli, invertendo una politica di netta ed esplicita contrarietà alle istituzioni europee che caratterizzava il PCI come tutte le altre organizzazioni comuniste. Era infatti analisi condivisa la natura di classe borghese degli organismi europei che si stavano costruendo dall’inizio degli anni ’50. Ciò dipende inevitabilmente in primo luogo dall’inizio di un’inadeguata applicazione della categoria analitica leninista dell’antimperialismo.
6) La gran parte degli errori precedenti dipende in ultima analisi dall’adesione ad un progressivo revisionismo ideologico che ha portato all’abbandono del marxismo-leninismo. Il dato è simboleggiato esplicitamente nel XIV Congresso del PCI del 1979, nel quale Berlinguer in persona propose e fece passare la modifica dello Statuto del Partito, eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista (articolo 5) per affermarne la “laicità”.
7) L’aver difeso senza riserve lo Stato borghese durante la stagione del “caso Moro”, diventandone di fatto il primo difensore, connivente con chi nella DC e nella CIA voleva Aldo Moro morto. Prima dell’attentato di via Fani le BR contavano, secondo alcuni sondaggi, il 25% del consenso tra la classe operaia, che in una maniera o nell’altra simpatizzava con le loro azioni tese a colpire il regime borghese guidato dai democristiani. Berlinguer non era certo obbligato a sostenerli, ma poteva cercare uno spazio diverso come fece Craxi (che chiedeva l’avvio delle trattative per salvare Moro e riconoscere politicamente l’organizzazione BR, sperando di trasformarla così in soggetto politico) oppure come fece il grande intellettuale Sciascia che proclamò “né con lo Stato né con le BR”.
Particolarmente rilevante ci appare l’abbandono formale del marxismo-leninismo dallo Statuto. Su questo tema vale la pena riportare quanto scritto da Costanzo Preve [3]: “Negli anni Ottanta il vecchio dinosauro PCI è come un bastimento alla deriva. Come tutti i dinosauri, ha ormai un corpo grande ma una testa minuscola. Il togliattismo progressista e storicista si era già squagliato come un mucchio di neve al sole. La sconfitta operaia alla FIAT aveva di fatto sancito, con questa battaglia difensiva di retroguardia, la fine della funzione di opposizione e di contestazione della classe operaia di fabbrica in Italia. Gli intellettuali, che lungi dall’essere individualisti come spesso stupidamente si dice da chi non li conosce bene, sono invece profondamente conformisti e gregari e si muovono tutti insieme come banchi di pesci, si mossero negli anni Ottanta in gruppo dal gramscismo al pensiero debole postmoderno. Ai posti di comando PCI non arrivarono i vecchi maneggioni togliattiani di destra (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, ecc.), ma i giovani nichilisti della FGCI che avevano consumato integralmente la morte di Dio diventando così dei nicciani “ultimi uomini” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, ecc.). Un partito senza teoria è come un popolo civile senza metafisica, per usare l’espressione di Hegel. Il PCI degli anni Ottanta è un partito senza teoria, senza strategia e senza tattica. Un povero bestione barcollante, che trova inevitabilmente nella deriva identitaria il solo collante che possa ancora dare senso di appartenenza ai militanti ed agli elettori smarriti. Il partito si ammalò di “craxite”, cioè di personalizzazione polemica contro la figura del cinghialone e del ladrone, cui venivano contrapposti gli austeri ed onesti comunisti. La lettura delle riviste degli anni Ottanta (e di “Linus” in particolare, brodo di coltura di tutti i morettismi successivi) è in proposito ad un tempo agghiacciante ed esilarante. Non esiste più analisi strutturale delle classi e dei rapporti sociali, ma solo una insistita e maniacale polemica contro i ladroni socialisti. Ora, non nego che i socialisti fossero veramente dei ladroni, e lo erano appunto perché non disponevano delle collaudate idrovore di finanziamento strutturale DC e PCI (industria di stato, finanziamenti esteri, cooperative, ecc.), e dovevano supplire con una sorta di dilettantismo brigantesco. Ma questa non era che la superficie pittoresca del problema, così come lo è oggi la “berlusconite”, cui la “craxite” assomigliava come una goccia d’acqua. La personalizzazione mediatica del conflitto è il più evidente sintomo della avvenuta americanizzazione culturale. Tramonta Gramsci, ascende Fassino. Non a caso, quando alla fine del 1989 si sgretolò il baraccone tarlato dell’Est, Fassino dichiarò che il PCI non aveva potuto seguire bene il fenomeno perché impegnato nelle elezioni comunali romane del 1989. Trovo questa dichiarazione inconsapevole da teatro dell’assurdo assolutamente sublime, come le discussioni sul sesso degli angeli degli ultimi bizantini mentre i turchi entrano in città (anche se penso si tratti di una leggenda metropolitana, perché non mi risulta).”
Vediamo ora il lucido punto di vista di Domenico Moro [4]: “Sul PCI ci sono due questioni da affrontare: una è quella della strategia della cosiddetta “via italiana al socialismo” e l’altra quella del lento degradamento del PCI a partire dagli anni ’70. La via italiana al socialismo, basata su un percorso progressivo pensato attorno alle riforme di struttura e all’attuazione della Costituzione, si fondava sull’esistenza di un forte campo socialista, guidato da una rispettata Unione Sovietica, su una fase espansiva dell’economia, con una forte presenza dello Stato nell’economia, e soprattutto su una forma ancora prevalentemente nazionale del capitalismo e parlamentare di governo. Tutti aspetti questi che sono venuti a modificarsi tra la metà degli anni ’70 e la fine del secolo scorso. Inoltre, nel corso dei decisivi anni ’70 ci sono stati importanti errori politici e cedimenti di carattere ideologico da parte del PCI. Le vicende cilene furono interpretate come la dimostrazione dell’impossibilità di governare con il 51% e della necessità di costruire un “compromesso storico” con la DC, passando così dalla strategia dell’”alternativa di sinistra” a quella dell’”alternativa democratica”. Il PCI, incoraggiato dai successi elettorali e nel tentativo di dimostrarsi forza matura di governo, fece importanti concessioni, dalla linea dell’“austerità” (la politica dei due tempi, ovvero l’accettazione dei sacrifici per tirare fuori il paese dalle difficoltà), che spinse la CGIL al contenimento rivendicativo, fino al riconoscimento della NATO. In questo modo, il PCI rinunciava all’opposizione senza che fossero cadute le riserve nei suoi confronti e, pur essendo entrato nella maggioranza di governo durante la “solidarietà nazionale”, fu costretto ad uscirne subito dopo. In sostanza il PCI fallì la sua strategia governista, alienandosi nello stesso tempo molte simpatie, soprattutto tra i giovani, e perdendo alle elezioni del ’79 tutti i guadagni realizzati nel ’76. La maggioranza del gruppo dirigente comunista non capì fino in fondo la natura di classe della DC né le caratteristiche dell’offensiva del capitale in atto, basata proprio sull’austerità, illudendosi sulla natura neutrale delle istituzioni statali e della democrazia borghese. Dopo la sconfitta, Berlinguer tentò di rettificare la linea politica del PCI, ma la morte gli impedì di proseguire. Successivamente, il PCI, privo di una leadership autorevole e sempre più permeabile all’offensiva politico-culturale avversaria e all’eclettismo ideologico, si trasformò in un partito sempre più lontano, soprattutto nel nuovo gruppo dirigente che si stava formando, dalle sue radici comuniste. Il suo scioglimento e la trasformazione in PDS furono, dunque, il risultato di errori di strategia e soprattutto di una lunga operazione di svuotamento ideologico dall’interno.”
In definitiva: riconosciamo a Berlinguer uno spessore ed uno statuto politico importanti, ben superiori alla media dei dirigenti politici comunisti a lui successivi. Ciononostante occorre affermare che la netta degenerazione del PCI abbia subito un’accelerazione decisiva durante gli anni della sua Segreteria. Il PCI di Togliatti era un Partito che si poneva ancora su una linea di netta alternatività di classe, in senso antimperialista e che si proponeva di costruire il socialismo secondo una via pacifista (ma tutelandosi con un apparato paramilitare alle spalle): quest’ultima modalità, pur risultando revisionista rispetto al leninismo, era pur tuttavia legittimata ormai dallo stesso movimento comunista internazionale. L’ottica era quella di costruire una democrazia “progressiva” che ponesse l’Italia fuori dalle strutture imperialiste (NATO e CEE), ricostruendo politiche economiche progressive sulla base del nesso tra sovranità popolare e sovranità nazionale. A suo modo, la posizione di Togliatti era, considerato il contesto, ancora su posizioni di un riformismo assai “rivoluzionario” per un Paese posto sotto l’egida degli USA. Il PCI di Berlinguer è invece un Partito che abbandona tutti gli aspetti progressivi ancora presenti sotto Togliatti, diventando di fatto e nella sostanza un Partito socialdemocratico moderno, cedendo però non solo sul leninismo e sull’appartenenza internazionale al movimento comunista, ma addirittura su alcune categorie marxiste fondamentali, lasciando progressivamente campo aperto a ideologie alternative fondate su logiche corporative, aclassiste, morali e perfino cristiane. Perfino l’antimperialismo, ribadito nei discorsi e in molti atti concreti di solidarietà internazionale, si dissolve nella sciagurata idea di poter democratizzare le istituzioni imperialiste europee, secondo una logica totalmente antileninista che si ritroverà ancora ad esempio nel progetto de “L’Altra Europa con Tsipras” (elezioni europee del 2014), caratterizzando l’impostazione ideologico-politica della sinistra italiana per tutti i decenni successivi, facendole così dimenticare tutta l’avanzata elaborazione della storia precedente, iniziata […] con le polemiche poste da Lenin e Rosa Luxemburg al concetto degli “Stati Uniti d’Europa” già negli anni della Prima Guerra Mondiale. La crisi successiva della sinistra italiana, se non è certamente ascrivibile al solo Berlinguer, non lo vede al contempo esente da enormi responsabilità, di cui sarebbe opportuno prendere atto, rifuggendo dalla consueta pantomima del ritratto agiografico che poco può servire oggi al movimento operaio italiano. Per noi rimane un compagno in buona fede, che come tutti gli altri comunisti della Storia, ha saputo dare contributi utili e meno utili. Non dimentichiamo la sua lezione, nel bene e nel male.
NOTE
1 Parlamento. Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, “Decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti”, cit., p. 203.
2 C. Preve, “Da Antonio Gramsci a Piero Fassino”, 11 dicembre 2005, disponibile su http://www.kelebekler.com/occ/prevefassino.htm, cap. 7 – Il decisivo intermezzo 1964-1973. Dalla morte di Togliatti alla proposta di compromesso storico di Berlinguer.
3 Ivi, cap. 9 – Enrico Berlinguer e la deriva identitaria degli anni Ottanta.
4 D. Moro, “Riflessioni sulla ricostruzione di un partito comunista unito e adeguato”, 22 ottobre 2013, disponibile su https://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/22982-riflessioni-sulla-ricostruzione-di-un-partito-comunista-unito-e-adeguato.html.
UN BILANCIO POLITICO DELLA SEGRETERIA BERLINGUER
di Alessandro Pascale
Riceviamo dal compagno Alessandro Pascale, del CPN del Partito della Rifondazione Comunista, e pubblichiamo come contributo alla discussione sulla storia e le prospettive dei comunisti in Italia.
Di seguito un estratto del libro “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo” (cap. 21, paragrafo 3.14; il libro è scaricabile gratuitamente su http://intellettualecollettivo.it/) con cui si perviene ad un bilancio politico assai critico sulla figura di Enrico Berlinguer e sul PCI degli anni ’70. Lo scopo del brano è quello di far riflettere su come gli errori in cui sia incappata la sinistra italiana dagli anni ’80 (ancora in epoca PCI) in poi (PRC, ecc.) abbiano la propria origine in processi di lungo termine sui quali è ormai opportuno riflettere serenamente e costruttivamente, rinunciando all’agiografia, al fine di favorire una ricostruzione più salda possibile dell’organizzazione comunista, ieri come oggi sempre indispensabile e necessaria per ottenere miglioramenti e conquiste progressive per le classi lavoratrici.
“In Italia […] l’anticomunismo contribuì, in modo determinante, all’affermazione dell’atlantismo. Furono, infatti, la paura e l’avversione al comunismo a rimuovere le pregiudiziali neutraliste e anticapitaliste, presenti tanto nel mondo cattolico quanto nella destra storica e in quella neofascista, favorendo l’inserimento dell’Italia nel mondo occidentale e nell’alleanza atlantica. A sua volta, l’atlantismo condizionò gli equilibri politici tracciando un confine invalicabile che nessun compromesso e nessuna convergenza politica o parlamentare avrebbe potuto superare. Questo confine fu avvertito e denunciato dal PCI come una ingiusta discriminazione nei suoi confronti, addirittura la ragione ultima della mancata conquista della maggioranza elettorale. Anche da parte della DC la scelta atlantica del 1949 fu sofferta politicamente, tanto che una latente opposizione sopravvisse per qualche tempo in alcune frange della sua sinistra interna. L’atlantismo finì per essere adottato anche dalle forze politiche che l’avevano avversato nel 1949. Per primo lo adottò il MSI, nel 1952, attraverso l’anticomunismo; e dieci anni dopo, nel 1963, anche il PSI. Nel 1975-77 perfino il PCI si espresse per l’accettazione della NATO, sia pure con forti ambiguità nel gruppo dirigente e marcate resistenze nella base, che si manifestarono poi nella mobilitazione pacifista contro l’installazione degli Euromissili e contro la guerra nei confronti dell’IRAQ (e quest’ultima proprio in occasione del congresso che sancì la trasformazione del PCI in PDS).” (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 2001)[1]
“Nel decennio decisivo 1964-1973 il PCI diventa uno strumento diretto per l’integrazione di grandi masse studentesche ed operaie nel sistema capitalistico. Non si tratta a mio avviso di un “tradimento”, ma di una funzione fisiologica tipica di ogni normale socialdemocrazia europea moderna. […] Io ripeto fino alla nausea: non ci fu tradimento. Tutti coloro che fantasticano di una situazione rivoluzionaria causata dalla sinergia delle lotte studentesche del 1968 e delle lotte operaie del 1969, con un “autunno caldo” che sembrò protrarsi fino al 1973, costruiscono a mio parere un mito storiografico estremamente diseducativo per le nuove generazioni. Bisogna distinguere in proposito fra due livelli storici distinti, il livello della dinamica superficiale ed il livello della dinamica profonda. La dinamica superficiale era quella della formazione di gruppi rivoluzionari (Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo in una prima fase, e poi i gruppi armati in una seconda fase) che mettevano all’ordine del giorno una rivoluzione di tipo socialista. In termini marxiani, si trattò della falsa coscienza necessaria, ma illusoria, di un’intera generazione. La dinamica profonda era invece quella della integrazione in un capitalismo dei consumi, una dinamica che ovviamente avvenne in modo diverso per gli studenti e per gli operai. Gli studenti confusero un processo di modernizzazione del costume per un processo anticapitalistico, e questa confusione fu propiziata da una ideologia invecchiata che identificava la borghesia con il capitalismo, e non capiva che il capitalismo maturo per poter allargare il proprio spazio di mercificazione universale deve far fuori lui stesso i vecchi residui moralistici borghesi tradizionali. I posteriori esiti innocui di tipo pacifista, ecologista e femminista erano già dialetticamente contenuti in potenza dall’impossibilità di qualunque rivoluzione socialista in Italia. Un discorso diverso deve essere fatto per gli operai. Nella loro stragrande maggioranza (e chi vive a Torino lo ha chiaro come il cristallo, mentre solo chi vive a Teramo o a Benevento può non capirlo) gli operai sanno perfettamente di non potere “dirigere tutto”, e di aver bisogno per difendere i loro interessi di una classe politica e sindacale istituzionalizzata e professionalizzata. È questa la chiave del balzo in avanti elettorale del PCI dal 1968 al 1976. Il PCI garantiva alla piccola borghesia una stabile modernizzazione e liberalizzazione del costume contro i residui del tradizionalismo clericale, ed alla nuova classe operaia di recente emigrazione un processo graduale di integrazione nella società. In assenza di qualunque prospettiva rivoluzionaria […] era il massimo che si poteva ottenere, ed il PCI contribuì ad ottenerlo. Dunque, nessun tradimento sociale e politico. Il tradimento però ci fu lo stesso, e fu un tradimento culturale terribile. In una parola: il graduale processo di modernizzazione del costume e di integrazione sociale delle classi popolari nel capitalismo fu fatto passare per una sapiente “via italiana al socialismo” ed addirittura per “eurocomunismo”. In questo modo si contribuiva ad un vero e proprio “impazzimento ideologico” di cui continuiamo ancora oggi a pagare i prezzi […].” (Costanzo Preve)[2]
La figura di Berlinguer è ricordata con affetto da milioni di persone, tanto da essere da molti considerato l’ultimo grande dirigente della sinistra italiana. Per certi versi è sicuramente vero, ma noi vogliamo cercare di tracciare un quadro meno agiografico della sua pur imponente figura, segnalando come nella sua guida politica non ci siano solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Quali sono stati i suoi meriti:
1) Con la politica del compromesso storico ha portato il PCI al 34% del consenso (nelle Politiche del ’76, ad un passo dalla maggioranza relativa), garantendo al Paese una forza progressista tale da poter consentire o sostenere conquiste fondamentali come lo Statuto dei Lavoratori, la Scala Mobile, il servizio sanitario nazionale, l’aborto, il divorzio, i salari più elevati d’Europa, ecc.; il fatto che la NATO avesse già pronti i piani di golpe evidenzia come il PCI costituisse ancora un pericolo per gli interessi dell’imperialismo internazionale.
2) Lo spessore politico, morale, umano dell’uomo, dotato di grande cultura e ideali, modesto, schivo, totalmente alieno dalla logica deleteria della “casta” e dei privilegi. Nonostante fosse di origine borghese era un generale con l’animo ed uno stile di vita proletario non solo nei discorsi ma anche nelle vicende private e nel modo di fare politica.
3) Aver saputo anticipare la questione morale almeno un decennio prima dello scandalo di Tangentopoli, denunciando quella partitocrazia che si fondava sul Pentapartito e che divorava il Paese, traendone la conclusione, negli anni ’80, che il PCI non potesse allearsi con nessuno, entrando in quello che fu definito “lo splendido isolamento” del Partito; l’analisi non era propriamente marxista, ed avrà effetti deleteri negli anni, ma la conclusione politica nell’immediato portava ad un posizionamento conflittuale adeguato.
4) La capacità di saper riconoscere i propri errori e di invertire la rotta, come fece nell’ultima fase della sua segreteria (1979-84) abbandonando la politica della “solidarietà nazionale” e tornando a proporre un’alternativa di classe, sostenendo in prima persona le lotte degli operai come quelli della FIAT, sfociate nel referendum sulla scala mobile contro le abrogazioni del governo Craxi.
5) Il non aver mai voluto abbandonare l’idea che il PCI dovesse restare un partito comunista dotato della cultura marxista, e che non si potesse né dovesse volgersi verso un modello socialdemocratico, il cui mondo poteva al più rappresentare un alleato ma non la propria stessa identità.
6) L’aver combattuto la fissità del concetto di comunismo, cristallizzatosi nei paesi dell’Europa dell’Est in forme di socialismo non esenti da errori e contraddizioni, come abbiamo ampiamente visto. La questione posta da Berlinguer di tendere verso un sempre maggiore nesso tra democrazia e socialismo poteva e doveva essere accolta per tempo dall’URSS in termini però diversi da quelli posti dal segretario del PCI. Se quest’ultimo la intendeva come un ridare valore alla democrazia liberale borghese e al pluripartitismo, il PCUS avrebbe dovuto coglierne il messaggio della necessità di una maggiore lotta contro la burocratizzazione, il verticismo gerarchico e le sempre maggiori diseguaglianze interne, cercando gli strumenti per un maggiore coinvolgimento degli strati popolari più coscienti e lavorando al miglioramento del livello politico e ideologico di quelli meno coscienti.
7) L’aver introdotto per primo il tema di uno sviluppo umano eco-sostenibile che fosse diverso dal mero aumento quantitativo di merci. Nei discorsi che fece nel 1977 la sua concezione dell’austerità non era l’idea di far impoverire i lavoratori bensì quella di mettere in guardia dal fatto che la felicità individuale non si trovasse nel mero consumismo sfrenato, mettendo in guardia dalla corrispondenza tra progresso e accettazione di ogni bisogno indotto dalla società capitalistica.
Quali sono stati però i suoi grandi errori?
1) Sotto la sua segreteria sono avvenuti i maggiori cedimenti ideologici (anzitutto economici) non solo di una sua parte (ossia il rafforzamento dell’ala migliorista guidata da Napolitano, che si sarebbe dovuta cacciare subito) ma dell’intero Partito. Diamo per assodato il punto di partenza della “via italiana al socialismo”. Come è stata articolata? L’ossessione della legittimazione governativa (riconducibile ad una degenerazione che Lenin chiamava al suo tempo “cretinismo parlamentare”) ha portato il PCI a trasformare la politica del compromesso storico (1973-76), la quale poteva avere un senso dal punto di vista meramente tattico, nella stagione dell’austerity condotta attraverso il periodo della solidarietà nazionale (1976-79), durante la quale il partito si è alienato le simpatie di milioni di lavoratori, perdendo il contatto con gran parte dei movimenti giovanili e studenteschi e iniziando un declino elettorale ininterrotto per tutto il periodo successivo.
2) Il primo compito di un dirigente deve essere preparare la sua successione. Emerge qui l’evidente problema di non aver saputo crescere una nuova leva di dirigenti all’altezza della situazione. Fassino, D’Alema, Mussi, Vendola, Bassolino, Turco, Occhetto sono tutti stati “allevati” sotto la segreteria Berlinguer.
3) Nel 1974 Berlinguer ha deciso personalmente di smantellare l’impianto para-militare clandestino del PCI (celato sotto il nome di “Commissione Antifascismo”) rimasto in vita sottotraccia durante tutta l’epoca Togliatti, rendendo palese come la via democratica al socialismo fosse non un passaggio tattico, ma una questione strategica e di sostanza. In questa maniera però è stato costretto a subire la destabilizzazione interna e internazionale che preparava possibili colpi di stato nel Paese. Il passaggio assai delicato è infatti avvenuto proprio negli anni in cui esplodevano le bombe neofasciste della “Strategia della Tensione” e in cui i generali organizzavano progetti di golpe militari per ogni evenienza. Il tragico errore è lo stesso di quello compiuto da Allende in Cile, con l’aggravante che quest’ultimo non si era trovata già pronta ad uso difensivo una “Gladio rossa”.
4) La critica all’URSS e al socialismo reale si è spinta ad un livello inaccettabile, portando il PCI a rompere con i Paesi e le relative organizzazioni operaie alleati. Berlinguer ha di fatto portato il Partito fuori dal movimento comunista internazionale preparando, se non in maniera volontaria, nei fatti, il suo ingresso nel campo della socialdemocrazia europea.
5) L’aver intrapreso la fallimentare politica dell’Eurocomunismo, con cui ha per un certo periodo legittimato la NATO e avallato l’idea che si potesse costruire un’Europa dei popoli, invertendo una politica di netta ed esplicita contrarietà alle istituzioni europee che caratterizzava il PCI come tutte le altre organizzazioni comuniste. Era infatti analisi condivisa la natura di classe borghese degli organismi europei che si stavano costruendo dall’inizio degli anni ’50. Ciò dipende inevitabilmente in primo luogo dall’inizio di un’inadeguata applicazione della categoria analitica leninista dell’antimperialismo.
6) La gran parte degli errori precedenti dipende in ultima analisi dall’adesione ad un progressivo revisionismo ideologico che ha portato all’abbandono del marxismo-leninismo. Il dato è simboleggiato esplicitamente nel XIV Congresso del PCI del 1975, nel quale Berlinguer in persona propose e fece passare la modifica dello Statuto del Partito, eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista (articolo 5) per affermarne la “laicità”.
7) L’aver difeso senza riserve lo Stato borghese durante la stagione del “caso Moro”, diventandone di fatto il primo difensore, connivente con chi nella DC e nella CIA voleva Aldo Moro morto. Prima dell’attentato di via Fani le BR contavano, secondo alcuni sondaggi, il 25% del consenso tra la classe operaia, che in una maniera o nell’altra simpatizzava con le loro azioni tese a colpire il regime borghese guidato dai democristiani. Berlinguer non era certo obbligato a sostenerli, ma poteva cercare uno spazio diverso come fece Craxi (che chiedeva l’avvio delle trattative per salvare Moro e riconoscere politicamente l’organizzazione BR, sperando di trasformarla così in soggetto politico) oppure come fece il grande intellettuale Sciascia che proclamò “né con lo Stato né con le BR”.
Particolarmente rilevante ci appare l’abbandono formale del marxismo-leninismo dallo Statuto. Su questo tema vale la pena riportare quanto scritto da Costanzo Preve[3]: “Negli anni Ottanta il vecchio dinosauro PCI è come un bastimento alla deriva. Come tutti i dinosauri, ha ormai un corpo grande ma una testa minuscola. Il togliattismo progressista e storicista si era già squagliato come un mucchio di neve al sole. La sconfitta operaia alla FIAT aveva di fatto sancito, con questa battaglia difensiva di retroguardia, la fine della funzione di opposizione e di contestazione della classe operaia di fabbrica in Italia. Gli intellettuali, che lungi dall’essere individualisti come spesso stupidamente si dice da chi non li conosce bene, sono invece profondamente conformisti e gregari e si muovono tutti insieme come banchi di pesci, si mossero negli anni Ottanta in gruppo dal gramscismo al pensiero debole postmoderno. Ai posti di comando PCI non arrivarono i vecchi maneggioni togliattiani di destra (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, ecc.), ma i giovani nichilisti della FGCI che avevano consumato integralmente la morte di Dio diventando così dei nicciani “ultimi uomini” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, ecc.). Un partito senza teoria è come un popolo civile senza metafisica, per usare l’espressione di Hegel. Il PCI degli anni Ottanta è un partito senza teoria, senza strategia e senza tattica. Un povero bestione barcollante, che trova inevitabilmente nella deriva identitaria il solo collante che possa ancora dare senso di appartenenza ai militanti ed agli elettori smarriti. Il partito si ammalò di “craxite”, cioè di personalizzazione polemica contro la figura del cinghialone e del ladrone, cui venivano contrapposti gli austeri ed onesti comunisti. La lettura delle riviste degli anni Ottanta (e di “Linus” in particolare, brodo di coltura di tutti i morettismi successivi) è in proposito ad un tempo agghiacciante ed esilarante. Non esiste più analisi strutturale delle classi e dei rapporti sociali, ma solo una insistita e maniacale polemica contro i ladroni socialisti. Ora, non nego che i socialisti fossero veramente dei ladroni, e lo erano appunto perché non disponevano delle collaudate idrovore di finanziamento strutturale DC e PCI (industria di stato, finanziamenti esteri, cooperative, ecc.), e dovevano supplire con una sorta di dilettantismo brigantesco. Ma questa non era che la superficie pittoresca del problema, così come lo è oggi la “berlusconite”, cui la “craxite” assomigliava come una goccia d’acqua. La personalizzazione mediatica del conflitto è il più evidente sintomo della avvenuta americanizzazione culturale. Tramonta Gramsci, ascende Fassino. Non a caso, quando alla fine del 1989 si sgretolò il baraccone tarlato dell’Est, Fassino dichiarò che il PCI non aveva potuto seguire bene il fenomeno perché impegnato nelle elezioni comunali romane del 1989. Trovo questa dichiarazione inconsapevole da teatro dell’assurdo assolutamente sublime, come le discussioni sul sesso degli angeli degli ultimi bizantini mentre i turchi entrano in città (anche se penso si tratti di una leggenda metropolitana, perché non mi risulta).”
Vediamo ora il lucido punto di vista di Domenico Moro[4]: “Sul PCI ci sono due questioni da affrontare: una è quella della strategia della cosiddetta “via italiana al socialismo” e l’altra quella del lento degradamento del PCI a partire dagli anni ’70. La via italiana al socialismo, basata su un percorso progressivo pensato attorno alle riforme di struttura e all’attuazione della Costituzione, si fondava sull’esistenza di un forte campo socialista, guidato da una rispettata Unione Sovietica, su una fase espansiva dell’economia, con una forte presenza dello Stato nell’economia, e soprattutto su una forma ancora prevalentemente nazionale del capitalismo e parlamentare di governo. Tutti aspetti questi che sono venuti a modificarsi tra la metà degli anni ’70 e la fine del secolo scorso. Inoltre, nel corso dei decisivi anni ’70 ci sono stati importanti errori politici e cedimenti di carattere ideologico da parte del PCI. Le vicende cilene furono interpretate come la dimostrazione dell’impossibilità di governare con il 51% e della necessità di costruire un “compromesso storico” con la DC, passando così dalla strategia dell’”alternativa di sinistra” a quella dell’”alternativa democratica”. Il PCI, incoraggiato dai successi elettorali e nel tentativo di dimostrarsi forza matura di governo, fece importanti concessioni, dalla linea dell’“austerità” (la politica dei due tempi, ovvero l’accettazione dei sacrifici per tirare fuori il paese dalle difficoltà), che spinse la CGIL al contenimento rivendicativo, fino al riconoscimento della NATO. In questo modo, il PCI rinunciava all’opposizione senza che fossero cadute le riserve nei suoi confronti e, pur essendo entrato nella maggioranza di governo durante la “solidarietà nazionale”, fu costretto ad uscirne subito dopo. In sostanza il PCI fallì la sua strategia governista, alienandosi nello stesso tempo molte simpatie, soprattutto tra i giovani, e perdendo alle elezioni del ’79 tutti i guadagni realizzati nel ’76. La maggioranza del gruppo dirigente comunista non capì fino in fondo la natura di classe della DC né le caratteristiche dell’offensiva del capitale in atto, basata proprio sull’austerità, illudendosi sulla natura neutrale delle istituzioni statali e della democrazia borghese. Dopo la sconfitta, Berlinguer tentò di rettificare la linea politica del PCI, ma la morte gli impedì di proseguire. Successivamente, il PCI, privo di una leadership autorevole e sempre più permeabile all’offensiva politico-culturale avversaria e all’eclettismo ideologico, si trasformò in un partito sempre più lontano, soprattutto nel nuovo gruppo dirigente che si stava formando, dalle sue radici comuniste. Il suo scioglimento e la trasformazione in PDS furono, dunque, il risultato di errori di strategia e soprattutto di una lunga operazione di svuotamento ideologico dall’interno.”
In definitiva: riconosciamo a Berlinguer uno spessore ed uno statuto politico importanti, ben superiori alla media dei dirigenti politici comunisti a lui successivi. Ciononostante occorre affermare che la netta degenerazione del PCI abbia subito un’accelerazione decisiva durante gli anni della sua Segreteria. Il PCI di Togliatti era un Partito che si poneva ancora su una linea di netta alternatività di classe, in senso antimperialista e che si proponeva di costruire il socialismo secondo una via pacifista (ma tutelandosi con un apparato paramilitare alle spalle): quest’ultima modalità, pur risultando revisionista rispetto al leninismo, era pur tuttavia legittimata ormai dallo stesso movimento comunista internazionale. L’ottica era quella di costruire una democrazia “progressiva” che ponesse l’Italia fuori dalle strutture imperialiste (NATO e CEE), ricostruendo politiche economiche progressive sulla base del nesso tra sovranità popolare e sovranità nazionale. A suo modo, la posizione di Togliatti era, considerato il contesto, ancora su posizioni di un riformismo assai “rivoluzionario” per un Paese posto sotto l’egida degli USA. Il PCI di Berlinguer è invece un Partito che abbandona tutti gli aspetti progressivi ancora presenti sotto Togliatti, diventando di fatto e nella sostanza un Partito socialdemocratico moderno, cedendo però non solo sul leninismo e sull’appartenenza internazionale al movimento comunista, ma addirittura su alcune categorie marxiste fondamentali, lasciando progressivamente campo aperto a ideologie alternative fondate su logiche corporative, aclassiste, morali e perfino cristiane. Perfino l’antimperialismo, ribadito nei discorsi e in molti atti concreti di solidarietà internazionale, si dissolve nella sciagurata idea di poter democratizzare le istituzioni imperialiste europee, secondo una logica totalmente antileninista che si ritroverà ancora ad esempio nel progetto de “L’Altra Europa con Tsipras” (elezioni europee del 2014), caratterizzando l’impostazione ideologico-politica della sinistra italiana per tutti i decenni successivi, facendole così dimenticare tutta l’avanzata elaborazione della storia precedente, iniziata […] con le polemiche poste da Lenin e Rosa Luxemburg al concetto degli “Stati Uniti d’Europa” già negli anni della Prima Guerra Mondiale. La crisi successiva della sinistra italiana, se non è certamente ascrivibile al solo Berlinguer, non lo vede al contempo esente da enormi responsabilità, di cui sarebbe opportuno prendere atto, rifuggendo dalla consueta pantomima del ritratto agiografico che poco può servire oggi al movimento operaio italiano. Per noi rimane un compagno in buona fede, che come tutti gli altri comunisti della Storia, ha saputo dare contributi utili e meno utili. Non dimentichiamo la sua lezione, nel bene e nel male.
[1] Parlamento. Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, “Decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti”, cit., p. 203.
[2] C. Preve, “Da Antonio Gramsci a Piero Fassino”, 11 dicembre 2005, disponibile su http://www.kelebekler.com/occ/prevefassino.htm, cap. 7 – Il decisivo intermezzo 1964-1973. Dalla morte di Togliatti alla proposta di compromesso storico di Berlinguer.
[3] Ivi, cap. 9 – Enrico Berlinguer e la deriva identitaria degli anni Ottanta.
[4] D. Moro, “Riflessioni sulla ricostruzione di un partito comunista unito e adeguato”, 22 ottobre 2013, disponibile su https://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/22982-riflessioni-sulla-ricostruzione-di-un-partito-comunista-unito-e-adeguato.html.