Sul processo in corso e i nostri compiti

Con l’intervento del compagno Patrizio Andreoli continua la nostra rassegna di contributi sul ruolo e le prospettive dei comunisti in Italia

Una risposta al compagno Gianni Favaro

di Patrizio Andreoli
Comitato Centrale Partito Comunista d’Italia

Il compagno Gianni Favaro, ha recentemente argomentato su queste colonne il suo “perché no” circa il possibile ulteriore sostegno al percorso costituente -un percorso aperto e tuttora in cammino- di ricostruzione del Partito Comunista in Italia. Una riflessione legittima e franca il cui merito sarebbe un errore banalizzare o relegare a semplice apporto polemico, nel caso depotenziandone il nucleo critico, ascrivendo il suo dire a semplice diatriba individuale o peggio ancora di fronda. Una riflessione, a cui va riconosciuto il merito di aver posto senza fumisterie, chiosature bizantine o rimandi obliqui, alcuni temi su cui merita intervenire e che pur tuttavia, proprio sul terreno squisitamente politico -che poi è ciò che conta-, mi pare manifesti una propria intima fragilità. Se in ogni caso politiche sono le questioni, politica non può che essere l’interlocuzione e la risposta.

Punto primo. Si pone la questione di un “appello” che non ha guadagnato” le adesioni che invece “forse meritava”, anche perché esso si è rivelato non “inclusivo, unitario e aperto a tutti i comunisti”. Penso che la ragione principale di questo “rifiuto”, egli continua, “derivi dal fatto che il corpo principale che si è fatto promotore dell’iniziativa è, ovviamente, il PdCI…” Che il processo costituente per impacci e limiti oggettivi e soggettivi legati al suo avvio, non sia deflagrato positivamente nel Paese così come speravamo, nelle pieghe del dolore sociale o in quelle -avare- di una speranza di riscatto avvilita da anni di diaspore a sinistra e nella famiglia comunista; è in sé fatto reale che pur tuttavia -se intendiamo essere seri- rimanda a valutazioni e motivazioni ben più profonde del semplice resistere ad una presunta spontanea fecondità costituente di questa o quella casamatta organizzata, di questo o quel “fortino” strutturato (come altrove egli aggiunge) che egli risolve in un addebito senza appello, in un consuntivo negativo delle esperienze di Prc e PdCI; al netto della generosità di alcuni tentativi svolti in questi ultimi venticinque anni. Al di là del non condividere in parte, sic et simpliciter tale giudizio, mi si permetta di sintetizzare provocatoriamente come, magari solo di questo si trattasse!

E’ che il processo di ricostruzione di una soggettività organizzata comunista, sconta molte cose tra cui la resettazione di una memoria storica viva e per ciò stesso militante; la destrutturazione a lungo patita di un punto di vista critico sul capitalismo italiano, le forme concrete con cui esso ha esercitato il potere e si è manifestato nel Paese (il nodo del consenso e il berlusconismo, l’impoverimento -per qualità e densità- della democrazia, la spoliazione dei diritti, la marginalizzazione sociale e l’impoverimento materiale, la compressione di opportunità di emancipazione); l’involgarimento di una borghesia (e marxisticamente anche delle classi subalterne che quell’egemonia culturale e politica hanno subito) nutrita da pulsioni di egoismo sociale e di rivincita globale a livello internazionale sul novecento soviettista; e molto altro ancora potremmo aggiungere. Contro noi, potente, gioca il peso di un senso comune che ha espunto addirittura la narrazione di una possibile alternativa allo stato di cose presenti. E’ tanto vero, che ci hanno persino tolto le parole per dirlo, deprivando la nostra idea e spiegazione di un futuro diverso, necessario quanto possibile. Si è illustrata con sapiente ed insistente pedagogia revanscista, con un altro alfabeto sociale e relazionale, un’altra storia che fa apparire noi vecchi e disallineati con i tempi e la realtà. Non è così, ma il peso di questa gigantesca mistificazione ha pur tuttavia agito ed agisce tuttora con effetti concreti permeando profondamente mentalità e comportamenti di larga parte delle masse popolari. Che il materiale dipanarsi nel crogiolo delle contraddizioni e dei mutamenti profondi che hanno investito l’Italia e non solo, del vissuto politico facente capo a vario titolo alle principali esperienze comuniste organizzate (il Prc ed il PdCI, poi PCd’Italia) non abbia in più di un’occasione aiutato, è motivo di riflessione critica necessaria e salutare. Un nodo da non eludere che d’altronde quasi sempre, per farla qui breve, rimanda per i comunisti ad un grumo, ad una questione classica: ovvero all’aver sofferto, soprattutto nei passaggi stretti e cruciali, un deficit di direzione ed elaborazione, politica! E’ il mio un giudizio severo, che senza infingimenti o indulgenza alcuna tra noi, rinvia a debolezze della nostra cultura e prassi politica nel passaggio tra il XX e XXI secolo, per ricadere subito con tutto il suo peso -per l’appunto- sulle spalle del nuovo soggetto, il PCI (di cui lo scriverne mi muove a pudore ed umiltà visto l’ineguale confronto, per peso e spessore, col nostro presente) che intendiamo (ri-)costruire. Questa è la scommessa che abbiamo dinanzi, e non vale piangere sulle evidenti contraddizioni e sulla parzialità di questa o quella situazione determinatasi, che ogni processo con sé trascina. Né sui limiti nostri, la pochezza di questo o quello che pure va vista e mai giustificata, né tollerata. Ritengo anzi, che in proposito si debbano recuperare, andando oltre appelli retorici e moralismi stucchevoli, elementi di integrità ed eticità, realizzando per via politica un forte richiamo al rigore dello studio e alla sobrietà del comportamento circa il nostro costume. Il fatto è che anche l’acqua più limpida, anche la spinta più generosa, trascina con sé -inevitabilmente- detriti e corpi morti, solleva il fondo su cui sono depositati miasmi ed insieme humus preziosi. E’ sempre avvenuto così o altrimenti non parleremmo di processi vivi ed in fieri, ma -in maniera affatto leninista- di modelli bell’è pronti e definiti che mai si danno nella storia degli uomini, tanto meno nella fase di avvio di qualunque processo dove -va da sé-, sperimentazioni e battute d’arresto, errori e intuizioni formidabili, convivono e si elidono, si confrontano e scontrano di continuo. Noi, lungo il nostro cammino, non possiamo permetterci pose sufficienti o avvilimenti dell’anima che disarmano. Non possiamo farlo proprio perché non siamo anime belle ma combattenti politici. D’altronde, a noi, qui ed ora per come siamo storicamente forgiati e non ad altri, spetta il compito di tener colpo circa un nodo che al momento a me pare parte ancora troppo piccola (e me ne preoccupo) della nostra riflessione critica, mentre invece meriterebbe ben altro impegno. Mi riferisco alla questione generale del conflitto capitale-lavoro che precede in termini stretti la stessa questione comunista; ovvero il come, in quali forme e sulla base di quale lettura e strumenti aggiornati, traghettare il conflitto nel terzo millennio! Senza questo non vi è coscienza della classe che il soggetto della trasformazione vuole interpretare, né può esservi costruzione di un coscienza e di un programma comunista. Nostro primo compito, da comunisti, è dunque quello di non banalizzare, di non sfuggire all’analisi ed alla presa in carico, in termini politici, della complessità. Una complessità che a partire dalla nostra storia e presenza, va assunta tutta per quel che è, con realismo e senza indulgenze, accettandone pur tuttavia anche le strozzature, le aporie, le cadute.

Punto secondo. Nella riflessione di Favaro, invece, pare quasi che azzerando quel che rimane (e si intuisce pervicacemente resistere, dei vecchi gruppi dirigenti) si possano/potessero aprire chissà mai quali migliori e magnifiche sorti -altrimenti depresse e tradite- per il percorso costituente comunista! Certo, il nodo dei gruppi dirigenti è nodo reale sia in termini di positivo contributo, sia in termini di zavorra (laddove sussiste). Una questione aperta che pur tuttavia, ritenere di affrontare e risolvere solo in termini di pesatura o di scontro/controllo di gruppo (conte interne, quote, agibilità di aree organizzate; o per converso, esclusioni, tradimenti, sottrazione di spazi) mostra povertà di giudizio; ovvero una ridotta culturale che tutto riconduce a scontro interno ai gruppi dirigenti stessi. Certamente anche di questo si tratta contando non poco, ma leggere la strategia della trasformazione attraverso la lente della lotta interna ai centri di comando, è aspetto necessario purché a questo non ci si limiti o alla fine sarà il giudizio politico che ne deriva a risultarne deformato e compromesso, tradendo da un lato l’insegnamento leninista circa l’organizzazione del Partito ed insieme, l’ammaestramento gramsciano che sempre ammoniva circa la necessità di “non perdere mai il rapporto sentimentale col proprio popolo (popolo, non ristrette cerchie illuminate!) di riferimento.” Altro che miserie di conventicola o scontro tra oligarchie autoreferenziali! E’ questo anche il caso del processo costituente in atto. Le battaglie sui o contro i gruppi dirigenti, si fanno a partire dalla politica, dall’idea del cambiamento che si ha, delle diverse opzioni che si agitano ed agiscono nel dibattito circa la costruzione della prospettiva. Ecco perché è un errore abbandonare il processo costituente! Lo dico, ritenendo l’auto allontanamento di Favaro un impoverimento in sé, dell’ordito che cerchiamo di tessere tutti con fatica. Tutto il resto, quel che rimane, è polemica, scorciatoia, insofferenza soggettiva (persino giustificata, come talora è capitato nella vicenda umana e politica di più d’uno, in forza di torti subiti o aspri passaggi caratterizzanti la propria storia ed esperienza).

Nel solco di questa interpretazione che a me pare contenere limiti sul piano del giudizio politico, più oltre il compagno Favaro evoca la necessità di costruire “l’uomo nuovo (per citare Gramsci) che da comunista diventi agitatore e organizzatore dei conflitti e delle nuove organizzazioni sociali e produttive che anticipino il mondo nuovo che immaginiamo e proponiamo.” Un auspicio non solo legittimo, ma un obbiettivo a cui tendere concretamente. In proposito, stupisce pur tuttavia come egli, che in apertura della sua nota si dilunga nell’illustrarci le tappe di una militanza personale declinata in molti e diversi livelli di responsabilità politica assunti nel tempo, non distingua tra spontaneità e spontaneismo; tra la necessità di tener conto della spontaneità e felice spinta innovativa che permea la coralità d’insieme di alcuni processi (la costituente comunista, tanto per restare al tema), e lo spontaneismo, in sé privo di progettualità e ponderata messa a frutto del proprio impegno. Gramsci non ha mai pensato, riflettendo in via originale sulla lezione leninista, che l’uomo nuovo sorgesse per germinazione spontanea, nel caso solo che fosse liberato dalle pastoie di apparati o sedicenti avanguardie, nei fatti dedite alla pura difesa della propria conservazione. Il solo pensarlo rimanda ad un visione illuminista e romantica dei processi storici e della condizione umana. La verità, come la storia insegna, è che non vi è affatto uomo nuovo, uomo che da solo agisce e cambia il mondo, senza il ruolo guida di gruppi organizzati ed avanzati che quei processi allevano ed anticipano, sostengono e suggeriscono con l’analisi e l’esempio. La stessa coscienza di classe (tanto più nei tempi presenti!), non sorge spontanea per pura presa d’atto della propria condizione sociale. Lo sfruttamento e la semplice indignazione o protesta, non producono in sé, né producono sempre l’approdo ad una visione comunista delle cose. Anzi! Il materiale dipanarsi della storia, la nostra storia quotidiana e quella del mondo grande e terribile in cui viviamo, ci racconta molto spesso ben altro! Insomma, non si è comunisti perché proletari o poveri. Né vi è uomo nuovo in sé disgiunto dal processo che quell’uomo definisce e giustifica, e tanto meno, solo perché in tal modo ci/lo autodefiniamo! Non è, e non è mai stato così. La questione sta nel fatto che la coscienza, alla classe si porta! E’ la forzatura volontaristica e fortemente strutturata, che agendo d’imperio sulla nebulosa della protesta e del ribellismo le muta in progetto di cambiamento politico. Tutto questo rimanda direttamente alla funzione del Partito; ovvero -con le dovute proporzioni- rimanda anche a noi, qui ed ora.

Punto terzo. Il compagno Favaro sostiene che “contrariamente a quanto scritto nei documenti, in questa fase storica non ci sia bisogno di un Partito di massa (con chi? Per cosa?) ma di quadri militanti che siano formati ideologicamente e politicamente”, tali da agire “sui luoghi di lavoro e nella società.” Che in ragione di quell’atto d’imperio di cui dicevo con cui e per cui la coscienza alla classe si porta, si dia ragione circa la funzione educatrice di avanguardie organizzate ed ideologicamente preparate la cui presenza e cura è essenziale per la costruzione del Partito, è indubbio. Una tempo, nella vulgata e persino nella mitologia cospirativa dei Partiti Comunisti, è questo il nucleo (storicamente) necessario a cui si riferiva la presenza dei rivoluzionari professionali. Ma essa (che presuppone per l’appunto l’esistenza di un forte e coeso gruppo dirigente aduso al sacrificio, alla fermezza ideale e ad una libera dialettica politica tale da ottimizzare tutti gli elementi di creatività e di esperienza che quel gruppo dirigente distinguono) non confligge affatto con la necessità che nel nostro presente anzi s’impone, di dar vita da subito ad una semina larga, molto larga, delle nostre idee e della nostra presenza organizzata nel Paese. Tanto per restare al nostro presente, la battaglia circa il NO alla (contro-)riforma costituzionale di Renzi o alla raccolta di firme a sostegno della proposta referendaria avanzata dalla CGIL circa la stesura di una nuova Carta dei Diritti Universali del lavoro, pretendono che i comunisti si spendano nella misura più ampia e visibile, mobilitando e mobilitandosi. Non possiamo accontentarci solo di orientare con quadri preparati le avanguardie sindacali e sociali più avvertite, dobbiamo pretendere da noi stessi di esserci!

Gran parte del successo o del fallimento della costituente, piaccia o non piaccia passa di qui. Guai se sposassimo l’ipotesi di essere solo parte separata ed altra (nel senso letterale di “alterum”, diverso) nella società. Il PCI non divenne quella grande formazione che sappiamo in modo particolare con o dall’VIII Congresso in poi, assumendo con forza l’idea formidabile (gramsciana più che togliattiana) della costruzione del Partito di massa; ma prima, molto prima, quando dal centro estero nel cuore degli anni trenta e in epoca di largo consenso al fascismo, fu data ad un’intera leva e generazione l’indicazione di rientrare in Italia e di palesarsi nei sindacati fascisti, nelle organizzazioni giovanili, nelle università e suoi luoghi di lavoro. Quel Partito, che per contesto, ispirazione ed organizzazione necessaria era quanto più di leninista si potesse immaginare dette corpo ad una scelta apparentemente irragionevole che determinò l’arresto e la caduta di molti. Pure, furono proprio quei molti il seme speso con durezza che fecondò il tratto del futuro Partito Comunista Italiano, prima alla testa della lotta di liberazione e poi di ogni battaglia sociale nelle pieghe del dolore di un Paese in ginocchio. Mettere l’una contro l’altra la necessità di una forte formazione dei nostri quadri (fatto essenziale), a quella di una semina che immediatamente realizzi il massimo contatto possibile con le masse lavoratrici e popolari e la massima diffusione e presenza della nostra organizzazione e delle nostre idee, è un errore grave, una torsione settaria della linea politica necessaria.

Se poi Favaro si richiama a tale profilo (il Partito di quadri, lasciando intuire di pensare al Partito dei migliori) ritenendo che troppe sono le falle nel travaso tra il vecchio e il nuovo che caratterizza la nostra fase costituente (possibili opportunismi, posizionamenti di piccolo cabotaggio, cadute sui contenuti etc.), tali da compromettere l’intero processo; tanto più rende ingiustificato il suo sottrarsi alla battaglia politica. Ora, più di sempre, è il momento di stare e vivere nel crogiuolo vivo, nel cantiere che abbiamo aperto da mesi. La verità, è che il nuovo PCI sarà quello che insieme sapremo e vorremo determinare e costruire. Ma quell’insieme è possibile -mi si perdoni la banalità-, se appunto ci siamo, ci appassioniamo e insieme sopportiamo la fatica e le sofferenze di un parto in sé comunque molto critico. (15 giugno 2016)