Rileggendo il saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione” (1945) e il libro “Ricostruire il partito comunista” (2011), alla luce del dibattito presente

falcemartello warhol 2di Fausto Sorini

Riceviamo dal compagno Fausto Sorini e volentieri pubblichiamo come utile contributo all’analisi della storia dei comunisti in Italia e alla discussione sulle loro prospettive.

Ci auguriamo che a questo articolo ne seguano altri, contenenti analisi che, sebbene non coincidenti fra loro ma nell’ambito di un confronto costruttivo e di rispetto reciproco, consentano di approfondire aspetti relativi alla fase complessa e di difficoltà che sta attraversando il movimento comunista nel nostro paese.

Credo sia utile – nel presente dibattito sulla esigenza di ricostruzione in Italia di un PC all’altezza dei tempi – una rilettura critica e attualizzata del famoso saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione”, che Rinascita pubblicò nel dicembre del 1945. Esso rappresentò negli anni e nei decenni successivi, e ancora rappresenta, una pietra miliare nella formazione di intere generazioni di quadri comunisti, cioè leninisti. E ciò resta vero, nonostante le numerose e variamente motivabili rimozioni subite negli ultimi 62 anni dalla figura e dall’opera del fondatore dell’organizzazione della Resistenza italiana, della lotta politica e militare della Liberazione e della nascita del “partito nuovo” dopo gli anni della clandestinità. E ciò diversamente dal ruolo che una certa storiografia ha riservato a figure importanti, e tra loro diverse, come Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Ingrao, Napolitano…

Il tema venne in qualche modo ripreso dal libro edito nel maggio del 2011 da Marx XXI (“Ricostruire il partito comunista”), firmato da Oliviero Diliberto, Vladimiro Giacchè, Fausto Sorini, e che fu redatto con il contributo fondamentale di Andrea Catone e Manlio Dinucci: cinque figure, diverse tra loro per formazione e cultura politica, che oggi non casualmente si collocano fuori dal processo congressuale che alla fine di giugno del 2016 darà vita al Pdci 2.0, al di là del nome più o meno plausibile con cui quell’assemblea deciderà di nominare quel soggetto politico.

Consentitemi, da quel libro (che uscì nel maggio 2011, non il secolo scorso, e che accompagnò negli stessi mesi la confluenza dell’area dell’Ernesto nel Pdci 1.0), alcune brevi citazioni, su cui anche recentemente ho avuto modo di richiamare l’attenzione di alcune compagne e compagni un po’ distratti o immemori:

Partito di quadri e di militanti, con una influenza di massa:

“Tre ipotesi presenti nella discussione

Qual è il progetto di ricostruzione di un partito comunista in Italia che sottoponiamo alla discussione? Si tratta – lo diciamo senza mezzi termini – di un processo assai arduo e complesso, di medio-lungo periodo, di cui dobbiamo saper individuare fasi e tappe intermedie.

Emergono tre ipotesi degne di nota nella discussione tra i comunisti in Italia (escludiamo a priori ipotesi gruppuscolari, ultraminoritarie e puramente testimoniali).

Una rifondazione della rifondazione?

Una prima ipotesi è quella che potrebbe essere definita come la rifondazione della rifondazione: ovvero, si ricomincia da capo, senza fare tesoro della lezione della storia del PCI e dei vent’anni della storia di Rifondazione e del PdCI, e si rimette insieme una Rifondazione non meno eclettica di quella che vi è stata in passato, in un assemblaggio indistinto di correnti politiche e ideologiche…

Ricostruire il PCI?

Una seconda ipotesi è quella di chi ritiene, illusoriamente, che sia possibile, in tempi politici, ricostruire una sorta di nuovo PCI, un po’ più piccolo di esso, ma capace di organizzare nelle sue strutture grandi masse, capace di raccogliere milioni di voti su una sua lista di partito, come se il richiamo all’identità e alla simbologia comunista fosse sufficiente, nell’Italia di oggi, a determinare larghi consensi.

In tale ipotesi, manca la consapevolezza che nel contesto italiano (e non solo) tale scenario è chiuso per una lunga fase: perché la crisi è andata così a fondo e il contesto storico-politico e sociale è così cambiato, che pensare che sia oggi possibile in Italia ricostruire un partito comunista “di massa” sul modello del PCI, è fuori dalla realtà…

Prima di tutto ricostruire un’avanguardia

Il problema dunque, nei paesi capitalistici più avanzati, dove più diffuso è anche il fenomeno delle aristocrazie salariate e la percezione diffusa – nonostante la crisi – di vivere comunque nella parte più ricca e privilegiata del mondo, è come e con chi si ricostruisce un nucleo sociale e di classe che possa rappresentare la base sociale di una forza politica rivoluzionaria e di avanguardia come il partito comunista. Una forza che sia necessariamente portatrice di una visione internazionale dello sviluppo della produzione, della lotta di classe e delle ragioni del socialismo. Il che richiede un livello di coscienza soggettiva assai superiore a quello che in altre fasi storiche conduceva i proletari ad aderire quasi spontaneamente ai partiti portatori di una prospettiva socialista.

Un partito di quadri e di militanti con influenza di massa

Una terza ipotesi, a nostro avviso l’unica possibile, è quella della ricostruzione – in questa fase – di un partito di quadri e di militanti,

più simile a quella che fu l’esperienza originaria del PCdI gramsciano che non al “partito nuovo” togliattiano del secondo dopoguerra (se ci si consente la semplificazione), di cui mancano oggi, purtroppo, le condizioni minime.

Un partito che si ponga l’obbiettivo di una influenza di massa (non un gruppuscolo testimoniale e minoritario nella sua logica politica e nel suo stile di lavoro). Un partito, dunque, che pur essendo relativamente piccolo in termini di iscritti e di voti, sappia organizzare una presenza efficace dei suoi quadri e militanti nella società, nel sindacato, nei più diversi organismi e associazioni di massa; e quindi sia capace, in questo senso, di esercitarvi una influenza di massa (dato che non vi è un rapporto meccanico tra il numero degli iscritti e l’influenza)”.

Lo stesso approccio fu ripreso nelle ultime tesi congressuali del Pdci 1.0 (luglio 2013):

“Il congresso di Rimini (ottobre 2011) ha già affrontato alcune questioni di fondo sui caratteri del partito di quadri e di militanti oggi possibile e necessario…un partito di militanti in cui ogni iscritto sia un attivista con responsabilità e compiti precisi ed ogni militante svolga una funzione dirigente, operando politicamente nel proprio luogo di studio o di lavoro, nel proprio territorio, nel proprio ambito di competenza”.

Questa è oggi l’unica via realistica anche per costruire un radicamento sociale di massa. La mera nozione di “partito di massa” o “di popolo”, come fu il grande Pci nel secondo dopoguerra, è fuori dalla realtà (per non parlare della famosa asserzione di Cesare Procaccini, all’epoca ancora segretario quando disse in pubblico, alla prima presentazione nazionale della Costituente (integralmente divulgata in video),  che “se qualcuno dicesse che oggi possiamo ricostruire il PCI bisognerebbe chiamare l’ambulanza..!”). Ma la formulazione in vigore dal 2011 – “partito di quadri e di militanti” – scompare dalle tesi congressuali del Pdci 2.0 (giugno 2016).

Alle origini della mutazione genetica molecolare del PCI

Nel libro citato si affrontava con la dovuta problematicità, ma senza rimozioni, anche il tema assai complesso del rapporto con l’esperienza storica del PCI e delle cause più profonde della mutazione genetica molecolare (l’espressione fu coniata da Armando Cossutta nei primi anni ’80) che poi, nel tempo, condusse alla Bolognina.

Riprendo qui, da quel libro, un’altra citazione:

“Riprendere la riflessione sulla storia del PCI

Nell’analisi delle cause più profonde di questa esperienza ventennale è necessario riprendere la riflessione sulla storia medesima del PCI, sulle ragioni della sua autodissoluzione:  perché lì si trova l’origine del male irrisolto che ha poi corroso anche l’esperienza di Rifondazione e che condiziona anche la crisi attuale. E non avere, nei vent’anni dell’esperienza di Rifondazione, fatto i conti con le cause più profonde dell’esito conclusivo dell’esperienza storica del PCI, con le ragioni di fondo della sua mutazione genetica, resta una delle cause primarie della crisi e dei processi degenerativi che hanno investito e investono drammaticamente il comunismo italiano.

Molte di queste questioni sono destinate a rimanere oggetto di una riflessione aperta  per molto tempo, e questo è normale. Il male è non discuterne, non affrontarle nemmeno. Questo è uno dei fattori importanti che hanno corroso la cultura politica del comunismo italiano nella sua fase conclusiva.

La via italiana al socialismo

Un primo nodo di riflessione storica riguarda l’8° congresso del PCI (1956), quello della via italiana al socialismo. Questo congresso rappresenta – ciò è da tutti riconosciuto – un grande passo avanti nell’elaborazione del PCI, un congresso di grande innovazione qualitativa: e se Gramsci era stato il protagonista della svolta del Congresso di Lione (1926), qui è Togliatti il protagonista della linea del partito nuovo. Il congresso è però preceduto anche dalla rottura del nucleo dirigente storico del PCI che aveva fatto la Resistenza, imperniato sulla triade Togliatti, Longo, Secchia, con l’emarginazione di quest’ultimo e di una parte importante di quadri che erano stati l’ossatura della guerra partigiana. Mentre avanza una nuova leva che sarà poi alla testa del PCI dopo la morte di Togliatti (Ingrao, Amendola, Napolitano, Berlinguer). Su questo passaggio sussistono interpretazioni diverse: tra chi lo considera una necessaria, anche se dolorosa, rottura con posizioni settarie e conservatrici, inadeguate a fronteggiare una fase nuova di sviluppo della società italiana e del contesto internazionale; e chi viceversa lo ritiene uno sbilanciamento dell’equilibrio interno che, nel tempo, farà venir meno l’esistenza di robusti anticorpi al processo di socialdemocratizzazione del PCI. (1)

Sezioni territoriali e cellule nei luoghi di lavoro

E’ negli anni ’50 che il PCI raggiunge l’apice del suo radicamento capillare e organizzato, come partito della classe operaia, con la ramificazione in oltre 50.000 cellule nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Mentre negli anni e nei decenni successivi, da partito in cui la grande maggioranza degli iscritti è organizzata in cellule di lavoro, via via si passa a un partito dove le cellule diminuiscono grandemente di numero e di ruolo, e il partito si organizza sempre di più in sezioni territoriali più grandi, con molti iscritti, secondo un modello più simile a quello dei grandi partiti socialdemocratici, in cui la competizione elettorale e i ruoli istituzionali assumono un ruolo sempre più centrale. Tutte cose importanti e preziose, ma che sono altra cosa dall’idea gramsciana e leninista del partito comunista e rivoluzionario, che prima di tutto si organizza, anche con piccoli nuclei di quadri, nei luoghi di lavoro, dove c’è il conflitto di classe. E che lì si prepara a diventare un domani classe dirigente (ecco il senso dell’esperienza dell’Ordine Nuovo di Gramsci): dirigente anche della fabbrica, della produzione, in un processo di costruzione del socialismo.

In questa trasformazione, che in parte modifica le forme del suo radicamento sociale, il PCI imbocca una nuova strada. E questa dinamica lo differenzia sempre di più dall’esperienza di altri partiti comunisti dell’Europa occidentale, come ad esempio il partito comunista portoghese, il partito comunista greco e, fino a una certa fase, anche il partito comunista francese. Anche sugli effetti di lungo periodo di questa differenziazione permangono interpretazioni diverse: tra chi ritiene che l’esperienza del PCI negli anni ’60-’70, che lo porterà a diventare il più grande PC del mondo capitalistico in termini di voti e di iscritti, lo differenzi in positivo rispetto all’esperienza di altri PC dell’Europa occidentale; e chi invece ritiene che già in quegli anni si manifestino tendenze e pulsioni che, nel tempo, ne mineranno al suo interno la natura di partito rivoluzionario e di classe.

Partito laico o ideologico?

Un altro fattore che, secondo alcuni sicuramente contribuisce alla mutazione del PCI, è l’idea di partito “laico” e non “ideologico”, in cui si attenua il ruolo di una teoria rivoluzionaria, e quindi del dibattito e del confronto sul terreno teorico, e della conseguente formazione dei quadri… Questa rottura con l’ideologia (non nel senso di falsa coscienza, ma di teoria generale e concezione complessiva del mondo: entrambi i significati sono presenti in Marx, mentre Lenin e Gramsci pongono l’accento, in positivo, sul secondo), questa rottura con l’idea che un partito deve avere delle fondamenta teoriche solide, sia pure nell’ambito di un confronto e di una dialettica, questa idea che l’unità ideologica del partito non è un bene o un valore da perseguire, si rivela, secondo alcuni, componente essenziale del processo di snaturamento e mutazione dei partiti comunisti che ne assumono i presupposti. Mentre secondo altri la scelta del partito laico, a cui si aderisce essenzialmente sulla base di un programma, va rivendicata come attuale e pertinente. E la riflessione ed elaborazione teorica va ricondotta essenzialmente al ruolo degli intellettuali marxisti, dentro e fuori il partito, non alla funzione del partito come tale.

Crisi e auto-dissoluzione del PCI: tenere aperta la riflessione storica

La segreteria di Berlinguer

Dal 1969 al 1984 la direzione del PCI è segnata dalla segreteria di Berlinguer. Permangono, sulle dinamiche di questa fase, interpretazioni diverse tra i comunisti, ed anche questo va assunto come un tema di ricostruzione storica da tenere aperto, senza rimuoverlo.

Si tratta di un dibattito, quello sulla figura e sul ruolo di Berlinguer, che è destinato a rimanere aperto per molto tempo, anche tra i comunisti; e su cui è bene che continuino a confrontarsi con franchezza punti di vista tra loro anche assai diversi. 

Sono gli anni che portano il PCI, alla metà degli anni ’70, al 35%, a sfiorare il consenso elettorale della Democrazia cristiana. Ma il dato elettorale non è tutto, perché è proprio all’indomani di questi grandi successi elettorali che si determina, soprattutto dopo la morte di Berlinguer, una accelerazione della mutazione interna che approderà poi alla Bolognina.

È significativo che personalità al di sopra di ogni sospetto di filo-comunismo, già allora, dimostrino di averne consapevolezza. C’è una dichiarazione di Ronald Reagan, dimenticata e apparsa all’epoca ai più quasi incomprensibile, che dice: tra i partiti comunisti dell’Europa occidentale, il PCI  è il più “debole”. E Aldo Moro – che pure pagherà a caro prezzo il suo tentativo di coinvolgere in qualche modo il PCI nella direzione politica del Paese – all’indomani dei grandi successi elettorali del PCI del ’75 e del ’76, dice (certo non pubblicamente, ma in conversazioni private): questi successi possono anche rappresentare l’inizio della fine del PCI come partito comunista, perché favoriscono all’interno del PCI un peso crescente delle classi medie, e ciò determina  una contraddizione da cui il PCI potrebbe non riuscire più ad uscire: perché se vuole fare marcia indietro, nel senso di recuperare una prospettiva anti-sistemica, dilapiderà gran parte del successo elettorale che ha ottenuto. E se vuole conservare tale consenso e andare avanti, sarà costretto ad accentuare gli elementi di mutazione in senso socialdemocratico, creando così contraddizioni di natura diversa con i settori sociali e politici del partito più rivoluzionari e classisti.

Compromesso storico e unità nazionale

Vi è chi ritiene che in questi anni, soprattutto nella seconda fase della segreteria di Berlinguer, si determini un’accelerazione della mutazione genetica del partito. E che essa sarebbe stata favorita dalla politica di unità nazionale, che peraltro non è l’equivalente del compromesso storico. Perché una cosa è l’idea del compromesso storico, esposta dopo il golpe fascista in Cile, dove Berlinguer dice che per far fronte alla reazione, quando i comunisti avanzano, ci vuole una politica di alleanze larghe, che isoli le forze più reazionarie e fasciste. E questa è, in sé, una riflessione di tipo leninista. Altro è la politica di unità nazionale, che è la traduzione di questa strategia in una tattica che in realtà porta a un’integrazione con le compatibilità di sistema che il PCI pagherà a durissimo prezzo, soprattutto con quella politica economica dei sacrifici nei confronti dei lavoratori dalla quale il PCI uscirà con una netta flessione di consenso che non sarà più recuperata.

Altri invece pongono l’accento sul fatto che, negli ultimi anni della sua segreteria, dopo la crisi della politica di unità nazionale, Berlinguer avrebbe corretto le fondamenta strategiche di quella linea, recuperando in larga misura una collocazione anti-sistemica del partito. E che dopo la sua morte quella correzione sarebbe stata via via abbandonata. Anche qui c’è materia su cui riflettere.

Eurocomunismo e socialdemocrazia

Altra questione che rimane oggetto di differenti interpretazioni è quella del rapporto con l’Unione Europea e con la socialdemocrazia.

Berlinguer spinge avanti l’integrazione del PCI nell’Unione Europea, che fino a quel momento era contestata come componente organica del blocco imperialista; e con l’eurocomunismo si determina una crescente integrazione nella sinistra europea socialdemocratica. Si tratta di una presa d’atto della realtà (l’Unione europea come terreno ineludibile di confronto e di lotta) e di una tattica volta a stabilire con le socialdemocrazie più avanzate una convergenza sul terreno della pace e delle politiche sociali, oppure – come evidentemente avverrà dopo la morte di Berlinguer – di una più organica integrazione ideologica e strategica con la socialdemocrazia europea?

L’ombrello della NATO

Alla vigilia delle elezioni del ’76 è clamorosa l’intervista a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera, dove Berlinguer dice: non poniamo più in discussione la questione della NATO perché non vogliamo rompere l’equilibrio tra i blocchi, perché la rottura dell’equilibrio compromette il processo di distensione. Ma, ben più pesante di questo, Berlinguer dirà: io mi sento più tranquillo da questa parte. Cioè, l’ombrello della NATO, rispetto a quello del Patto di Varsavia, mi dà un margine di manovra maggiore per poter praticare una mia esperienza originale di transizione al socialismo. Enormi sono le implicazioni di un giudizio di questa natura. E non perché ci sfugga la consapevolezza che il Patto di Varsavia determinasse una forte limitazione della sovranità dei Paesi dell’Est e dei rispettivi partiti comunisti; ma da qui a trarre la conclusione che sotto l’ombrello della NATO vi fossero condizioni più favorevoli per la costruzione di una via originale verso il socialismo, il passo è lungo…

Sta di fatto che, dopo l’assassinio di Aldo Moro (riconducibile alla sua linea di dialogo col PCI) e dopo la morte di Berlinguer, il PCI – che pure si era opposto con forza all’installazione degli euromissili (si pensi al ruolo e alla vicenda di Pio Latorre) e aveva assunto una posizione ferma sulla crisi di Sigonella – attenuerà via via il suo antagonismo nei confronti dell’appartenenza dell’Italia alla NATO e della stessa presenza di basi militari statunitensi sul territorio italiano, dotate di armi nucleari e di uno status di extra-territorialità, esterne allo stesso sistema NATO, quindi senza alcun tipo di coinvolgimento – per quanto fragile e formale – da parte delle istituzioni italiane.

L’esaurimento della spinta propulsiva

Vi è poi lo strappo dall’Unione sovietica, dal movimento comunista internazionale, che porterà Berlinguer alla famosa formulazione sull’esaurimento della spinta propulsiva.

Vi sono diverse formulazioni di questa storica frase di Berlinguer, ognuna delle quali ha un significato diverso. Ma la più impegnativa (e forse anche la meno ricordata) è quella in cui  Berlinguer sostiene che siamo entrati in una terza fase dello sviluppo del movimento operaio rivoluzionario mondiale: dove la seconda fase era quella imperniata sul campo socialista e sull’Unione sovietica, mentre questa terza fase vedrà come soggetto rivoluzionario fondamentale e trainante (“epicentro” del processo rivoluzionario mondiale) il movimento operaio dell’Europa occidentale.

Gli eventi degli anni successivi alla morte di Berlinguer, mentre confermeranno la crisi del sistema sovietico, si incaricheranno di smentire in modo evidente la seconda parte di tale assunto.

Ripresa di una linea di lotta

Per quanto differenziata e controversa, anche tra i comunisti, rimanga l’analisi sulla segreteria di Enrico Berlinguer, va ricordato comunque che egli avrà il coraggio, contrastando la destra interna, di rompere con la politica di unità nazionale quando vedrà che quella linea sta producendo un crescente malcontento negli strati operai e popolari, e di determinare un ritorno a una linea di lotta e di opposizione che ha come momenti emblematici il sostegno alla lotta dei lavoratori della Fiat (“se voi occupate la Fiat il PCI vi sosterrà”), la scelta del  referendum contro il taglio del punto della scala mobile voluto da Craxi (dove Berlinguer contrasta apertamente le posizioni di Luciano Lama e di tutta la destra “migliorista”); il coraggio e la determinazione di reagire al craxismo, come punta avanzata di un anticomunismo di tipo nuovo, che nasce nell’ambito del partito socialista italiano. Tanto è vero che un giornale come la Repubblica, sorto alla metà degli anni ’70 proprio per incoraggiare la socialdemocratizzazione del PCI, condurrà in quegli anni una polemica contro questo Berlinguer che torna alla lotta, accusandolo di operare una “francesizzazione” del PCI, una “regressione” politico-ideologica del PCI verso le posizioni del PCF di Georges Marchais, additato allora da Eugenio Scalfari come simbolo negativo di una “ortodossia” da cui prendere nettamente le distanze.

La “questione morale”

Uno degli aspetti più significativi della segreteria di Berlinguer è rappresentato dall’intuizione della “questione morale” come grande questione politica.

A cavallo tra il 1979 e l’ ’81, Berlinguer intuì, soprattutto a seguito del fallimento della politica di unità nazionale con la Dc, che l’intreccio tra politica, economia, istituzioni e – spesso – malaffare avrebbe rappresentato uno dei fattori più potenti e negativi della società italiana e avrebbe travolto tutto il sistema politico, anche a sinistra.

Il ragionamento era semplice e profetico. Se non si fosse spezzato il vincolo perverso della “immoralità” diffusa nella politica (non necessariamente fatti penalmente rilevanti, anche semplici intrusioni dei partiti nell’economia e, quindi, nella vita dei cittadini), ciò avrebbe screditato i partiti – tutti i partiti, anche quelli non responsabili, o certo molto meno responsabili, tra i quali il Pci – agli occhi dell’opinione pubblica, il che avrebbe a sua volta minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni tout court. Ma la sfiducia nella Repubblica in quanto tale e nel sistema dei partiti di massa che allora la reggeva avrebbe portato ad un crollo di credibilità – a livello di massa – verso lo Stato. In definitiva, scriveva Berlinguer, sarebbe rimasta in Italia una sola autorità morale: la Chiesa cattolica.

Quando Berlinguer ragionava così, eravamo ben lontani da “tangentopoli” e dall’esplosione dei partiti di massa a cavallo tra 1991 e 1994. Ma già si avvertivano scandali e scricchiolii del sistema. Il segretario del Pci aveva la vista lunga. Ma anche questa sua giusta visione prospettica fu mal interpretata nel partito, che la virò, in alcuni casi, in giustizialismo fine a se stesso o la derubricò, negativamente, a una torsione moralistica, priva di spessore politico.

Viceversa, il tema della questione morale, del modo in cui si amministra la cosa pubblica, della finalità stessa per cui si opera nella lotta politica, è tema squisitamente di classe ed esso va dunque ripreso e riaggiornato, oggi più che mai, nello sfascio morale del Paese, nella costruzione di una soggettività che si definisce comunista.

La discussione degli ultimi anni 

Negli ultimi anni della segreteria di Berlinguer la direzione del PCI è sempre più divisa sulle prospettive. E la discussione vera, non quella che viene enunciata pubblicamente, ha poco a che vedere con la crisi sovietica.

La destra interna, quella che prenderà il sopravvento dopo la morte di Berlinguer, dice: qui è ora di finirla, bisogna fare un bilancio. Dopo oltre mezzo secolo che il nostro partito è sorto non solo non abbiamo preso il potere, ma non siamo riusciti nemmeno ad andare stabilmente al governo. Abbiamo provato con Moro, e siamo stati ricacciati indietro: finché esisteranno i blocchi e l’attuale equilibrio tra le due maggiori potenze, finché l’Europa sarà divisa in due, non c’è niente da fare se non operiamo una scelta di campo occidentale. Un partito non può stare cinquant’anni all’opposizione, e per aprirci una strada verso il governo del Paese, insieme ai socialisti, insieme a un settore della Democrazia cristiana, dobbiamo cambiare noi, dobbiamo cambiare pelle, dobbiamo rompere con la nostra identità comunista, anticapitalista, dobbiamo operare una scelta di campo. E come hanno fatto le socialdemocrazie, dobbiamo collocarci come componente di sinistra all’interno dello schieramento borghese e atlantico. Dobbiamo farlo in modo da portarci dietro il grosso della nostra gente, della nostra base, perché se poniamo le cose apertamente, in questo modo, non ci seguiranno. Dobbiamo trovare il modo.

Questo sarà il problema che poi “risolverà” Occhetto, cogliendo al volo l’emozione e lo smarrimento che si determina a livello popolare per il crollo del Muro di Berlino: approfitterà di quel momento, di quella situazione eccezionale per realizzare qualcosa che è già in gestazione in una parte della direzione del PCI, ancora vivo Berlinguer, e che Berlinguer contrastava. È noto che in una direzione del PCI Berlinguer dirà più o meno testualmente: io ho capito molto bene che c’è qui una parte di voi che vuole trasformare il PCI in un partito socialdemocratico; sappiate che io a questa cosa non ci sto e io non sarò mai il segretario di un tale partito. Se voi volete fare una cosa del genere, la farete senza di me e contro di me…

La Bolognina

Un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo

Con la segreteria di Occhetto la mutazione giunge a compimento. Quello che manca è il pretesto, l’occasione, in un partito in cui c’è un forte senso dell’identità da parte di iscritti e militanti (magari anche solo a livello simbolico: il nome… il simbolo…) per giustificare una svolta drastica. E il pretesto sarà la caduta del Muro di Berlino.

Ma “un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo”. E il problema di una riflessione approfondita sulla mutazione genetica molecolare del PCI, fino a Occhetto, è quello di comprendere quali possano essere stati, nel tempo, i diversi elementi che in vario modo possono avere contribuito a tale mutazione, che infine approda nell’autoscioglimento.

Diverse interpretazioni

Molte sono, e diverse, le interpretazioni e le sottolineature a tale proposito: vi è chi pone l’accento sulla emarginazione della vecchia guardia partigiana, quella più legata ad una concezione leninista e rivoluzionaria del partito e il venir meno quantomeno del suo ruolo di contrappeso alle tendenze più apertamente riformiste; chi invece sottolinea il ruolo svolto da una  nuova leva di quadri venuta alla ribalta dopo la morte di Togliatti; chi evidenzia la politica dei quadri della nuova generazione promossi a ruoli dirigenti negli anni Settanta e che hanno poi prevalso dopo la morte di Berlinguer; chi la de-ideologizzazione del partito e del processo formativo dei quadri (la cosiddetta laicità); chi l’allontanamento e poi la rottura con il movimento comunista internazionale; chi la crescente integrazione nella sinistra europea socialdemocratica; chi il mutamento nella composizione di classe degli organismi dirigenti e degli apparati.

Già nel 1980 i quadri di origine proletaria, operai e salariati agricoli, che rappresentano il 45,6% degli iscritti, sono solo il 17,5% dei membri dei comitati regionali, e ancor meno se si considerano il Comitato centrale e i gruppi parlamentari. Mentre la piccola e media borghesia, artigiani, piccoli imprenditori, intellettuali di origine non proletaria, liberi professionisti, commercianti, coltivatori diretti e mezzadri, che rappresentano il 24,9% degli iscritti al partito, sono il 78,7% nei comitati regionali.

De-ideologizzazione e de-proletarizzazione

La combinazione de-ideologizzazione / de-proletarizzazione è devastante, ma essa si forma e si consolida nel corso di decenni, non è un processo contingente, di breve periodo. E dopo il 1975, anche in conseguenza del successo nelle elezioni amministrative, c’è un drastico trasferimento di quadri – i migliori, i più preparati, i più capaci – negli enti locali, per far fronte all’amministrazione delle città, delle province; uno svuotamento del ruolo di questi quadri sperimentati nel partito e un ingresso vasto e tumultuoso di piccola e media borghesia nelle strutture di partito, nelle sezioni, che non è di per sé un fatto negativo, ma che diventa devastante in quanto si accompagna alla de-proletarizzazione nella composizione degli organismi e alla de-ideologizzazione del clima culturale interno al partito. Sono proprio queste classi medie progressiste, orientate a sinistra, assieme ai loro intellettuali di riferimento, che portano nel partito le ideologie più eclettiche e stravaganti senza trovare un adeguato contrappeso, una massa critica sufficiente di anticorpi.

Tutto ciò si combina con la graduale scomparsa delle cellule sui luoghi di lavoro, il primato delle sezioni territoriali e della dimensione elettorale, propagandistica, istituzionale della politica; l’assenza di una formazione politico-ideologica dei quadri e delle nuove generazioni”.

NOTE

(1) Cfr. “Alle origini della Bolognina e della mutazione genetica del PCI”