di Flavio Arzarello, coordinatore nazionale della FGCI | da flavioarzarello.wordpress.com
Ho aspettato per scrivere una riflessione compiuta. Ora mi sembra di avere qualche elemento in più. La deflagrazione dei gruppi parlamentari del Pd, che in sequenza hanno impallinato Marini e poi Prodi, le dimissioni di Bersani e della segreteria, la rielezione di Napolitano e l’incarico a Enrico Letta ci fanno capire qualcosa. Si farà un governo, e non sarà del cambiamento, ma un governissimo del Presidente. Certamente la legislatura non sarà lampo come si vagheggiava sino a qualche giorno fa. Rodotà avrebbe potuto essere il Presidente dell’Italia del coraggio, quello che meglio avrebbe interpretato la domanda di cambiamento emersa dalle urne. Il Partito democratico non ha avuto – neanche una parte di esso, esclusi pochi singoli – il coraggio, o forse la forza, di rompere gli schemi. La discussione sul Presidente della Repubblica e sul Governo – si è detto – sono separate e non vanno intrecciate. Giusto. Però quando una larga parte del gruppo democratico si è opposto apertamente alla proposta di Franco Marini la motivazione era che questi avrebbe aperto la strada alle larghe intese.
Quindi non è intrecciata, ma è conseguente. Rodotà e Prodi avrebbero incarnato – con accenti e sensibilità naturalmente diverse – il tentativo di un “Governo del cambiamento”. Marini e Napolitano – con altrettante differenze – il tentativo di governissimo.
Che lo si voglia o no siamo di fronte alla legislatura costituente della terza Repubblica, simile a quella tra il 1992 e il 1994. La legislatura più breve della storia che, però, cambiò tutto. Che Italia avremo al termine della XVII Legislatura è la prima domanda. Che fine farà la sinistra è la seconda.
Il Partito democratico è a rischio implosione e paga un’ambiguità di progetto, stretto tra l’ipotesi socialdemocratica che fino ad oggi era incarnata da Bersani e i giovani turchi e l’impostazione neoblairista di Renzi. Non possiamo prevedere quale sarà l’esito della discussione congressuale del Pd. I presupposti dalla direzione di ieri – purtroppo – non sono buoni. 7 contrari e 14 astenuti sull’ipotesi governissimo. 21 in tutto, anche con posizioni diverse tra di loro, da Rosi Bindi a Matteo Orfini per intenderci. Vedremo nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore, che piega prenderà il dibatitto.
Sappiamo, tuttavia, che alla sua sinistra Sel ha deciso di aprire un processo costituente di una “sinistra nuova”. Cofferati, Landini e forse Barca sono disponibili. E’ presto per esprimere giudizi definitivi. Due le date da segnare sul calendario: il 30 aprile a Bologna, dove Barca e Landini parleranno a un convegno e l’assemblea indetta da Sel per l’11 maggio. Vorrei provare a dare un contributo alla discussione.
Questo processo avrà senso se sarà realmente inclusivo, non di sigle o siglette, non di apparati stanchi, ma di donne e uomini, ragazze e ragazzi, in carne ed ossa. Se ricostruirà, in altre parole, la connessione sentimentale tra popolo del (centro)sinistra e la politica. Avrà senso se non sarà il restyling di Sel, ma sarà il frutto di una discussione profonda sul senso della sinistra in questo Paese. Di tutta la sinistra, di chi ne condivide i valori di fondo: uguaglianza, giustizia sociale, antifascismo e cultura dei diritti.
L’obiettivo deve essere mettere in campo – senza formule precostituite – un nuovo pensiero forte. Non l’ennesima operazione pasticciata. La stragrande maggioranza delle forze politiche degli ultimi 20 anni sono nate da esigenze elettoralistiche o da scissioni parlamentari. La seconda repubblica consentiva a partiti piccoli di esistere e di avere una funzione anche molto importante nell’ambito di coalizioni molto vaste. Quel tempo è concluso. Questa volta dobbiamo sforzarci di scrivere un’altra storia. Nuova. Un pensiero forte significa costruire gli strumenti per leggere i processi in atto in Italia, in Europa e nel mondo con lenti nuove e non con slogan poco comprensibili e ancor meno appetibili. L’Europa è il campo di battaglia. Pensare al nostro continente tra 10 o 20 anni significa praticare terreni di incontro tra la parte migliore della cultura marxista e la ricerca neokeynesiana, fare dell’Europa il luogo della piena democrazia e non della sorda tecnocrazia: riprendere il senso delle nostre parole, a partire da ‘socialismo’, una parola che è stata stuprata prima in Italia dai craxiani degli anni ’80 e poi in Europa da liberisti temperati degli anni ’90.
E’ sempre più urgente dare risposte ai giovani precari, decostruendo la contrapposizione giovani/vecchi, garantiti/non garantiti che ha unicamente reso più precari i garantiti e più disperati i precari. Immaginare un nuovo welfare, difendendo e facendo evolvere (e non involvere) il modello europeo, frutto del compromesso novecentesco. Il contrario della logica del ‘Whatever it takes’ di Mario Draghi e della Bce. Riappropriarci – infine – della parola ‘pubblico’, che in questi anni è suonata indicibile per una parte di sinistra riformista. E liberarci dalla paura del confronto tra diversi, che ha impaurito un’altra parte di sinistra.
Superare – in altri termini – la ‘teoria delle due sinistre’, che tanti lutti addusse alla sinistra (tutta). Il tema del governo non può più essere affrontato con superficialità. Profilo di governo significa essere disponibili ad assumersi le proprie responsabilità – quando ve ne sono le possibilità – per cambiare il Paese. E significa – ad esempio – fare un’opposizione dura al governissimo nell’interesse delle classi subalterne del Paese ma non scommettendo sullo sfascio e sul default dell’Italia.
Siamo all’alba di una nuova era, in cui nessuno può più sbandierare le proprie certezze o riunchiudersi in fortini. Possiamo però almeno imparare dai nostri errori: questa débacle del centrosinistra e della sinistra è anche il fallimento di una, o forse di due, generazioni di dirigenti.
Qualunque processo dovrà vedere l’impegno in prima linea di donne e uomini che non portino i segni di questi 20 anni di divisioni e sconfitte che tutti abbiamo alle spalle.
Per salvare la nostra cultura politica, quella dei comunisti italiani, occorre rimettere tutto in discussione. Altrimenti sarà una fine triste, lenta ma inesorabile. Qualcuno poi potrà ancora dire che esistiamo. Ma solo per noi.