di Spartaco A. Puttini per Marx21.it
Sergio Ricaldone faceva parte della generazione vissuta nell’epoca in cui è stato forgiato l’acciaio; di quella generazione che aveva capito che non vi era alternativa alla Resistenza, della generazione dei costruttori.
E’ una generazione molto distante dalla mia, anagraficamente prima di tutto.
Non sono tra coloro che hanno conosciuto Sergio all’inizio del suo impegno militante, con il padre nella clandestinità. Non ho vissuto con lui né i momenti più eroici, nella lotta di Liberazione, né quelli più pericolosi e nemmeno quelli che probabilmente gli hanno donato le maggiori soddisfazioni, umane e politiche, quando, nei primi anni Cinquanta, fu alla guida della Federazione milanese della FGCI.
Non mi riprometto di raccontarne la storia. Lui stesso era molto parco. Di volta in volta, nel corso dei nostri numerosi incontri, lasciava emergere episodi, particolari, con parsimonia e senza dare loro particolare peso. Aveva la visione propria di quelle persone che, non necessariamente sotto i riflettori, hanno contribuito a scrivere capitoli rilevanti della storia e che ritengono forse il proprio vissuto politico come un semplice elemento di un quadro più complessivo.
Ho conosciuto Sergio durante la militanza in Rifondazione, nella Commissione Politica Internazionale della Federazione di Milano, nel corso del tentativo, generoso e sfortunato, di ricostruire qualcosa anche nel nostro paese dopo che i venti della reazione avevano spazzato via le casematte che il movimento operaio e comunista del Novecento era riuscito a conquistare, battaglia dopo battaglia. Sergio aveva contribuito a conquistarle, quelle casematte. La generazione successiva alla sua, a colpi di svolte e di abiure, ne aveva minato le basi, onde farle saltare meglio. La mia le aveva semplicemente viste cadere e poteva misurare empiricamente l’effetto del disastroso disarmo (prima ideologico che materiale).
Sergio aveva il dono di spiegare in modo semplice questioni complesse senza tuttavia banalizzarle, ma al contrario dando il senso della complessità dei fenomeni di cui parlava o scriveva, un dono raro, che solo i grandi hanno.
Non esagero a sostenere che, nel clima apparentemente radicale e in realtà molto conformistico di Rifondazione, parlare con lui dava la sensazione di una boccata di aria fresca. Il suo interesse per le questioni internazionali, e le sue competenze in materia, spiccavano nettamente in un partito in cui l’Europarlamento rappresentava una sorta di colonne d’Ercole da non attraversare, pena l’incontro con misteriosi ed incomprensibili mostri mitologici. Un partito nel quale si coltivava un’alternativa non meglio precisata, ma sempre all’interno degli irremovibili paletti imposti dal nemico di classe, allora vincente.
Nel Prc non si è mai andati lontano nella comprensione e nello studio delle dinamiche internazionali, un po’ per il persistere di una sorta di clima emergenziale, che faceva delle elezioni il momento quasi esclusivo dell’iniziativa politica, un po’ per l’incapacità e lo scarso livello di cultura politica della gran parte dei gruppi dirigenti, un po’ anche per conformismo; quel conformismo tipico di chi è “contro” ma che alla fine, continuando a leggere la stampa proveniente dall’altra parte della barricata, finisce con l’assimilare il veleno della propaganda avversaria.
La propaganda avversaria parlava di “fine della storia”, e il limite maggiore di chi era rimasto a tentare di ricostruire una presenza comunista organizzata fu in fondo quello di voltare le spalle alla propria storia, senza analizzarla mai concretamente ma limitandosi a imbarazzate prese di distanza, quando non cedendo alla tentazione della furia iconoclasta. Tutto veniva dato per finito, e quello che era rimasto in piedi veniva maledetto. Lo svilupparsi di lotte e di avanzamenti altrove, dall’ascesa della Cina alle vittorie della resistenza libanese, all’affacciarsi del fenomeno Chavez, che poi avrebbe incendiato tutta l’America latina (pur compiuti in condizioni difficili e attraverso contraddizioni non banali) veniva bellamente ignorato, quando non denigrato.
La sinistra sinistrata si è ridotta a questo.
Sono questi limiti che hanno impedito ed impediscono di ricostruire qualcosa.
Sergio, invece, faceva parte di quella schiera di compagni che misurava la realtà, poneva questioni, non si stancava di studiare, di ricercare, guardando anche all’esperienza di quei movimenti comunisti e di liberazione che altrove, oltre le colonne d’Ercole, avevano strappato in passato vittorie egregie e che continuavano sulla loro strada in Africa, America Latina, Asia, Europa orientale.
Presto lo svolgersi degli eventi, con la crisi del tentativo di egemonia americano e con il palesarsi delle spinte alla costruzione di un mondo multipolare, cambiarono il quadro in modo sempre più palpabile. Numerosi sono gli articoli che Sergio ha dedicato a questioni legate a questi passaggi storici. Tutte rasoiate ai pigri intellettualoidi che pappagallescamente sono rimasti, loro sì, sepolti sotto il muro di Berlino, e il cui cervello è rimasto ibernato a 20 anni fa.
Di questo con Sergio parlavamo spesso, del fatto che si era aperto un nuovo ciclo sistemico a livello internazionale, il cui esito non era scontato, ma in cui il dato certo era la riapertura della partita per i movimenti di liberazione, per le forze antimperialiste; riapertura che avrebbe avuto, presto o tardi, in un modo o nell’altro, ricadute anche qui, in questa Italia sempre più piccola, all’interno di un’Europa essa stessa marginalizzata.
Ora, di fronte alla crisi siriana, ad esempio, è chiaro che, in un certo senso, il mondo è ancora diviso in due blocchi. Ma che questa volta è la loro metà ad essere quella più piccola.
Guardare, aiutato da doti non comuni, alla dimensione complessivamente strategica delle dinamiche internazionali, le cui ricadute sono sempre significative per lo svilupparsi della lotta di classe, era una caratteristica di fondo del metodo di analisi e di lavoro politico di Sergio Ricaldone. Caratteristica che dovrebbe essere propria di qualsiasi quadro e dirigente politico (ancor più se comunista) e che invece è, ahimè, merce maledettamente rara, come hanno dimostrato e dimostrano troppo spesso anche i dibattiti seguiti a recenti sconfitte elettorali e tutti appiattiti sulla tattica, privi di qualsiasi respiro strategico.
Provenendo da studi di storia delle relazioni internazionali in ambito accademico, guardavo l’immagine che del mondo veniva data dal circuito mediatico, senza alcuna seria differenza sostanziale (dal Giornale a Repubblica, dal Manifesto a Liberazione), e i conti con quello che vedevo io non tornavano mai. “Eppur si muove”, mi dicevo, e trovavo in Sergio (e più tardi in altri compagni che grazie a Sergio ho conosciuto) delle felici conferme. Conferme che servirono da base ad una battaglia sfortunata, quella contro la degenerazione del Prc, una degenerazione in gran parte insita nella suo stesso momento fondativo, ma questa è un’altra storia.
Più tardi cominciammo a collaborare e Sergio era la prima persona alla quale passavo i miei testi o quella che mi esortava a scriverli. Molte volte ci siamo confrontati, sui temi più diversi, ma quelle volte resteranno purtroppo sempre troppo poche. Ogni volta si usciva arricchiti dall’incontro con Sergio.
Il ricordo di Sergio come attento conoscitore della realtà internazionale e come autore di articoli preziosi per le riviste con le quali ha collaborato nell’ultima parte della sua vita militante (principalmente per “L’Ernesto”, per “Marx XXI” e per “Gramsci Oggi”) non deve indurre coloro che non hanno avuto la ventura di conoscerlo a credere che Sergio fosse un teorico astratto, tutt’altro!
Purtroppo ultimamente è un po’ in voga nell’opinione pubblica e presso le organizzazioni di sinistra l’idea che vi sia una naturale dicotomia tra teoria e pratica mentre esse devono essere in stretta simbiosi. L’analisi teorica è funzionale al primo compito: conoscere per capire e capire per orientarsi. Senza questo passaggio si è solo creta molle sotto il fuoco dei media, posizionati dall’altra parte della barricata. L’analisi e l’acquisizione del metodo necessario sono funzionali ad impostare nel migliore dei modi l’attività di militanza più pratica, l’affinano e la rendono più efficace.
Per tenere assieme queste dimensioni occorrono doti non comuni e avere una forte scuola. Queste doti Sergio le possedeva e veniva da una forte scuola, quella del Pci clandestino, il Pci dei grandi guerrieri leninisti, come aveva ricordato recentemente in uno dei suoi ultimi scritti.
Lo dimostra la stessa iniziativa di Sergio, alcuni suoi interventi negli anni lontani nei quali faceva parte del Comitato Centrale della FGCI e ne era il massimo dirigente a Milano.
Le stesse parole che Sergio pronunciò al XIV Congresso nazionale dell’organizzazione giovanile sono concrete, richiamano le difficoltà materiali della vita quotidiana dei lavoratori e quelle del lavoro politico in un contesto in cui vi è un avversario agguerrito ed armato fino ai denti da pervasivi mezzi di comunicazione e che non è intenzionato a lasciare spazio all’organizzazione delle forze del risveglio:
“Tra [i] giovani lavorano molto le organizzazioni avversarie e la loro politica consiste nel fare di questi giovani delle masse attive in difesa della politica governativa e padronale ma anche nel neutralizzare queste masse, nell’educarle alla scuola della rassegnazione, della rinuncia, dell’individualismo e nel renderli indifferenti alla vita politica.
Sta a noi indicare a questi giovani che il solo modo di uscire da queste condizioni […] è quello di organizzarsi, unirsi e condurre una lotta instancabile. Sta a noi indicare a questi giovani come tutto ciò che si è conquistato […] non è caduto dal cielo ma [è stato] conquistato attraverso lunghe e dure lotte, attraverso l’unità di tutta la gioventù”.
Spesso si dice che il tale o il talaltro lasciano un vuoto. Nel caso di Sergio è maledettamente vero. Mao diceva che ci sono uomini la cui vita è più leggera di una piuma e altre che sono pesanti come le montagne. A queste ultime era paragonabile quella di Sergio Ricaldone.
L’ultima volta che Sergio ha potuto parlare ad un incontro pubblico è stato il 7 novembre 2012, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Il modo migliore di ricordarlo è forse riportare la battuta conclusiva del suo intervento, una sorta di testamento politico:
“Il momento è molto difficile, e noi ci troviamo caricati di una enorme responsabilità : quella di ricostruire un partito comunista che restituisca la fiducia dei salariati nella politica, nella lotta (di classe), nel cambiamento.
Il PCI di Gramsci, Togliatti, Longo, Secchia ha dato molto al mondo. Le opere di Gramsci le ho trovate tradotte ovunque : in Egitto e in tutto il mondo arabo, in Vietnam, persino in Nepal. Ora è arrivato il momento di ricambiare l’interesse e di osservare con attenzione le esperienze dei partiti comunisti il cui peso politico cresce ogni giorno in ogni angolo del pianeta : in Brasile, India, Sudafrica, ma anche in Europa, in Ucraina, Russia, Belgio, Repubblica Ceca, Cipro, Portogallo, Grecia.
A tutti coloro che ci considerano dei cascami residuali di una ideologia seppellita sotto le macerie del ‘900 e ci chiedono di rinnegare la nostra storia ricordo un passaggio del Don Chisciotte di Cervantes che provo a riassumere a memoria : mentre cavalcano nella notte Don Chisciotte e Sancho Panza sono inseguiti e molestati dal latrare dei cani. Sancho Panza vorrebbe fermarsi ed aspettare che i cani si calmino ma Don Chisciotte gli risponde : lasciamoli latrare e continuiamo a cavalcare nella notte. Anche noi dovremmo occuparci meno dei cani che abbaiano e continuare a cavalcare nella notte”.