Riflessioni sulla ricostruzione del partito comunista

In memoria di Salvatore d’Albergo [1]

di Giovanni Chiellini

Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dei comunisti in Italia

La ricostruzione del partito comunista, che l’Appello ritiene necessaria ed urgente, non può che muovere dal fallimento dell’esperienza della “rifondazione” comunista seguita alla fine del PCI e dal riconoscimento che l’opportunismo, col quale alla Bolognina si fece discendere dalla fine dell’URSS la fine del PCI, generò anche l’espediente di un partito finalizzato a non far nascere un nuovo partito comunista, rifiutandosi in tal modo il patrimonio ideale accumulato dal PCI attraverso l’esperienza di un settantennio di lotta politica, approdata all’altissima sintesi berlingueriana.

La costituzione del nuovo partito comunista fu quindi rinviata, andandosi in cerca di una identità culturale e programmatica, la definizione della quale era rimessa tutt’al più al confronto teorico comunque confinato nei diversi strumenti di comunicazione, incomunicanti quanto le diverse correnti di affiliazione (cossuttiani, ingraiani, exsocialisti, magriani, ecc. ecc.) dominanti all’interno dell’associazione, che del PRC fu il preludio [2].

È potuto cosi accadere che tali correnti, trapassate nel nuovo contenitore opportunisticamente non progettuale, anziché misurarsi sul terreno della lotta politica e sociale portando alla verifica della prassi le loro diverse posizioni, si siano scontrate e divise in funzione delle alleanze elettorali di governo – centrale, regionale e locale – con “sinistre” ancillari rispetto al PD, finendo per perdere radicamento sociale e per dilapidare anche l’originario alto residuo di consenso elettorale comunista. E tale propensione elettoralistica continua a dominare l’iniziativa dei frantumi comunisti, anche da ultimo polarizzati dal problema delle alleanze per le elezioni regionali, poi svoltesi il 31 maggio scorso, con esiti forse non estranei alla recente ripubblicazione (il manifesto 21.6.2015) dell’Appello e all’indizione dell’incontro “costituente” del prossimo 12 luglio.

Se quindi finalmente all’Appello si vuol dare seguito, di deve avvertire che la rinascita dell’opzione comunista e la ricostruzione di un partito “degno di tale nome” impone ormai lo sviluppo di una discussione per scelte programmatiche inequivocabili e modalità organizzative suscettibili sia di legare il partito ai lavoratori dipendenti ed ai ceti interessati ad un’alleanza con essi, sia di garantire una vita interna effettivamente democratica.

Il programma

Il programma comunista non può che muovere da un’esplicita collocazione nell’alveo teorico e pratico del PCI di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, a partire dalla costruzione del “partito nuovo” che fu prima protagonista dell’antifascismo militante nella clandestinità, nel carcere e all’estero e poi dell’intero processo costituente apertosi con la caduta del fascismo e la Resistenza, caratterizzato dal compromesso che portò alla formazione dei governi di unità nazionale, i cui capisaldi furono l’abrogazione del sistema corporativo, il suffragio universale e la scelta antimaggioritaria del principio proporzionale puro per l’elezione dell’Assemblea Costituente e dei rinati consigli degli enti locali, nonché la devoluzione al referendum popolare della questione istituzionale concernente la forma monarchica o repubblicana.

Si giunse così al rifiuto dei modelli del costituzionalismo liberal-democratico [3] ed alla scelta di una repubblica democratica fondata sul lavoro – e non sul censo o la proprietà terriera –, volta alla costruzione dell’uguaglianza, che ammette il diritto di sciopero, l’autonomia sindacale nonché il pluralismo dei partiti suscitato dal pluralismo sociale; cioè di una forma di stato di democrazia economico-sociale implicante una forma di governo, articolato in autonomie regionali e locali, indirizzato (e non meramente controllato) dal parlamento e dalle assemblee elettive, cui spetta il ruolo centrale in quanto rappresentative del popolo sovrano.

Si tratta di un programma transitorio – che Togliatti definì “democrazia progressiva” – di lotta politica democratica per il superamento degli assetti socio-economici-istituzionali del capitalismo, mediante l’introduzione di “elementi di socialismo” (dirà Berlinguer), ad iniziare dalla funzionalizzazione sociale della proprietà e dell’impresa e dall’apertura dei servizi pubblici alla “gestione sociale” [4].

Era tuttavia scontato che lo scontro prodottosi su questi principi in sede costituente, nel quale rimasero soccombenti le forze politiche espresse dai gruppi economici e sociali del capitalismo dominante, sarebbe continuato. E infatti il contrattacco ai principi innovativi della Carta del 1948 si è protratto, con fasi alterne segnate dalla capacità di resistenza del movimento operaio e democratico, fino alla fase presente nella quale su tutti i terreni – economico, sociale e politico – si configurano, dopo la morte di Berlinguer, arretramenti gravissimi dovuti alla mancanza di un’autonoma proposta comunista capace di aggregare e indirizzare le masse popolari nella lotta sociale e politica per difendere e insieme rilanciare la Costituzione e le riforme ottenute con la sua applicazione.

Né avrebbe potuto essere diversamente, con un movimento operaio e democratico ed in primo luogo il PCI occhettiano – poi ridottosi a PDS e PD – e la CGIL ormai sempre più confinati nel collaborazionismo delle politiche concertative, col risultato di rendere subalterne ed esposte al richiamo corporativo e localistico della destra leghista le masse dei lavoratori, che invece andavano chiamate alla lotta per la programmazione democratica, con la quale fronteggiare la crisi di sovrapproduzione che la classe dominante governa tutelando “spontaneamente” la massimizzazione del profitto e dell’interesse finanziario, a spese del salario e del debito pubblico.

Si aggiunga che tali politiche sono state il terreno favorevole ad arretramenti autoritari, perché ai conflitti intersindacali e alla frammentazione dalla quale nacquero COBAS e CUB, le “confederali” CGIL, CISL, UIL risposero arroccandosi nel loro potere di “aprire tavoli” di concertazione [5] e contrattazione riservati ai soli sindacati “più rappresentativi”, con una violazione “maggioritarista” del principio costituzionale del pluralismo sociale, posto esplicitamente in chiave proporzionale dell’art. 38 a presidio della democraticità – anticorporativa – dei processi che vedono coinvolte le forze sociali. (Pensa a ciò Landini quando auspica l’allargamento della rappresentanza?).

Ed il “maggioritarismo” tra le forze sociali è stato metabolizzato dalle masse popolari al punto di farle partecipi – spinte dal verbalismo subalterno di Occhetto su “riformismo forte” e “alternanza” – dell’indizione e del successo del referendum sulla legge elettorale che dal 1948 – fortificata dalla sconfitta della “legge truffa” del 1953 – garantiva la democraticità della forma di governo, secondo il modulo di una repubblica parlamentare e non presidenziale coerente con gli artt. 3, comma 2 e 49 Cost., fondata sul pluralismo politico realizzato e realizzabile solo attraverso la rappresentanza integralmente proporzionale e non maggioritaria dei partiti [6].

E a completare l’iperbole autoritaria dalla forma di governo, sopravviene il crescente “presidenzialismo” dei presidenti della Repubblica i quali, nell’instabilità trasformistica indotta dal bipolarismo pseudo-stabilizzatore, hanno dato a questa figura un ruolo governante a scapito della funzione centrale di indirizzo politico del Parlamento [7].

Quelli appena descritti sono gli esiti di uno scontro sociale e politico che vede soccombere il lavoratori dipendenti ed in generale i ceti popolari, privati dello stimolo di un programma comunista sperimentato ed aggiornato nei contenuti delle politiche delle pace e del disarmo, della produzione e del consumo, delle “qualità” cioè da assumere come prioritarie per indirizzare le lotte dei popoli e delle classi dominate verso una soluzione emancipativa della crisi.

Per uscire dall’incoscienza storico-teorica che ha sortito la frantumazione e l’inerzia dei comunisti, necessita oggi liberarsi da ogni residuo di opportunismo e riaprire il dibattito sulla figura e l’opera di Berlinguer, che costituisce il frutto più maturo della esperienza originale fondata sulla filosofia della prassi, avviata da Gramsci e continuata da Togliatti e Longo, dal congresso di Lione del 1926 ai “fronti popolari” del 1936, alla “svolta di Salerno” ed al “compromesso storico”.

Per questo bisogna in primo luogo rifiutare l’immagine sacralizzata di un Berlinguer moralizzatore della politica, come se la “questione morale”, da lui sollevata, fosse separabile dal “compromesso storico” o dalla “austerità” e non il suo originale arricchimento – con analisi e proposte miranti a cogliere il nuovo emergente dallo scontro e a fronteggiarlo – della tradizionale strategia del PCI “rottamata” alla Bolognina nel 1989.

È di tale strategia che va ripresa la sperimentazione e l’aggiornamento, avendo chiaro che essa è attuale non solo in rapporto alla situazione italiana, ma più in generale in rapporto alla crisi generale da cui i gruppi politico-finanziari del capitalismo mondiale, suscitando nuovi immani conflitti, pretendono di uscire indirizzando gli investimenti verso il lusso più sfrenato di ceti dominanti sempre più ristretti, la cui ricchezza – a differenza di quanto accadeva negli anni dei consumi di massa – non è più il benessere ideologicamente offerto quale esempio a cui tendere ai ceti dominati, ma ostentazione di potenza assoluta sui vinti.

E mentre tutto ciò mette sempre più a nudo la valenza ideologica del liberismo e del mercato, le forze sociali schiacciate e le forze politiche di opposizione non colgono l’occasione di indicare obbiettivi “austeri” sui quali rilanciare la lotta per una programmazione democratica [8] a livello italiano, europeo e mondiale.

In questo contesto è importantissima l’enciclica Laudato si’ che muovendo dalla catastrofe ecologica in corso rinnova l’appello ad “eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale” fatto nel 2009 da Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate, privata di risonanza dalle dissidenze curiali.

In proposito, notato come la Laudato si’ faccia risaltare l’arretramento complessivo dell’episcopato italiano, va sottolineata la necessità che, quale loro impegno prioritario, i comunisti – come già Togliatti nel 1963 e Berlinguer nel 1973 – si offrano al confronto ed all’incontro con i cattolici sensibili alle aperture di Francesco.

Il Partito e la sua vita interna.

Al di là della generica locuzione “forma partito”, che pretende di ricomprendere i partiti operai ed i partiti borghesi, va ricordato che solo dal 1848, con il Manifesto del partito comunista, si può parlare di partito politico, dovendosi prima di allora parlare di articolazione in fazioni politiche dei gruppi dirigenti delle sole classi dominanti, rimanendo esclusa la classe operaia, per motivi di sangue o di censo, dall’organizzazione statuale monoclasse. È per condurre la lotta politica contro e nel cuore di tale stato che viene fondato il partito comunista, per contrastare il quale la classe dominante – fin lì sempre rivestita dei simboli dello stato unico, sacrale interprete della volontà generale – è costretta a mostrare la propria “parzialità” fondando partiti politici non confrontabili con quelli del proletariato.

Nato ne “l’Italietta democratica” che scivolava verso il fascismo, il Partito comunista, quale soggetto rivoluzionario di un rivoluzionario programma di trasformazione in senso socialista della società e dello stato, è stato il principale soggetto politico della classe operaia che, nelle particolari condizioni dell’Italia, sotto la guida di Togliatti, nella lotta clandestina e poi aperta e militare contro il nazi-fascismo, operò per la costruzione di uno stato pluriclasse (tale è il modello statuale fondato sulla Costituzione del 1948) nel quale lottare democraticamente per le riforme di struttura.

In tale democrazia “progressiva” il PCI si è autotrasformato da partito di quadri in partito di massa organizzato capillarmente nei luoghi di lavoro – dove il lavoratore apprende e comprende il processo produttivo e matura una coscienza alternativa – e nei quartieri popolari, dove, facendosi “classe generale”, i lavoratori costruiscono l’egemonia culturale e politica per guidare le istituzioni democratiche in direzione di riforme che introducano elementi di socialismo.

Da qui si deve muovere per affrontare i problemi di una nuova organizzazione politica dei comunisti, consapevoli che la loro “diversità” – quella rivendicata e difesa fino all’ultimo da un Berlinguer divenuto consapevole che anche il PCI era ormai stato attaccato dal sistema corruttivo – è condizione di esistenza ed il suo contenuto è l’autonomia ideale e materiale dallo stato e dal sindacato, realizzabile nell’esercizio dell’autonomia statutaria che, nel quadro delle norme costituzionali, incontra il solo divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista [9].

Non serve quindi una legge sui partiti, da più parti invocata, che, in violazione dell’autonomia statutaria costituzionalmente garantita, imponga “le primarie”.

In uno stato che riconosce la pluralità sociale e politica, il partito del proletariato è un’associazione di diritto privato con rilevanza costituzionale composta dai propri iscritti e non di soli eletti, la cui vita interna è permanente e non intermittente come quella dei partiti statunitensi che da tempo si vogliono scimmiottare.

E un partito che voglia rappresentare i lavoratori ed i ceti popolari deve essere di massa, così da poter affermare la propria autonomia dallo stato e dal sindacato che opera nello stesso spazio sociale. Dovrà perciò autofinanziarsi (anche attraverso il 2 per mille) pur rivendicando il diritto di godere di sedi pubbliche e di accesso al servizio pubblico radio-televisivo.

Circa la democrazia interna, è da respingere la critica al centralismo democratico, perché l’alternativa delle correnti – generate dallo scontro per l’appropriazione degli apparati statuali di potere – contrasta con la natura di classe del partito, ne offusca la spinta rivoluzionaria e lo espone alla corruzione.

Circa la “disciplina” degli iscritti, necessita rilevare con forza che una clausola statutaria compromissoria che escluda il ricorso al giudice ordinario porrebbe lo statuto in una posizione di incostituzionalità, non potendo un cittadino compiere atti di disposizione di un diritto soggettivo pubblico che proprio la Costituzione vuole incondizionato.

NOTE

1. Salvatore d’Albergo è morto il 5 ottobre 2014, poco dopo aver promosso e sottoscritto l’Appello per la ricostruzione del Partito comunista, a cui voleva recare il determinante contributo del suo ininterrotto lavoro scientifico sulle caratteristiche differenziali dei modelli istituzionali della democrazia liberale rispetto a quelli della democrazia economico-sociale, essenziali in ogni programma di transizione al socialismo ed identificabili anche nelle esperienze costituzionali apertesi con la Resistenza; e più specificamente in quella italiana ispirata alla “democrazia progressiva”. Un’esperienza da rilanciare, con crescente urgenza, in Italia, in Europa e nel mondo devastato dalla crisi imperialistica, per orientare le masse popolari nei conflitti economici, sociali e politici che spingono alla moltiplicazione delle “guerre locali”, aggravando il pericolo di una conflagrazione generale. 

2. E viene da chiedersi se questa rinuncia non risenta ancora delle lontane propensioni espresse da Magri e da Ingrao per una democrazia compiuta – cioè il solito modello del bipartitismo dell’alternanza – per cui, incrinatosi il vaso di Pandora, Occhetto porterà lo “zoccolo duro” dell’elettorato ex comunista al referendum contro la proporzionale, per giungere circa 25 anni dopo senza sostanziali interruzioni ad un governo Renzi che, arrogandosi il potere di cambiare legge elettorale e Costituzione a maggioranza, attraverso un Parlamento eletto con norme incostituzionali, fa emergere con chiarezza l’eversività del “governo costituente” improvvidamente proposto da Ingrao nel 1987.

3. Rifiuto che riguardò la monarchia costituzionale in uno col c.d. stato sociale, fallito per il contrasto tra gli obbiettivi “sociali” e le forme autoritarie – esemplare il caso della Repubblica di Weimar – che ora si vogliono ripristinare con le riforme elettorali e costituzionali, per continuare a svuotare l’obbligo della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si oppongono all’eguaglianza sociale, in un crescendo che dall’inibizione dell’attività legislativa di programmazione democratica dello sviluppo economico e sociale è giunto all’introduzione in Costituzione di restrizioni sull’indebitamento pubblico.

4. E si colga che questa “via italiana al socialismo” è ispirata alla gramsciana filosofia della prassi, nella quale la politica è la scienza sperimentale che occupa il posto più elevato del pensiero, affermandosi con ciò la necessità di verificare la possibilità di un’avanzata democratica al socialismo, senza per questo rinnegare la Rivoluzione di Ottobre, avvenuta in condizioni del tutto diverse.

5. Tavoli cui la crisi della finanza pubblica ha tolto progressivamente ogni rilevanza, al punto che il governo Renzi procede ormai incurante di loro: eclatante il caso della scuola.

6. E l’attualità del principio “proporzionalista” fissato dal costituente è attestata dalla Sentenza n.1/2014 della C. Cost. che, anche richiamando l’odg di A. Giolitti votato a larga maggioranza dall’Assemblea Costituente il 23.9.1947 (al quale, dopo il voto sulla nuova Costituzione, la stessa Costituente si attenne approvando la legge elettorale proporzionale applicata nelle elezione politiche del 1948), ci ha riconsegnato una legge elettorale d’impianto proporzionalistico, destando la preoccupazione dei ceti dominanti e delle loro rappresentanze politiche guidate da un Presidente della Repubblica che, aggrappandosi alla “emergenza economica-finanziaria” (spread), ha impedito il ritorno al voto con la legge elettorale proporzionale.

7. Parossistico, sotto questo profilo, è stato il comportamento di G. Napolitano che, anziché sciogliere le Camere delegittimate, ha imposto tre diversi governi nei cui programmi stava la nuova legge elettorale non proporzionale che infine Renzi è riuscito ad imporre, contando sui varchi indebitamente lasciati aperti dalla Corte sia alle deviazioni premiali, in nome di un principio generale di stabilità dell’esecutivo non enunciato in Costituzione, sia alle soglie di sbarramento all’accesso: questione che la Corte avrebbe potuto sollevare davanti a sé. Ciò rende urgentissime proposte per una riforma democratica della presidenza della repubblica, che non può certo trovarsi nell’elezione diretta del presidente di un’eversiva repubblica presidenziale respinta dalla Costituente in nome della repubblica parlamentare, ma solo in una sua trasformazione in senso collegiale, da associare coerentemente al monocameralismo abolitivo del Senato, allora chiesto dai comunisti, dovendosi precisare che le scelte ivi operate in materia di bicameralismo “paritario” rappresentarono un valido compromesso democratico tra quanti volevano una sola camera eletta a suffragio universale e quanti volevano mantenere un Senato di notabili nominati, non dissimile dall’accozzaglia corporativo-localistica che ora si vuole introdurre.

8. Sebbene le operazioni di salvataggio, nel consueto stile di aiuti di stato al privato, vengano giustificate dalla rilevanza “strategica” dell’impresa: esemplare il caso dell’ILVA, sul quale si profuso l’impegno di d’Albergo , Catone e Bucci.

9. Ciò che già autorizza interventi repressivi nei confronti di organizzazioni che per il programma o per la mancanza di democrazia interna siano in contrasto con la Costituzione. Si noti che sotto questi profili, Forza Italia sarebbe quantomeno da esaminare.

RIFLESSIONI SULLA RICOSTRUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA

In memoria di Salvatore d’Albergo[1]

di Giovanni Chiellini

Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dei comunisti in Italia

La ricostruzione del partito comunista, che l’Appello ritiene necessaria ed urgente, non può che muovere dal fallimento dell’esperienza della “rifondazione” comunista seguita alla fine del PCI e dal riconoscimento che l’opportunismo, col quale alla Bolognina si fece discendere dalla fine dell’URSS la fine del PCI, generò anche l’espediente di un partito finalizzato a non far nascere un nuovo partito comunista, rifiutandosi in tal modo il patrimonio ideale accumulato dal PCI attraverso l’esperienza di un settantennio di lotta politica, approdata all’altissima sintesi berlingueriana.

La costituzione del nuovo partito comunista fu quindi rinviata, andandosi in cerca di una identità culturale e programmatica, la definizione della quale era rimessa tutt’al più al confronto teorico comunque confinato nei diversi strumenti di comunicazione, incomunicanti quanto le diverse correnti di affiliazione (cossuttiani, ingraiani, exsocialisti, magriani, ecc. ecc.) dominanti all’interno dell’associazione, che del PRC fu il preludio[2] . È potuto cosi accadere che tali correnti, trapassate nel nuovo contenitore opportunisticamente non progettuale, anziché misurarsi sul terreno della lotta politica e sociale portando alla verifica della prassi le loro diverse posizioni, si siano scontrate e divise in funzione delle alleanze elettorali di governo – centrale, regionale e locale – con “sinistre” ancillari rispetto al PD, finendo per perdere radicamento sociale e per dilapidare anche l’originario alto residuo di consenso elettorale comunista. E tale propensione elettoralistica continua a dominare l’iniziativa dei frantumi comunisti, anche da ultimo polarizzati dal problema delle alleanze per le elezioni regionali, poi svoltesi il 31 maggio scorso, con esiti forse non estranei alla recente ripubblicazione (il manifesto 21.6.2015) dell’Appello e all’indizione dell’incontro “costituente” del prossimo 12 luglio.

Se quindi finalmente all’Appello si vuol dare seguito, di deve avvertire che la rinascita dell’opzione comunista e la ricostruzione di un partito “degno di tale nome” impone ormai lo sviluppo di una discussione per scelte programmatiche inequivocabili e modalità organizzative suscettibili sia di legare il partito ai lavoratori dipendenti ed ai ceti interessati ad un’alleanza con essi, sia di garantire una vita interna effettivamente democratica.

Il programma

Il programma comunista non può che muovere da un’esplicita collocazione nell’alveo teorico e pratico del PCI di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, a partire dalla costruzione del “partito nuovo” che fu prima protagonista dell’antifascismo militante nella clandestinità, nel carcere e all’estero e poi dell’intero processo costituente apertosi con la caduta del fascismo e la Resistenza, caratterizzato dal compromesso che portò alla formazione dei governi di unità nazionale, i cui capisaldi furono l’abrogazione del sistema corporativo, il suffragio universale e la scelta antimaggioritaria del principio proporzionale puro per l’elezione dell’Assemblea Costituente e dei rinati consigli degli enti locali, nonché la devoluzione al referendum popolare della questione istituzionale concernente la forma monarchica o repubblicana.

Si giunse così al rifiuto dei modelli del costituzionalismo liberal-democratico[3] ed alla scelta di una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sul censo o la proprietà terriera , volta alla costruzione dell’uguaglianza, che ammette il diritto di sciopero, l’autonomia sindacale nonché il pluralismo dei partiti suscitato dal pluralismo sociale; cioè di una forma di stato di democrazia economico-sociale implicante una forma di governo, articolato in autonomie regionali e locali, indirizzato (e non meramente controllato) dal parlamento e dalle assemblee elettive, cui spetta il ruolo centrale in quanto rappresentative del popolo sovrano.

Si tratta di un programma transitorio – che Togliatti definì “democrazia progressiva” di lotta politica democratica per il superamento degli assetti socio-economici-istituzionali del capitalismo, mediante l’introduzione di “elementi di socialismo” (dirà Berlinguer), ad iniziare dalla funzionalizzazione sociale della proprietà e dell’impresa e dall’apertura dei servizi pubblici alla “gestione sociale”[4] .

Era tuttavia scontato che lo scontro prodottosi su questi principi in sede costituente, nel quale rimasero soccombenti le forze politiche espresse dai gruppi economici e sociali del capitalismo dominante, sarebbe continuato. E infatti il contrattacco ai principi innovativi della Carta del 1948 si è protratto, con fasi alterne segnate dalla capacità di resistenza del movimento operaio e democratico, fino alla fase presente nella quale su tutti i terreni – economico, sociale e politico si configurano, dopo la morte di Berlinguer, arretramenti gravissimi dovuti alla mancanza di un’autonoma proposta comunista capace di aggregare e indirizzare le masse popolari nella lotta sociale e politica per difendere e insieme rilanciare la Costituzione e le riforme ottenute con la sua applicazione.

Né avrebbe potuto essere diversamente, con un movimento operaio e democratico ed in primo luogo il PCI occhettiano poi ridottosi a PDS e PD e la CGIL ormai sempre più confinati nel collaborazionismo delle politiche concertative, col risultato di rendere subalterne ed esposte al richiamo corporativo e localistico della destra leghista le masse dei lavoratori, che invece andavano chiamate alla lotta per la programmazione democratica, con la quale fronteggiare la crisi di sovrapproduzione che la classe dominante governa tutelando “spontaneamente” la massimizzazione del profitto e dell’interesse finanziario, a spese del salario e del debito pubblico.

Si aggiunga che tali politiche sono state il terreno favorevole ad arretramenti autoritari, perché ai conflitti intersindacali e alla frammentazione dalla quale nacquero COBAS e CUB, le “confederali” CGIL, CISL, UIL risposero arroccandosi nel loro potere di “aprire tavoli” di concertazione[5] e contrattazione riservati ai soli sindacati “più rappresentativi”, con una violazione “maggioritarista” del principio costituzionale del pluralismo sociale, posto esplicitamente in chiave proporzionale dell’art. 38 a presidio della democraticità anticorporativa dei processi che vedono coinvolte le forze sociali. (Pensa a ciò Landini quando auspica l’allargamento della rappresentanza?).

Ed il “maggioritarismo” tra le forze sociali è stato metabolizzato dalle masse popolari al punto di farle partecipi – spinte dal verbalismo subalterno di Occhetto su “riformismo forte” e “alternanza” dell’indizione e del successo del referendum sulla legge elettorale che dal 1948 – fortificata dalla sconfitta della “legge truffa” del 1953 – garantiva la democraticità della forma di governo, secondo il modulo di una repubblica parlamentare e non presidenziale coerente con gli artt. 3, comma 2 e 49 Cost., fondata sul pluralismo politico realizzato e realizzabile solo attraverso la rappresentanza integralmente proporzionale e non maggioritaria dei partiti[6] .

E a completare l’iperbole autoritaria dalla forma di governo, sopravviene il crescente “presidenzialismo” dei presidenti della Repubblica i quali, nell’instabilità trasformistica indotta dal bipolarismo pseudo-stabilizzatore, hanno dato a questa figura un ruolo governante a scapito della funzione centrale di indirizzo politico del Parlamento[7] .

Quelli appena descritti sono gli esiti di uno scontro sociale e politico che vede soccombere il lavoratori dipendenti ed in generale i ceti popolari, privati dello stimolo di un programma comunista sperimentato ed aggiornato nei contenuti delle politiche delle pace e del disarmo, della produzione e del consumo, delle “qualità” cioè da assumere come prioritarie per indirizzare le lotte dei popoli e delle classi dominate verso una soluzione emancipativa della crisi.

Per uscire dall’incoscienza storico-teorica che ha sortito la frantumazione e l’inerzia dei comunisti, necessita oggi liberarsi da ogni residuo di opportunismo e riaprire il dibattito sulla figura e l’opera di Berlinguer, che costituisce il frutto più maturo della esperienza originale fondata sulla filosofia della prassi, avviata da Gramsci e continuata da Togliatti e Longo, dal congresso di Lione del 1926 ai “fronti popolari” del 1936, alla “svolta di Salerno” ed al “compromesso storico”.

Per questo bisogna in primo luogo rifiutare l’immagine sacralizzata di un Berlinguer moralizzatore della politica, come se la “questione morale”, da lui sollevata, fosse separabile dal “compromesso storico” o dalla “austerità” e non il suo originale arricchimento con analisi e proposte miranti a cogliere il nuovo emergente dallo scontro e a fronteggiarlo della tradizionale strategia del PCI “rottamata” alla Bolognina nel 1989.

È di tale strategia che va ripresa la sperimentazione e l’aggiornamento, avendo chiaro che essa è attuale non solo in rapporto alla situazione italiana, ma più in generale in rapporto alla crisi generale da cui i gruppi politico-finanziari del capitalismo mondiale, suscitando nuovi immani conflitti, pretendono di uscire indirizzando gli investimenti verso il lusso più sfrenato di ceti dominanti sempre più ristretti, la cui ricchezza – a differenza di quanto accadeva negli anni dei consumi di massa non è più il benessere ideologicamente offerto quale esempio a cui tendere ai ceti dominati, ma ostentazione di potenza assoluta sui vinti.

E mentre tutto ciò mette sempre più a nudo la valenza ideologica del liberismo e del mercato, le forze sociali schiacciate e le forze politiche di opposizione non colgono l’occasione di indicare obbiettivi “austeri” sui quali rilanciare la lotta per una programmazione democratica[8] a livello italiano, europeo e mondiale.

In questo contesto è importantissima l’enciclica Laudato si’ che muovendo dalla catastrofe ecologica in corso rinnova l’appello ad “eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale” fatto nel 2009 da Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate, privata di risonanza dalle dissidenze curiali.

In proposito, notato come la Laudato si’ faccia risaltare l’arretramento complessivo dell’episcopato italiano, va sottolineata la necessità che, quale loro impegno prioritario, i comunisti – come già Togliatti nel 1963 e Berlinguer nel 1973 – si offrano al confronto ed all’incontro con i cattolici sensibili alle aperture di Francesco.

Il Partito e la sua vita interna.

Al di là della generica locuzione “forma partito”, che pretende di ricomprendere i partiti operai ed i partiti borghesi, va ricordato che solo dal 1848, con il Manifesto del partito comunista, si può parlare di partito politico, dovendosi prima di allora parlare di articolazione in fazioni politiche dei gruppi dirigenti delle sole classi dominanti, rimanendo esclusa la classe operaia, per motivi di sangue o di censo, dall’organizzazione statuale monoclasse. È per condurre la lotta politica contro e nel cuore di tale stato che viene fondato il partito comunista, per contrastare il quale la classe dominante – fin lì sempre rivestita dei simboli dello stato unico, sacrale interprete della volontà generale è costretta a mostrare la propria “parzialità” fondando partiti politici non confrontabili con quelli del proletariato.

Nato ne “l’Italietta democratica” che scivolava verso il fascismo, il Partito comunista, quale soggetto rivoluzionario di un rivoluzionario programma di trasformazione in senso socialista della società e dello stato, è stato il principale soggetto politico della classe operaia che, nelle particolari condizioni dell’Italia, sotto la guida di Togliatti, nella lotta clandestina e poi aperta e militare contro il nazi-fascismo, operò per la costruzione di uno stato pluriclasse (tale è il modello statuale fondato sulla Costituzione del 1948) nel quale lottare democraticamente per le riforme di struttura.

In tale democrazia “progressiva” il PCI si è autotrasformato da partito di quadri in partito di massa organizzato capillarmente nei luoghi di lavoro – dove il lavoratore apprende e comprende il processo produttivo e matura una coscienza alternativa – e nei quartieri popolari, dove, facendosi “classe generale”, i lavoratori costruiscono l’egemonia culturale e politica per guidare le istituzioni democratiche in direzione di riforme che introducano elementi di socialismo.

Da qui si deve muovere per affrontare i problemi di una nuova organizzazione politica dei comunisti, consapevoli che la loro “diversità” quella rivendicata e difesa fino all’ultimo da un Berlinguer divenuto consapevole che anche il PCI era ormai stato attaccato dal sistema corruttivo – è condizione di esistenza ed il suo contenuto è l’autonomia ideale e materiale dallo stato e dal sindacato, realizzabile nell’esercizio dell’autonomia statutaria che, nel quadro delle norme costituzionali, incontra il solo divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista[9] .

Non serve quindi una legge sui partiti, da più parti invocata, che, in violazione dell’autonomia statutaria costituzionalmente garantita, imponga “le primarie”.

In uno stato che riconosce la pluralità sociale e politica, il partito del proletariato è un’associazione di diritto privato con rilevanza costituzionale composta dai propri iscritti e non di soli eletti, la cui vita interna è permanente e non intermittente come quella dei partiti statunitensi che da tempo si vogliono scimmiottare.

E un partito che voglia rappresentare i lavoratori ed i ceti popolari deve essere di massa, così da poter affermare la propria autonomia dallo stato e dal sindacato che opera nello stesso spazio sociale. Dovrà perciò autofinanziarsi (anche attraverso il 2 per mille) pur rivendicando il diritto di godere di sedi pubbliche e di accesso al servizio pubblico radio-televisivo.

Circa la democrazia interna, è da respingere la critica al centralismo democratico, perché l’alternativa delle correnti generate dallo scontro per l’appropriazione degli apparati statuali di potere contrasta con la natura di classe del partito, ne offusca la spinta rivoluzionaria e lo espone alla corruzione.

Circa la “disciplina” degli iscritti, necessita rilevare con forza che una clausola statutaria compromissoria che escluda il ricorso al giudice ordinario porrebbe lo statuto in una posizione di incostituzionalità, non potendo un cittadino compiere atti di disposizione di un diritto soggettivo pubblico che proprio la Costituzione vuole incondizionato.

 



[1] Salvatore d’Albergo è morto il 5 ottobre 2014, poco dopo aver promosso e sottoscritto l’Appello per la ricostruzione del Partito comunista, a cui voleva recare il determinante contributo del suo ininterrotto lavoro scientifico sulle caratteristiche differenziali dei modelli istituzionali della democrazia liberale rispetto a quelli della democrazia economico-sociale, essenziali in ogni programma di transizione al socialismo ed identificabili anche nelle esperienze costituzionali apertesi con la Resistenza; e più specificamente in quella italiana ispirata alla “democrazia progressiva”.

Un’esperienza da rilanciare, con crescente urgenza, in Italia, in Europa e nel mondo devastato dalla crisi imperialistica, per orientare le masse popolari nei conflitti economici, sociali e politici che spingono alla moltiplicazione delle “guerre locali”, aggravando il pericolo di una conflagrazione generale.

[2] E viene da chiedersi se questa rinuncia non risenta ancora delle lontane propensioni espresse da Magri e da Ingrao per una democrazia compiuta – cioè il solito modello del bipartitismo dell’alternanza – per cui, incrinatosi il vaso di Pandora, Occhetto porterà lo “zoccolo duro” dell’elettorato ex comunista al referendum contro la proporzionale, per giungere circa 25 anni dopo senza sostanziali interruzioni ad un governo Renzi che, arrogandosi il potere di cambiare legge elettorale e Costituzione a maggioranza, attraverso un Parlamento eletto con norme incostituzionali, fa emergere con chiarezza l’eversività del “governo costituente” improvvidamente proposto da Ingrao nel 1987.

[3] Rifiuto che riguardò la monarchia costituzionale in uno col c.d. stato sociale, fallito per il contrasto tra gli obbiettivi “sociali” e le forme autoritarie – esemplare il caso della Repubblica di Weimar – che ora si vogliono ripristinare con le riforme elettorali e costituzionali, per continuare a svuotare l’obbligo della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si oppongono all’eguaglianza sociale, in un crescendo che dall’inibizione dell’attività legislativa di programmazione democratica dello sviluppo economico e sociale è giunto all’introduzione in Costituzione di restrizioni sull’indebitamento pubblico.

[4] E si colga che questa “via italiana al socialismo” è ispirata alla gramsciana filosofia della prassi, nella quale la politica è la scienza sperimentale che occupa il posto più elevato del pensiero, affermandosi con ciò la necessità di verificare la possibilità di un’avanzata democratica al socialismo, senza per questo rinnegare la Rivoluzione di Ottobre, avvenuta in condizioni del tutto diverse.

[5] Tavoli cui la crisi della finanza pubblica ha tolto progressivamente ogni rilevanza, al punto che il governo Renzi procede ormai incurante di loro: eclatante il caso della scuola.

[6] E l’attualità del principio “proporzionalista” fissato dal costituente è attestata dalla Sentenza n.1/2014 della C. Cost. che, anche richiamando l’odg di A. Giolitti votato a larga maggioranza dall’Assemblea Costituente il 23.9.1947 (al quale, dopo il voto sulla nuova Costituzione, la stessa Costituente si attenne approvando la legge elettorale proporzionale applicata nelle elezione politiche del 1948), ci ha riconsegnato una legge elettorale d’impianto proporzionalistico, destando la preoccupazione dei ceti dominanti e delle loro rappresentanze politiche guidate da un Presidente della Repubblica che, aggrappandosi alla “emergenza economica-finanziaria” (spread), ha impedito il ritorno al voto con la legge elettorale proporzionale.

[7] Parossistico, sotto questo profilo, è stato il comportamento di G. Napolitano che, anziché sciogliere le Camere delegittimate, ha imposto tre diversi governi nei cui programmi stava la nuova legge elettorale non proporzionale che infine Renzi è riuscito ad imporre, contando sui varchi indebitamente lasciati aperti dalla Corte sia alle deviazioni premiali, in nome di un principio generale di stabilità dell’esecutivo non enunciato in Costituzione, sia alle soglie di sbarramento all’accesso: questione che la Corte avrebbe potuto sollevare davanti a sé. Ciò rende urgentissime proposte per una riforma democratica della presidenza della repubblica, che non può certo trovarsi nell’elezione diretta del presidente di un’eversiva repubblica presidenziale respinta dalla Costituente in nome della repubblica parlamentare, ma solo in una sua trasformazione in senso collegiale, da associare coerentemente al monocameralismo abolitivo del Senato, allora chiesto dai comunisti, dovendosi precisare che le scelte ivi operate in materia di bicameralismo “paritario” rappresentarono un valido compromesso democratico tra quanti volevano una sola camera eletta a suffragio universale e quanti volevano mantenere un Senato di notabili nominati, non dissimile dall’accozzaglia corporativo-localistica che ora si vuole introdurre.

[8] Sebbene le operazioni di salvataggio, nel consueto stile di aiuti di stato al privato, vengano giustificate dalla rilevanza “strategica” dell’impresa: esemplare il caso dell’ILVA, sul quale si profuso l’impegno di d’Albergo , Catone e Bucci.

[9] Ciò che già autorizza interventi repressivi nei confronti di organizzazioni che per il programma o per la mancanza di democrazia interna siano in contrasto con la Costituzione. Si noti che sotto questi profili, Forza Italia sarebbe quantomeno da esaminare.