Quando sei sotto mira la cosa peggiore è stare fermo

di Alessandro Squizzato, Direzione nazionale PdCI

prospettivepericomunisti bannerNel dibattito che si è sviluppato sulle nostre sorti dopo l’allagamento dell’ennesima “ultima spiaggia”, temo ci sia il rischio di commettere un errore che dovrebbe essere quanto di più inviso ai comunisti: perdere di vista la realtà oggettiva e rinchiudersi nel conservatorismo di uno status quo che non funziona.

Per la sinistra di trasformazione l’ultimo esito elettorale è un fatto politico, anche in un contesto così gassoso e volubile come la politica dei giorni nostri, e in quanto tale non può essere liquidato con qualche formula di circostanza, o appellandosi alla massima non proprio leninista del “mal comune, mezzo gaudio”. Perché conferma e suggella un trend iniziato con la “grande cacciata” del 2008 e forse anche prima, durante le ultime fasi del governo Prodi. Nel 2008 il crollo della sinistra di trasformazione da un bacino complessivo superiore al 10% fino al 3,1% dell’infausto Arcobaleno, era stato una poderosa campana d’allarme. I voti sono passati quasi totalmente a PD e IDV, in barba al moderatismo veltroniano, e la nostra reazione è stata il panico e il rifugio nei recinti particolari. A comporci e scomporci convulsamente tra SD, RPS, SEL (con e senza Verdi e PSI), PRC, PDCI, FDS, Partito del Lavoro ecc… (mentre nel paese succedeva di tutto, quasi a prescindere da noi).

Il voto utile, il bipolarismo indotto, la minaccia Berlusconi erano tutte cose che potevano mitigare o rimandare la sentenza di divorzio tra la sinistra di trasformazione e quel vasto settore di opinione pubblica che vuole rappresentata la protesta sociale e l’alternativa al sistema.
Dopo 5 anni di errori quel divorzio è stato confermato in maniera brutale, con un ulteriore calo dei consensi fino al 2,2% (1,79 al Senato) di Rivoluzione Civile. In un contesto non più bipolare, in cui la minaccia Berlusconi (a torto) non pareva più così incombente, senza gli allora “vendoliani “ e Sinistra Democratica, divenuti SEL, ma con l’IDV che almeno fino al 2011 era stata pressoché l’unica opposizione percepita.
E con il potenziale di un volto, Ingroia, che doveva apparire meno bollito del Bertinotti del 2008.
Basti pensare, nonostante la nostra adesione continua ed esplicita alle mobilitazioni della FIOM e alla battaglia dei NO TAV, a dove si sia riversata la stragrande maggioranza del sostegno politico ed elettorale di quei settori, che giustamente hanno ricercato sponde che gli permettessero poi di contare ed ottenere risultati concreti nel breve periodo.
Pensiamo anche alla cronaca di questi giorni, in cui il braccio di ferro sul futuro del paese, tra restaurazione liberista e cambiamento, ha messo in stallo il paese e nessuno, dall’opinione pubblica alle parti sociali, nemmeno contempla quale possa essere il nostro ruolo.
Pensiamo ancora alla presenza istituzionale, ridotta ormai ad una quota simbolica, e crollata ancora più velocemente quando con la FDS abbiamo eletto quasi unicamente amministratori del PRC.
E ancora l’assottigliamento del nostro peso nel sindacato, un tempo assolutamente non trascurabile.

Se non partiamo dalla presa d’atto che si è maturata nel tempo una frattura tra il voto d’opinione di alternativa o anche solo di protesta (e anche di quel poco di voto di classe politicizzato) e i partiti tradizionali che lo rappresentavano (il PRC, i Verdi, l’IDV e – anche se in modi inizialmente diversi – il PdCI), manchiamo il centro del problema.
I simboli e i dirigenti noti che un tempo da soli spiegavano un programma e una funzione (la famosa utilità del voto utile) sullo scenario politico, ora non bastano più, hanno perso quel ruolo. Certo per le aggressioni di un sistema politico che voleva espellerli, ma anche e soprattutto per i propri (i nostri) errori.

Se non analizziamo seriamente la situazione, senza formule assolutorie, se non aggrediamo il problema di come rimetterci davvero in sintonia con un consenso che sia di classe e non più meramente di opinione, io temo che ogni formula salvifica che vorremmo dare al congresso non sia altro che un modo di raccontarci favole. Una reazione, umana certo (ma non per questo giusta), di auto consolazione rinchiudendoci nel nostro particolare, nei nostri confini identitari, per noi rassicuranti ma ormai con i fili recisi dalla realtà circostante. Ancora peggio, rischia di essere un modo surrettizio (di una arroganza smisurata) di far coincidere la sopravvivenza dell’idea comunista con la sopravvivenza di un determinato gruppo dirigente.
Che confini angusti e limitati per il pensiero che dovrebbe camminare con la Storia!

Per questo penso che ribadire semplicemente la formula del “ricostruire il partito comunista” degli ultimi congressi, sostanzialmente invariata (e nonostante i magri risultati anche in quella direzione), senza spiegare come ciò – questa volta – possa riscuotere risultati non residuali e soprattutto per fare che cosa, non sia altro che un volontarismo un po’ vuoto, sostanzialmente un modo di dire “impegniamoci di più”. Io credo, compagni, che l’analisi di un partito comunista che si prenda sul serio, al cospetto dei risultati di fase, di un paese nelle condizioni che conosciamo e di un quadro politico scosso da rivolgimenti continui, non possa essere “impegniamoci di più”.
A meno che lo scopo non sia – cinicamente – la semplice quanto inefficace autoconservazione di un gruppo dirigente, in una riserva indiana sempre più piccola.

Parlare di noi, soprattutto in una fase precongressuale, oltre che legittimo è doveroso. Ma parlare di noi in modo sconnesso, disarticolato dal contesto politico e soprattutto dalla nostra classe di riferimento è un esercizio privo di senso.

Per tornare a dare rilevanza vera, non enunciata o confinata in qualche salotto “alternativo”, alla nostra storia e al nostro pensiero, occorre prima di tutto chiarire come essi siano oggi utili agli interessi materiali della classe lavoratrice. Come riusciremmo, al contrario dei 5 anni passati, a metterlo a frutto. Perché concretamente la promessa di giustizia sociale fatta dai comunisti valga di più di quella fatta dal Movimento 5 Stelle o del PD. Perché fin’ora siamo stati, per motivi diversi, inefficaci e improduttivi tanto quanto gli altri: non ci sono crediti di “attendibilità” da mettere sul tavolo.

Come contribuiamo incisivamente nello scontro – che scorre all’interno del campo dei progressisti – tra la restaurazione liberista (e le logiche conseguenze sociali) e l’impiego di politiche keynesiane?
Come offriamo una sponda politica utile alle battaglie sindacali in un mondo del lavoro che nel nostro paese sta subendo una campagna bellica inaudita e su più fronti contro diritti e salari?
Come offriamo ai cittadini italiani la prospettiva di una politica che torni ad essere rappresentanza e non più un insieme di comitati elettorali e notabilati?
Bastano queste battaglie per definirci? Ovviamente no, ma sono quel terreno comune di progresso su cui abbiamo il dovere di operare e far conoscere l’attualità delle nostre idee. Per riallacciare i fili con la nostra classe di riferimento.
E per farlo in primo luogo servono le idee (e anche sul quel frangente siamo stati troppo pigri fin’ora), in secondo luogo la ricetta è quella che sin dalla nostra nascita con Antonio Gramsci ci caratterizza, l’unitarietà con tutte le forze di progresso, una unitarietà di programma.
Più complicata di quanto non fosse nel passato certo, il mondo è cambiato, comporta sacrifici, ma giusta.

Non ci sono scorciatoie tatticiste per tornare a svolgere il nostro compito di comunisti. Così come il nostro compito di comunisti non può essere accontentarci di farne una professione di fede, come dei monaci di un credo millenaristico. Per parlare DEL popolo dobbiamo metterci nuovamente nelle condizioni di parlare AL popolo.

L’alternativa è la liquidazione della nostra comunità politica.
Per inedia, stando fermi per paura di metterci in gioco, perdendo nel tempo pezzi ed energia, abbandonandoci nelle sabbie mobili della politica come il povero cavallo Artax de La Storia Infinita.
Oppure per involuzione, rinchiudendoci in una deriva dottrinaria, massimalista, settaria del tutto estranea sia al patrimonio del PCI che a quello del PdCI, nato nel 1998 proprio in rifiuto a quella prospettiva, per fare una sinistra di classe “non parolaia”. L’origine del deperire del nostro partito, dopo una iniziale fase espansiva, ha coinciso proprio con l’abbandono di quella ragione sociale.

Le rare esperienze territoriali che ci premiano hanno visto un PdCI che con continuità ha saputo far parte del campo dei progressisti e, grazie alla propria qualità, esserne riconosciuto come l’ancoraggio a sinistra.
Oggi la cronaca politica conferma che nel campo dei progressisti ci sono spinte reali, in cerca di riorganizzazione alle porte della terza repubblica, per dei cambiamenti verso sinistra nel paese e per la difesa di diritti sotto attacco. Programmazione economica, ridistribuzione fiscale, tutela degli ammortizzatori sociali, continuità di reddito per il precariato, resistenza alle spinte tecnocratiche che attaccano il lavoro. Cose concrete. Un fronte che oltre a determinate parti sociali comprende anche SEL e le frange più di sinistra e laburiste del PD (nonostante le contraddizioni presenti in quel partito). Ed infatti è proprio sul campo dei progressisti che vediamo dispiegarsi gli attacchi più infidi e aggressivi dei poteri forti, per impedire il cambiamento nel paese. Dividerci, scegliere ancora la strada delle “due sinistre” per inseguire l’alternatività ideologica del PRC (o di ciò che ne resta), avrà come unico esito l’indebolimento delle battaglie comuni e il nostro ulteriore isolamento.

Sono convinto che sia il momento di accettare la sfida. I comunisti nel nostro paese hanno sempre saputo essere i migliori interpreti della società, per cambiarla. Hanno rappresentato l’avanguardia politica nei metodi e nelle forme. Io non vedo un partito che possa chiamarsi compiutamente e a ragione comunista, nel nostro paese, se non accetta di misurarsi con questa impresa.
Abbandonare il tatticismo, la sciatteria, gli interessi individuali, la paura di qualche dirigente di mettersi a rischio, di andare in secondo piano e decidere finalmente di rimettere in gioco le nostre idee e le nostre capacità è l’unico modo per portare la nostra identità nella terza repubblica.

Solo se il congresso deciderà di affrontare il tema di come riorganizzare la nostra autonomia e al tempo stesso di dettagliare concretamente il modo di ricollocarci in dialogo e in collaborazione organica e strategica con quanto a sinistra si muove nel capo dei progressisti, se accetterà di interrogarsi sul serio su cambiamenti di forme e metodi di lavoro fin’ora improduttivi, di permettere a nuove generazioni politiche (non parlo di anagrafica) di prendersi le proprie responsabilità, mettendo in diparte gli errori di merito e di metodo compiuti in questi anni, allora potremo tirarci fuori da una sconfitta che fin’ora è senza appelli.
Non è l’ennesima ultima occasione di salvezza, quella l’abbiamo già fallita. Questa è la prima occasione di rinascita.