Quando le nubi hanno oscurato il cielo

di Fabrizio De Sanctis | da partizan.it

PUBBLICHIAMO COME CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE

Quando le nubi hanno oscurato il cielo, noi abbiamo fatto notare che quelle tenebre erano soltanto temporanee, che presto si sarebbero dissolte e che entro poco tempo il sole sarebbe tornato a brillare.

“La situazione attuale e i nostri compiti” (25 dicembre 1947), Opere scelte di Mao Tsetung, vol. IV.

Nel dibattito a sinistra del PD, e di Sel, si susseguono finalmente prese di posizione ed appelli all’unità della sinistra ed all’unità dei comunisti. Di uno di essi – Comincia adesso – condivido l’idea, lo spirito e l’intenzione. L’assemblea del 28 settembre a Roma può essere un momento di riflessione importante.


La mancanza di un soggetto politico comunista, unito e credibile agli occhi dei lavoratori italiani è certamente il problema dei problemi. La sua necessità è largamente sentita e diffusa, presente nel dibattito del Pdci, di Rifondazione e di tutte le altre formazioni che si richiamano al comunismo, oltre che dei tanti compagni scoraggiati dalla diaspora e dalle continue scissioni e divisioni. Questa mancanza produce i suoi effetti negativi anzitutto nel mondo del lavoro, dove alla frammentazione produttiva si aggiunge la frammentazione del sindacato e nel sindacato, pesando come un’ipoteca sulle possibilità di mettere in campo una lotta di massa, continuativa, in grado di svolgere una difesa efficace dei lavoratori ed ancor più gravemente sulle possibilità di sviluppo di una lotta concretamente ed efficacemente orientata al superamento del capitalismo. Capitalismo che dopo il crollo dell’Unione sovietica ha venduto a piene mani il sogno di un mondo pacificato senza tuttavia saper risolvere, ed anzi aggravando, tutte le sue contraddizioni storiche.

A cominciare dalla guerra, tornata ad essere il modo “naturale” di risoluzione dei conflitti internazionali, per arrivare all’economia ed alla legittima aspirazione di ogni essere umano di vivere una vita libera e un’esistenza dignitosa. La crisi economica scoppiata nel 2007 ha invece riportato al centro dei paesi industrializzati lo spettro della miseria per milioni di individui. Ancora una volta i vecchi metodi di lotta si rilevano del tutto insufficienti di fronte all’onnipotenza del capitale finanziario.

In questa situazione certamente il dibattito sta facendo passi avanti, quantomeno nella comune considerazione che ogni organizzazione attuale non è autosufficiente e non può garantire di mettere in campo quella lotta di massa e continuativa sul piano politico come su quello sindacale come su quello culturale od organizzativo di cui c’è bisogno. L’obiettivo più urgente che ciascuno dovrebbe porsi è quello dell’unità della classe operaia. Si comincia quindi, giustamente, a parlare da più parti anzitutto di unità dei comunisti. Eppure lo si fa per lo più in modo superficiale, insoddisfacente, tranne in pochissimi casi. Perché generalmente ci si dice che non siamo autosufficienti e che non possiamo che unire i vari pezzi in cui si è frammentata la diaspora comunista. Bene. Il problema, nel problema dei problemi, è che dobbiamo cominciare a dire e discutere il come e il perché pensiamo possibile il socialismo.

La questione dell’unificazione dei singoli partiti comunisti nazionali intanto non è nuova e storicamente fu posta in Russia, tra bolscevichi e menscevichi, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 e risolta, anzitutto dai circoli operai, arrivando ad un congresso unitario, fin dagli organismi di base, di discussione democratica di un documento comune. Essa fu inoltre sistematizzata, mi pare molto chiaramente, fin dal 1935, col settimo congresso dell’Internazionale comunista, che modificò la linea rivoluzionaria del classe contro classe e dell’identificazione della socialdemocrazia quale socialfascismo, nella linea di resistenza dei fronti popolari contro il fascismo. Per inciso a questo cambio di rotta gli italiani contribuirono decisamente con Togliatti, curatore con Dimitrov delle relazioni introduttive al congresso.

Sempre per inciso è molto interessante la riflessione di Togliatti sul periodo precedente, che può rileggersi in una recente pubblicazione del 2010 di Einaudi del suo famoso ” Corso sugli avversari”, in cui è stata recuperata l’importantissima lezione sulla socialdemocrazia, finora sconosciuta (misteri della storia e delle vicende dei testi del Pci, e di questo in particolare che ha visto sparire per decenni la lezione sull’avversario socialdemocratico). Egli in particolare non bolla affatto come sbagliata la linea precedentemente seguita dall’Internazionale, anzi la sostiene come necessaria nella fase in cui la socialdemocrazia si fece strumento di governo del capitale finanziario, aggiungendo che se in quel periodo (pensando fondamentalmente alla Germania degli anni 20 considerata decisiva), non si fosse attaccata frontalmente la socialdemocrazia, il movimento comunista si sarebbe semplicemente esaurito perché si sarebbe trovato alla coda di un blocco reazionario perdendo la propria fisionomia. Individuando inoltre nella socialdemocrazia la principale responsabile dell’avanzata del fascismo, a causa della sua opera di divisione del proletariato e di smobilitazione delle capacità di resistenza della classe operaia riconosce che essa ha aperto la via al fascismo. Dopo l’esplosione della crisi del 1929, con la presa del potere del nazismo in Germania e con le minacce di una nuova guerra mondiale, che i comunisti avevano previsto a partire dalle contraddizioni esplose appunto con la crisi economica, nasce la politica dei fronti di resistenza al fascismo. Si disvela che la politica socialdemocratica è perdente agli occhi delle grandi masse europee e nascono frazioni al suo interno che hanno interesse ad una politica di unità per resistere al fascismo. Interessante anche infine sul punto che centro della politica di fronte unico non venivano ritenuti gli accordi o i programmi ma le organizzazioni di fronte unico da creare alla base. Esse hanno la funzione di legarsi alle masse, di lottare contro il fascismo e contestualmente di far fallire i piani della socialdemocrazia.

Nell’ambito di quella stagione e di quella riflessione, l’internazionale arriva ad enucleare i principi sulla base dei quali in ogni singolo paese si potessero e si dovessero (direi si possano e si debbano) unificare i partiti comunisti per assicurare ai lavoratori un’unica direzione e un’unica compatta ed efficace lotta di classe. Quei principi consistevano nel concordare alcuni elementi strategici, come li espone Dimitrov nella sua relazione: 1) la completa ed assoluta autonomia della nuova organizzazione dalle classi dominanti, diremmo, ancora oggi, basata sulla centralità del conflitto capitale – lavoro; 2) la necessità “finale” dell’abbattimento del capitalismo e dell’instaurazione del nuovo ordine socialista; 3) il ripudio della guerra imperialista, senza se e senza ma diremmo oggi, aggiungerei senza la necessità di successive autocritiche per gli errori commessi; 4) la preventiva unità d’azione dei vari partiti, senza la quale ogni unificazione formale avrebbe rischiato di essere troppo fragile per durare; 5) l’abolizione delle correnti e del frazionismo nel nuovo partito comunista.

Tali principi mi paiono oggi rifiorire come nuovamente condivisibili e trovo che per vie a volte insolite essi vadano comunque facendosi strada.

Eppure ciascuno di essi avrebbe bisogno di essere messo a tema ed aggiornato ai giorni nostri, in particolare il secondo. E su questo credo sia necessario lo sforzo maggiore. Uno sforzo che non sarà casuale se verrà proprio dai compagni italiani, che per storia hanno su questo tentato nel passato più di altri l’innovazione teorica e pratica.

E’ necessario uno sforzo collettivo, decisivo se veramente vogliamo colmare la grave lacuna soggettiva che lascia disarmati i lavoratori italiani di fronte alla crisi e alla ristrutturazione capitalistica.

Da più parti infatti e in diverse organizzazioni, quando si tocca il tema del socialismo si fa solitamente riferimento, direi quasi meccanicamente (o pigramente), a quella che fu la strada tracciata nel dopoguerra dal Pci per giungere al socialismo, la cosiddetta via italiana al socialismo. Vale a dire che a partire da un giudizio sulla natura progressiva della Costituzione repubblicana del 1948, si immaginò, e si immagina largamente tuttora, che con la sua progressiva attuazione si sarebbe potuti giungere al rovesciamento del capitalismo ed al nuovo ordine socialista. Una via pertanto non più rivoluzionaria, com’era sempre stata fino ad allora la strategia comunista, insurrezionale nei paesi industriali o guerrigliera nei paesi contadini, ma una via “riformista”, che di grande riforma in grande riforma, o riforme di struttura come si diceva allora, avrebbe appunto raggiunto il socialismo.

Quella fu, a mio modestissimo avviso, l’ultima grande riflessione strategica svoltasi in Italia a livello di massa. Restando ad essa, che come dicevo mi pare riaffiorare qua e la nei discorsi degli attuali dirigenti comunisti, dovremmo invece chiederci se sia stata una visione che ha dato frutti e se sia oggi riproponibile. Estremizzando c’è da chiedersi se oggi Togliatti sarebbe togliattiano come l’iconografia del Pci ce l’ha tramandato.

Su questo ebbe già modo Ambrogio Donini di protestare che la via italiana al socialismo divenne presto la via pacifica al socialismo, mentre è storia dell’altro ieri che divenne la via riformista senza socialismo e quella di ieri e di oggi la via riformista senza progresso. Ma al di la della sua degenerazione, varrà a questa riflessione recuperare il senso e direi le parole originarie della sua teorizzazione per capire se essa oggi è attuale ed effettivamente proponibile o in quale misura.

Il tutto anche a voler prescindere da un giudizio sull’attuale Costituzione della Repubblica italiana, che pur immutata nei principi fondamentali, gravemente violati e disattesi e per i quali si rende effettivamente urgente e necessaria la loro difesa, è stata oggetto di pesanti interventi modificativi, dalla sussidiarietà al pareggio di bilancio, nonostante la risposta popolare in sua difesa del referendum del 2006 ed alla soglia del suo definitivo scardinamento con la minacciata modifica del suo sistema di revisione. Minaccia portata esplicitamente dal governo Letta-Alfano-Fassina-Monti.

Ebbene il senso originario della via italiana al socialismo è già molto diverso da come ce l’ha tramandata la maggioranza del Pci.

Basti rileggerla nella sua compiuta formulazione, come la enunciò lo stesso Togliatti con la relazione introduttiva al congresso del Pci del 1956 (l’anno peraltro del XX° congresso del Pcus).

Riporto alcuni tra i passi salienti di quella relazione (in – La via italiana al socialismo – Editori riuniti, 1964), in modo che ciascuno possa farsene un’idea.

” La classe operaia, le masse lavoratrici e i loro partiti avanzati, tutti di ispirazione socialista, furono alla testa della guerra di liberazione e crearono, con la vittoria contro il fascismo, le fondamenta storiche e politiche dell’attuale regime democratico. Queste grandi acquisizioni storiche non si cancellano, non si possono cancellare, così come non si possono distruggere le conquiste reali che ad esse corrispondono, a meno che non si voglia creare nella società italiana una frattura tale che, presto o tardi, renderebbe di nuovo attuale la minaccia di un ritorno al fascismo o ad un suo surrogato ….

Oggi è stata formulata in modo generale la tesi della possibilità di una avanzata verso il socialismo nelle forme della legalità democratica e anche parlamentare, ma è stata formulata prendendo in considerazione le trasformazioni della struttura del mondo conseguenti alla creazione di un sistema di Stati socialisti, prendendo in considerazione l’approfondirsi della crisi generale del capitalismo per il crollo del sistema coloniale, prendendo in considerazione, infine, gli sviluppi del movimento operaio e l’accresciuto prestigio delle idee socialiste nel mondo intero …

.. Forse che vi sarebbe stata molta democrazia politica nell’Europa d’occidente , se non vi fosse stata la rivoluzione d’ottobre, se l’Unione Sovietica non fosse diventata un così potente Stato? … Se non vi fossero state la politica sovietica e le armate sovietiche, il fascismo avrebbe conquistato, in forme diverse, l’Europa intiera. Se non si fosse liberata la Cina sotto la guida dei comunisti, non vi sarebbe stato crollo così rapido del sistema coloniale. E’ la lotta rivoluzionaria, sono le vittorie riportate combattendo che hanno aperto la via democratica di avanzata verso il socialismo … Elementi decisivi per questo progresso sono la presenza di un grande movimento operaio e popolare organizzato, autorevole, unito, ben diretto, e la lotta del proletariato e del popolo per limitare lo strapotere e il potere delle classi privilegiate”.

Dalla lettura diretta dei testi si apprende che le condizioni, che Togliatti pose alla base della via italiana al socialismo, sono oggi profondamente modificate perché non c’è più l’Unione Sovietica, perché è scomparso il sistema di Stati socialisti, perché il colonialismo risorge in tutto il mondo, perché le idee socialiste non hanno forse mai avuto così poca stima e rispetto. Per non parlare delle condizioni interne del nostro paese, che tuttavia da sole non potrebbero colmare le altre necessarie condizioni di elaborazione di quella strategia.

Ma non è tutto. Vi sono altri elementi che possono aiutare questa nostra riflessione in modo decisivo, e ci vengono proprio da chi quella strategia teorizzò e praticò. Nel 1964 infatti, in un editoriale su Rinascita dell’11 luglio 1964, a un mese dalla sua morte improvvisa, editoriale la cui importanza mi pare ampiamente sottovalutata nel prosieguo della storia del Pci, Togliatti pose delle questioni fondamentali. A partire dal fatto che i progressi che fino ad allora si erano affermati (accesso al lavoro delle donne, parità salariale, riduzione della disoccupazione) avevano mantenuto un carattere abbastanza aleatorio. In particolare egli afferma che: “ In sostanza, la sola azione sistematica volta a intaccare le strutture e coronata da un successo non trascurabile è stata, in tutto questo periodo (successivo al 1948) la lotta dei sindacati per l’aumento dei salari e l’accrescimento del loro potere contrattuale”. Evidentemente troppo poco per chi aveva fondato l’Ordine nuovo prima ed il Partito comunista d’Italia poi, aveva combattuto il fascismo in Spagna ed in Italia ed era stato il vicesegretario della III Internazionale.

Di conseguenza – aggiunge Togliatti – se la sostanza democratica del regime conquistato con la vittoria della Resistenza non ha potuto essere intaccata, nonostante i ripetuti tentativi di limitarla o annullarla (offensiva scelbiana, legge truffa, leggi capestro proposte da De Gasperi, tentativo tambroniano, ecc) e non ostante i propositi e le minacce anche del giorno d’oggi, il piano di riforme della struttura economica è rimasto sino ad ora quasi esclusivamente un piano.

Egli aggiungeva anche che la possibilità di arrivare in Italia al socialismo attraverso le c.d. riforme di struttura era una possibilità che si sarebbe dovuta passare al vaglio di un approfondimento scientifico, approfondimento che invece successivamente non fu mai neanche tentato. Oggi sarebbe estremamente interessante portarlo a compimento e prendere posizione definitiva sul punto, se allora la via italiana fosse effettivamente realizzabile. Purtroppo le stesse conquiste successive (sanità, pensioni, università, ecc..) non hanno intaccato in modo decisivo la struttura dei rapporti di produzione ed oggi sono in parte già state riassorbite e rischiano di rifluire completamente. Tuttavia le condizioni della nascita di quella “via” sono state storicamente travolte e parrebbe invece necessario il ritorno ai classici, alla teoria e alla pratica originaria del nostro movimento.

Tornare ai classici non significa ovviamente mettersi a distribuire armi o a propagandare l’insurrezione, significa però riassumere una serie di questioni e di guide per l’azione.

A cominciare dalla necessità di uno spazio comune e permanente di dibattito e di organizzazione, dalla necessità appunto di un unico partito comunista.

Da un punto di vista politico si tratta ad esempio, nell’ambito di una chiarificazione strategica, di giungere alla formulazione di quello che Gramsci definiva un obiettivo intermedio al socialismo, ovvero un obiettivo di lotta concreto e di massa. Come lo fu, per intenderci, l’abbattimento dello zarismo in Russia.

La stessa difesa della Costituzione repubblicana non può più essere vista come il mezzo per sé solo per giungere al socialismo né tanto meno come il fine strategico della lotta dei lavoratori e dei comunisti in Italia. Senza collocare questa battaglia nell’ambito di quella contro l’Europa della Bce essa inoltre rischia di diventare un feticcio.

Da questo punto di vista ritengo apprezzabile lo sforzo dei compagni di Ross@, al di la del giudizio che vuol darsi di una proposta tutta da approfondire e discutere, della creazione di un nuovo contesto economico mediterraneo in cui collocare l’Italia.

Inoltre, riassumere il punto di vista classico, diciamo così, lungi dall’essere uno sforzo teorico od accademico, comporterebbe profonde conseguenze anche dal punto di vista organizzativo.

E’ noto che in Italia negli anni 20 si condusse tra Bordiga e Gramsci, che insieme avevano fondato il partito (insieme, e questo anche va sottolineato e messo in evidenza), una forte polemica anche sui modi di organizzazione del partito. A Bordiga, che proponeva una organizzazione di tipo territoriale, Gramsci contrapponeva la necessità di un partito che per essere di classe e della classe, fosse fondato anzitutto con una organizzazione sui luoghi della produzione, o sui posti di lavoro, per banalizzare.

E’ anche noto che dopo la svolta di Salerno e con la via italiana al socialismo il partito fu organizzato in entrambi i modi ma anzitutto sulla base delle strutture territoriali (una sezione accanto ad ogni campanile).

Ebbene se riflettessimo e adottassimo realmente un cambio di prospettiva dovremmo realmente adottare un cambio di organizzazione, e quella “classica” verrebbe in soccorso più di quella attuale. Perché oggi i nostri esangui partiti sono ancora organizzati alla maniera del Pci.

Certamente non potrebbe farsi finta che gli ultimi 60 anni non siano trascorsi, anche organizzativamente, ma si tratta di scegliere l’impronta e la direzione fondamentale che si vuole assumere, in campo politico come in campo organizzativo.

Non meno importante, ciò dovrebbe avere delle conseguenze anche in campo sindacale. Chiaramente non sarebbe possibile continuare come si è fatto fino ad oggi, ove ciascun compagno che partecipa all’attività sindacale lo fa del tutto indipendentemente dalla propria appartenenza di partito. Dimenticando completamente lo scopo di conquista al partito della maggioranza della classe operaia, o perlomeno della maggioranza degli operai coscienti e attivi. E questo vale anche per tutte le altre organizzazioni in cui militano i compagni del partito, dalle associazioni culturali o di scopo a quelle femminili o a quelle temporanee nate per questa o quella lotta particolare. Come dovrebbero discutersi il metodo e lo stile di lavoro e l’importanza della formazione teorica nel partito.

In conclusione tuttavia, non si tratta solo di unire i comunisti, conquista necessaria ma non sufficiente, qui si tratta di scegliere per rimettersi in cammino.