Una breve analisi in attesa del congresso

di Ezio Grosso, segreteria Federazione PdCI Torino

prospettivepericomunisti bannerQuando nel 2005, in Germania, l’esito elettorale sancì un risultato di sostanziale pareggio tra le due principali forze politiche rendendo impossibile la consuetudine delle “piccole coalizioni” (SPD-Verdi da una parte e CDU-CSU-Liberali dall’altra) obbligandole, di conseguenza, a riesumare il percorso della “grande coalizione”, tanti compagni in Italia, abituati a seguire con attenzione le dinamiche politiche nazionali ma, sostanzialmente estranei a quelle europee e tedesche in particolare, hanno immaginato una possibile apertura a Die Linke. Naturalmente, ciò non solo non è avvenuto, ma non è nemmeno stato preso in considerazione. A difesa di questi compagni però, bisogna dire che, essendo tale ipotesi, almeno dal punto di vista teorico, sostanzialmente avvicinabile allo spirito dell’Unione del 2006, nell’Italia di quegli anni sarebbe stata senza dubbio proposta e, con tutta probabilità, perseguita, mentre in Germania, era considerata da tutti gli schieramenti assolutamente impraticabile.


Questa premessa, in apparenza, è del tutto estranea alla necessità contingente di attuare un’analisi precisa e disincantata dei dati elettorali, ma spiega perché, talvolta, è necessario mettersi nei panni di un osservatore esterno per riuscire a cogliere con lucidità e, magari anche con la giusta dose di cinismo, l’ovvia banalità di tante dinamiche che, specie a chi è coinvolto emotivamente, tendono a sfuggire.

Proprio per questa ragione ritengo che l’analisi del voto italiano, proposta dai compagni portoghesi e belgi, pur nella loro disarmante e schematica essenzialità, sia molto più coerente ed illuminante della maggior parte di quelle dei partiti italiani che, in un modo o nell’altro, tendono tutte a giustificare enormi errori strategici.

D’altra parte basta individuare con un minimo di attenzione chi ha vinto e chi ha perso:

il Mov5stelle ha vinto in modo netto ed incontestabile;

il PDL ha vinto perché ha recuperato un divario enorme;

la Lega Nord ha perso la metà dei consensi ma ha raggiunto l’obiettivo di vincere in Lombardia;

il PD ha perso perché ha dilapidato un vantaggio enorme;

SEL ha perso perché conferma un insignificante dato storico;

Monti ha perso perché ha spostato pochi consensi dal PDL;

la sinistra con IDV ha perso.

Entrando nel dettaglio e raggruppando i risultati in categorie derivate più dalla simbologia degli slogan che dalle proposte reali avanzate in campagna elettorale dai vari schieramenti, il dato che emerge è in assoluta sintonia con l’analisi “estera”:

Mov5stelle, PDL, Lega Nord rappresentano un variegato universo che, pur con motivazioni strumentali e obiettivi diversi, evidenzia e propone una generica ed ambigua contrapposizione all’UE e, pur rivolgendo il proprio messaggio a platee elettorali profondamente diverse per cultura, ceto e localizzazione geografica, tende a proporre una limitata varietà di soluzioni semplicistiche stuzzicandone gli istinti più viscerali.

In questo sono stati facilitati dalle politiche economiche del governo Monti e dalla solita memoria corta dell’elettorato italiano.

La Lega Nord ha colto la palla al balzo del governo Monti e, per recuperare almeno in parte il consenso dilapidato dal disastro bossiano, é passata platealmente all’opposizione accusando l’UE, la BCE, l’Euro ecc. di nefandezze vere o presunte e, anticipando di un anno la campagna elettorale, ha trasformato il federalismo in una specie di fumosa secessione fiscale, ha rispolverato le vecchie parole d’ordine contro “Roma ladrona” mettendo in secondo piano l’immigrazione islamica.

Bisogna ammettere però, che Maroni ha dato prova di essere un buon stratega: con un partito in caduta libera è riuscito ad imporre al PDL, nonostante i frequenti attacchi demagogici per il sostegno a Monti, la propria candidatura alla guida della Lombardia, centrando così l’obiettivo prefissato del controllo di tutte le grandi regioni del nord.

Il PDL, che l’anno precedente, con tutta probabilità, avrebbe subito una disfatta epocale ma, grazie ad un Berlusconi che si è sapientemente messo ai margini della scena per un certo tempo, pur continuando ad esprimere tramite i media l’ambiguità di un appoggio mugugnante al governo Monti ed in parallelo evidenziando come entusiastico quello del PD, gli attacchi quasi quotidiani alla Germania, alla BCE, o la reiterata difesa della privacy con l’implicita difesa dell’evasione fiscale, le solite sparate contro la magistratura politicizzata ecc. e che poi, risorto pochi mesi prima delle elezioni, da attore consumato, è riuscito a promettere qualunque cosa in base alle indicazioni statistiche di gradimento, ha centrato l’obiettivo di un sostanziale pareggio al senato.

Il Mov5stelle merita un’analisi più approfondita. Intanto, almeno per il momento, è una forza politica inscindibile dal suo catalizzatore Beppe Grillo che, forse ispirato dalle massime di von Clausewitz, pensando che la politica non fosse altro che il proseguimento del teatro con altri mezzi, tramite il suo blog ed i vaffanculo days, ha cominciato qualche anno fa a proporre ad una platea diversa e sempre più ampia un nuovo adattamento del suo repertorio.

Come tanti della mia generazione, ho cominciato a vedere gli show di Grillo negli anni ’70 e, a mio giudizio, non sono sostanzialmente cambiati nel corso degli anni: una specie di Savonarola urlante ed iroso che dileggia e prende a frustate verbali le mode, i simboli, i personaggi, le situazioni, le convenzioni del momento ecc. La sua fama e fortuna sono cresciute a dismisura quando, utilizzando un linguaggio sempre più esplicito e provocatoriamente senza censure, ha cominciato a colpire il mondo della politica, della pubblicità e del potere economico in TV, riuscendo a farsi espellere una prima volta, per ritornarvi poi, in seguito a lunghe trattative ed a furor di popolo, rimandandole e centellinandole per trasfigurarle, infine, in eventi mediatici dalla valenza messianica.

Grillo, per dirla alla Manzoni, è solo un vecchio istrione che non ha saputo rinnovarsi ed è andato a sciacquare i panni della propria arte nell’Arno della modernità, ma anche che, con grande ed intelligente opportunismo, ha avuto il coraggio e la sfacciataggine di proporre ad una nuova generazione una rassegna estemporanea e disomogenea di alcuni slogan e luoghi comuni della sua.

In effetti, il mantra della necessità di costruire uno stato nuovo dopo aver abbattuto il vecchio, suona un po’ troppo simile a qualche vecchio slogan da corteo di Lotta Continua che, all’epoca però, nessuno ha mai preso veramente sul serio. Alcuni compagni hanno rilevato preoccupanti analogie tra il discorso mussoliniano dell’aula sorda e grigia, e quello di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno: Mussolini voleva solo arrogare a sé la possibilità, peraltro in quel momento impraticabile, di sottometterlo, Grillo quella di svilirlo per enfatizzare la necessità di trasformarlo in un organismo “realmente democratico”, ossia in un’ipotetica agorà virtuale a partecipazione diretta ma, in realtà, strutturalmente programmata al consenso. Il problema vero è che, nella loro ingenuità, troppi militanti del Mov5stelle credono sul serio alle sparate di questo apprendista stregone che, per continuare a ricoprire il ruolo di guida del movimento rischia di finire dominato e travolto da quegli stessi demoni che ha incautamente evocato.

PD, SEL e area Monti, rappresentano forze politiche che qualunque osservatore esterno indicherebbe senza dubbio quali interpreti, seppur caratterizzati da una diversa sensibilità, dell’ortodossia europeista a cui fanno incondizionato riferimento. Sono accomunate anche dal fatto di essere state battute, in modo forse non disastroso nei numeri, ma profondamente umiliante nella vanità spartitoria di un trionfo annunciato.

Nel dicembre 2011, quando ha ricevuto l’incarico di formare un governo, Monti è stato oggetto d’incontenibili manifestazioni popolari di giubilo (principalmente da parte di militanti PD) ed accolto quale novello Simon Bolivar. Se l’irrazionalità di tale atteggiamento da parte di questa folla può essere compreso e spiegato con la gioia di essere stati liberati dall’occupazione berlusconiana, percepita emotivamente quale peggio assoluto, altrettanto non si può fare per i quadri ed i dirigenti del PD. Essi non potevano non sapere che Monti avrebbe onorato fino in fondo il mandato da commissario assegnatogli più a Berlino che a Roma e che sarebbe riuscito ad imporre al Paese tutto quel che non era riuscito a fare un Berlusconi ormai considerato irrimediabilmente inaffidabile. Ed essi non potevano non sapere che il Paese voleva e chiedeva giustamente elezioni anticipate, come in Spagna e Grecia d’altra parte.

Di Monti si potrà magari dire tutto ed il contrario di tutto, ma non lo si potrà mai accusare di essere disonesto ed incoerente. In effetti, se si ingaggia un ladro confesso affidandogli l’incarico di rubare, egli resterà sì un ladro, ma non potrà mai essere accusato di disonestà.

E Monti corrisponde del tutto a questo ipotetico personaggio, anch’egli non ha mai nascosto le sue origini, il riferirsi alla grande imprenditoria finanziaria internazionale e, con assoluta coerenza ed onestà, ha portato avanti senza scrupoli la lotta della sua classe.

Conscio dei limiti intrinseci di rappresentatività e gradimento di detta classe in Italia, ha cercato fino all’ultimo di evitare un impegno diretto nella competizione elettorale, almeno fino a quando, più costretto che rassicurato dall’appoggio dei partner europei ha dovuto accettare. Infatti l’obiettivo di traghettare tanti voti dal PDL grazie ad un’immagine più sobria e coerente, poteva sembrare relativamente facile ai poteri europei, abituati a considerare Berlusconi un’anomalia derivante dal controllo dei media piuttosto che il fulcro di un modo opportunista, sicuramente squallido e degradante di fare politica, ma presente in Italia almeno dai tempi della monarchia.

SEL, rappresentata da un Vendola ormai senza corte e che, dai tempi della fallita OPA sul PD non ha più potuto permettersi spazi di reale autonomia politica, dovendo ricoprire il ruolo di sinistra interna, si è limitato a fare da spalla a Monti in un teatrino elettorale di veti incrociati, ben sapendo che entrambi, avevano legato in modo indissolubile i propri destini a quelli del PD.

E principalmente all’arroganza narcisistica di quello stesso PD che accetta tutte le contrapposizioni nella convinzione di sanare ogni divergenza ricorrendo ad una parodia delle primarie statunitensi, che nella inverificabile certezza di un mondo politico bipolare si considera il depositario della verità progressista, che conduce una campagna elettorale demenziale basata su proposte generiche e risposte vaghe, che assegna ruoli, incarichi e percentuali di competenza programmando alleanze post-elettorali settimane prima dello spoglio. Un PD che si potrebbe criticare per ore senza consumare tutte le ragioni di critica, ma anche, purtroppo, una forza politica che, per quanto momentaneamente acciaccata continua ad essere un interlocutore irrinunciabile.

Ma la sconfitta più pesante è quella di Rivoluzione Civile che, a distanza di cinque anni, replica in peggio il risultato dell’Arcobaleno. Un risultato pessimo dal punto di vista numerico e catastrofico da quello politico: le esperienze negative di cinque anni extraparlamentari, la genesi di alleanze conflittuali ed incoerenti da quel momento in poi, la lunga sequenza di progetti politici confusi e contraddittori lanciati ed accantonati nell’arco di pochi mesi, il protagonismo individualistico da parte delle dirigenze nazionali e la mancanza di un minimo d’autocritica dopo ogni bocciatura, purtroppo non hanno insegnato nulla.

Per oggettività storica, non dobbiamo dimenticare che, prima dell’Arcobaleno, il progetto di una formazione elettorale unitaria della sinistra, per quanto innescata dalle premesse di quello che sarebbe diventato il famoso “divorzio consensuale”, avrebbe potuto addirittura anticipare la nascita del PD qualora Bertinotti non avesse perseguito l’idea della Grande Rifondazione giocando sulle ipotesi di soglia di sbarramento.

Ciò nonostante l’Arcobaleno, pur decomunistizzato e progressivamente ridotto ad una marmellata elettorale, se raffrontato a Rivoluzione Civile, mostrava almeno un minimo di coerenza progettuale e prospettiva politica. In effetti, quale comunanza d’intenti avrebbero potuto trasmettere all’elettorato forze e movimenti provenienti da universi politici così lontani? Nessuna, a parte un sentimento trasversale di astio e rivalsa nei confronti del PD nella speranza di riuscire ad eleggere una pattuglia eterogenea di parlamentari.

Ma noi comunisti, evitando di piangerci addosso per la già fin troppo analizzata sequela di errori strategici e giravolte opportuniste, dobbiamo, in attesa di un indispensabile Congresso a breve, indicare subito almeno quelli che, nel linguaggio dell’analisi matematica vengono definiti i caposaldi della discussione.

La prima ed irrinunciabile condizione per continuare la discussione dovrà ribadire la necessità dell’esistenza di una forza comunista organizzata.

La seconda condizione sarà decidere se potrà essere il PdCI il fulcro di questa forza e perché.

La terza condizione dovrà stabilire in modo inequivocabile e duraturo la nostra collocazione.

La prima condizione potrebbe apparire scontata, ma non lo è affatto perché, ad esempio, alcuni compagni (anche se personalmente spero pochi) potrebbero desiderare la continuazione (come propone peraltro una parte significativa di PRC) dell’esperienza di Rivoluzione Civile prendendo in considerazione addirittura proposte di scioglimento, altri invece potrebbero proporre di continuare l’attività politica appoggiandosi a forme organizzate e movimenti estranei alla forma partito.

La seconda dovrà necessariamente occupare un punto centrale delle tesi congressuali (perché in tale sede dovrà convergere il lavoro di analisi e confronto sviluppato dalle rappresentanze territoriali) perché quell’assise dovrà necessariamente porsi l’obiettivo di delineare in modo chiaro ed inderogabile le scelte strategiche del Partito per un futuro non breve ed estemporaneo come è stato in passato.

Se la risoluzione dei punti precedenti rappresenta la condizione irrinunciabile per la sopravvivenza di un partito comunista organizzato, la terza, conseguentemente, sarà quella che dovrà, in base ai dati esposti ed alle proposte avanzate, dare risposte certe a tutte le questioni aperte, ridurre a sintesi l’ampiezza di ogni discussione ed enunciare la linea politica per i prossimi anni dando chiare ed inconfutabili indicazioni di collocazione politica.

Proprio perché non ci è dato sapere se abbiamo raggiunto il punto di non ritorno verso l’estinzione, dobbiamo partire dal presupposto, nonostante questi anni sciupati, che sia ancora possibile risalire la china. Ma per fare ciò dobbiamo dichiarare con nettezza e senza ambiguità se la nostra collocazione debba essere nell’area (dell’appartenenza o della collaborazione) del centro-sinistra oppure no e, ancor prima di questo, se riteniamo riformabile il processo d’integrazione europea e quindi collaborare con le forze politiche che lo considerano fondamentale oppure se dobbiamo considerare l’UE una forza d’occupazione e agire (tardivamente) di conseguenza.

Naturalmente, tutti i nostri temi storici (lavoro, beni comuni, diritti, scuola, pace ecc.) dovranno continuare ad essere centrali nell’azione politica, ma potranno essere realisticamente rilanciati con una prospettiva comunista solo se e quando sapremo dare una risposta a quanto esposto.