Proviamo insieme a costruire il futuro dei comunisti in questo Paese

di Stefano Barbieri, segretario regionale PdCI Piemonte

prospettivepericomunisti bannerIl risultato disastroso della lista Rivoluzione Civile alle ultime elezioni politiche, ha aperto dentro al partito una discussione profonda rispetto al futuro della nostra formazione politica, alle sue prospettive e alla possibilità o meno che esso continui ad avere una funzione strategica nel panorama politico italiano.

E’ una discussione giusta e necessaria quella che dobbiamo fare, cominciandola con l’applicazione di un principio imprescindibile, quello della verità.

Credo che sia ora di affrontare seriamente un quesito che spesso non affrontiamo se non con scorciatoie che molte volte sono solo elettoralistiche: cosa vuol dire essere comunisti nel Terzo millennio?


Credo che questo sia il punto dirimente da cui partire.

In questo senso provo a dire quello che penso: per i comunisti è imprescindibile stabilire la diversità tra la strategia e la tattica; il progetto è la strategia e la tattica è l’adattamento al raggiungimento dell’obiettivo progettuale alla fase contingente, ai rapporti di forza reali, anche alle scelte delle alleanze elettorali che di volta in volta vanno verificate e praticate.

Chi pensa di definire strategico il ritorno dentro all’alveo elettorale del centro sinistra compie una vera e propria involuzione della pratica marxista e leninista che mi vede in totale disaccordo.

Molte volte abbiamo definito strategica la ricostruzione del partito comunista in questo paese, come ribadito anche nel nostro ultimo congresso del 2012, e poi abbiamo chiuso la strategia dentro ad un cassetto per inseguire esclusivamente la tattica elettorale dell’accordo prima con il PD, poi con Rivoluzione Civile, dimenticandoci prima di tutto di noi stessi, di cosa siamo, dove andiamo e cosa vogliamo rappresentare. 

Alla fine il risultato è stato che noi oggi non siamo che una forza politica residuale e di testimonianza, che non rappresenta nessuno e che come tale è percepita dall’elettorato di questo paese.

Occorre quindi ripartire da queste domande: Quali sono oggi le politiche che ci interessano? Quali sono gli avversari ed i loro obiettivi? Quali i nostri obiettivi? Qual è lo stato del movimento: le sue risorse attuali e potenziali e le condizioni per utilizzarle? Quali le forze (sindacali, politiche, sociali) con cui allearci per realizzare i nostri obiettivi? Quali le condizioni minime necessarie per un’alleanza? Quali sono i reali rapporti di forze nella società? Ha senso l’esistenza di un partito comunista che non ponga, dentro all’asse della contraddizione Capitale/Lavoro, la necessità politica della rappresentanza del mondo del lavoro salariato? 

E’ necessario provare a rispondere a queste domane. Come? Io credo partendo da una analisi di classe e del blocco sociale per costruire un progetto politico che risponda agli interessi delle classi lavoratrici del Paese, ed un progetto politico non si fonda sulla politica delle alleanze; né che si pensi di allearsi sempre e comunque né, in alternativa, a non allearsi mai a dispetto di tutto.

Abbiamo sempre detto che il Pdci doveva essere, nel rispetto della migliore tradizione comunista italiana ed internazionale, il partito del lavoro e dei lavoratori.

Proviamo a ripartire da qui.

Io penso che la ristrutturazione capitalistica costituisca una “rivoluzione dall’alto” che rompe le rigidità ed i controlli costruiti in decenni di lotte dai lavoratori, scompiglia la composizione di classe, cancella diritti universali restituendoli alla disuguaglianza del mercato, attraverso la forza anticonflittuale del ricatto occupazionale, trasforma i valori d’uso della riproduzione sociale in valori di scambio per la redditività del capitale.

Si passa insomma al lavoro come generatore del profitto, come questione costitutiva della società e la sconfitta del movimento operaio, anche conseguente alla fine dei paesi del cosiddetto socialismo reale, ha determinato una situazione di egemonia del “pensiero capitalistico”.

Un “pensiero unico” che cancella la contraddizione di classe in nome di un interesse comune che esige la rimozione autoritaria delle lotte, divenute un disturbo irrazionale e corporativo rispetto al regolare funzionamento del sistema. 

Ed è con questa logica che si può pensare che il progresso prescinde dallo sviluppo sociale, anzi esige un suo arretramento congiunturale, sacrificando i bisogni popolari, i servizi sociali, le tutele del lavoro. 

Non è più la politica che fa le scelte, ma il primato della scelta spetta all’economia, alle regole del mercato con i suoi criteri di competitività. 

Io credo che sulla base di queste logiche si siano costruiti i governi degli ultimi vent’anni, con il tentativo, peraltro fallito, di provare ad invertire la rotta nelle esperienze dei governi di centro sinistra dentro ai quali le forze comuniste hanno partecipato a diverso titolo, con una accelerazione ancor più violenta nell’esperienza del governo Monti. 

A quelle logiche oggi sono piegate anche le scelte del Presidente Napolitano e dello stesso Partito Democratico. 

Si badi bene, non mi sfugge il fatto che queste scelte non possano aprire contraddizioni profonde anche dentro a quel partito o alla sinistra più diffusa che condivide questo impianto di ragionamento e che ciò debba richiedere da parte nostra un livello di attenzione fondamentale rispetto a quello che succederà, ma ad oggi la condizione di accettazione e condivisione di quel pensiero mi pare innegabile.

Se questa analisi è giusta, i comunisti (e peraltro il sindacato) dovrebbero porsi il problema della riunificazione della classe lavoratrice, sapendo che nelle attuali condizioni del mercato del lavoro occorre operare una ridefinizione ampia del lavoro subordinato, comprendendovi una molteplicità di figure spesso assai lontane dalle forme usuali del passato, analisi che però non può avvallare la tesi semplicistica e un po’ stucchevole che porta, anche a sinistra, qualcuno a dire che “il lavoro operaio non c’è più” perché esistono nuovi lavori.

E’ però evidente che anche questi che chiamiamo “nuovi lavori” rientrano nella categoria del lavoro salariato, di cui certo vanno riscoperti interessi, valori e soggettività, al fine di ricondurli ad un ideale ed un progetto comune. 

Sappiamo bene che la coesione sociale non avviene più automaticamente, come processo indotto dallo sviluppo economico o dalla presenza di soggetti sociali forti, ormai in larga misura dispersi. 

Centrale è dunque l’esistenza di un progetto generale, politico, economico e sociale, di ricomposizione del mondo del lavoro. Ciò esige una forte determinazione politica soggettiva per la definizione di un progetto di ricomposizione di classe e di un nuovo blocco sociale, capace di dare portata generale alle singole rivendicazioni particolari, di superare i corporativismi in una solidarietà estesa, di riunificare la frammentazione delle esperienze in una coscienza ampia, attraverso la sperimentazione collettiva di valori praticati nell’azione sociale, arricchendola e trasformandola sulla base della verifica delle esperienze compiute.

Un progetto capace di imporsi nella scena politica, di contrastare il pensiero unico capitalista, comprendendo che anche la crisi delle istituzioni è frutto di un processo economico che ha collocato i centri di potere in strutture tecnocratiche, pubbliche e private (agenzie internazionali, il Fmi, la Banca Mondiale, la Bce, ma anche le grandi multinazionali industriali e finanziarie) sottratte non solo al controllo democratico popolare, ma anche a quello degli stessi governi.

Nella società in crisi avanza una “autonomia della politica” che trae le proprie ragioni non più dalla partecipazione e dal consenso, dalle proprie radici sociali, ma, al contrario, dalla riduzione autoritaria del conflitto sociale sulla base di una razionalità generale fondata sulle ragioni del mercato. 

Nelle organizzazioni politiche, e nemmeno noi ne siamo stati immuni, si è prodotta la perdita di efficacia, ci si è confinati nell’autoreferenzialità e si è scelto di abbandonare, magari inconsapevolmente, una rappresentanza di classe in nome di un accordo elettorale.

Dobbiamo cambiare questa rotta.

In questo senso voglio essere chiaro: sguardo ampio e mente aperta a sinistra e al centrosinistra per capire le evoluzioni della fase, quali sono le reali condizioni, i rapporti di forza, la possibilità di incidere nel cambiamento per stabilire, con duttilità tattica, dove, come e quando si può costruire alleanze elettorali. Ma prima va messo in chiaro, soprattutto a noi, il nostro progetto.

Se la strategia rimane, e per me è ancora quella, la ricostruzione di un partito comunista, è irrinunciabile farlo per rappresentare politicamente il mondo del lavoro salariato che, seppur nelle sue “nuove forme”, rimane il soggetto sociale della trasformazione generale della società.

E’ tempo però che il partito affronti, dentro ad una discussione congressuale seria e vera da tenersi presto, se andare in questa direzione o in altre altrettanto legittime.

Facciamolo dentro ad un confronto che fa dell’unità e non dell’unanimismo una delle sue caratteristiche fondamentali, ma non si abbia paura del confronto delle nostre idee che potranno essere, e certamente lo saranno, diverse tra loro.

Facciamo di quelle diversità la ricchezza di un dibattito che va collettivizzato dentro e fuori il partito, chiamiamo al confronto con noi, con le nostre idee, il mondo sindacale e le parti più avanzate della società, costruiamo un appuntamento nazionale di confronto con il mondo del lavoro con il quale proviamo a cominciare ad interloquire. 

Insomma alziamo il livello del respiro del nostro progetto oltre noi, verso la società.

Partiamo da noi per andare oltre.

Strada lunga e difficile? Si, sicuramente si. Ma non ne vedo un’altra.

E proviamo insieme a costruire il futuro dei comunisti in questo Paese.