Perché siamo passati da gramsci al pd?

sezione pcidi Alessandro Pascale

Pubblicato il 3 giugno 2020 su 
Cumpanis.net

Mi è stato chiesto dalla redazione della nuova rivista 
Cumpanis un contributosulla storia del PCI, con il tentativo di identificare le “degenerazioni” dell’organizzazione. “Degenerazione” è in effetti una brutta parola, che esprime in sé un netto giudizio politico negativo. È comprensibile che su questo tema si sia preferito utilizzare in passato un più neutro “mutazioni genetiche”, cercando di mantenere un giudizio descrittivo più che valoriale. D’altronde che ci sia stata complessivamente una degenerazione è innegabile. Basta ricordare l’adeguato sarcasmo con cui Costanzo Preve ha denunciato il passaggio “da Gramsci a Fassino” per rendere innegabile questo giudizio negativo. Forse è più corretto parlare di un susseguirsi e di un intrecciarsi di mutazioni genetiche, che sfociano in alcuni punti di svolta, veri e propri passaggi storici, in cui è avvenuto un cambiamento identitario, con un salto quantitativo e qualitativo, che rende il partito complessivamente sempre meno adatto ad affrontare la crisi generale del movimento comunista internazionale degli anni ’80. L’insieme di queste mutazioni genetiche ha portato nel tempo ad una degenerazione, cosa acquisita quanto meno nel movimento comunista nostrano. C’è molta divisione invece sull’identificazione e sull’entità delle varie mutazioni genetiche avvenute nel corso della storia del movimento comunista italiano. Tali divisioni analitiche si riverberano purtroppo in divisioni politiche che rendono molto più difficile l’azione egemonica in seno al totalitarismo “liberale” in cui siamo immersi. 


Dopo oltre 10 anni di militanza partitica e ricerca storico-politica, non posso certo pretendere di poter esaurire un lavoro di ricerca vastissimo, sul quale molti compagni si sono dedicati con profitto sicuramente maggiore negli ultimi anni. Le righe che seguono non hanno quindi la pretesa di chiudere la discussione e fornire una nuova interpretazione della storia del PCI. Manca al presente scritto un carattere pienamente scientifico e un impianto espositivo organico che spieghi e motivi le varie affermazioni fatte. Le tesi che vado a presentare hanno quindi carattere parziale e temporaneo, necessitando per il futuro un maggiore approfondimento e revisione. Per ora, esse rispecchiano alcuni risultati e convinzioni personali a cui sono giunto con la pubblicazione dell’opera In difesa del socialismo reale e del marxismo-leninismo (dicembre 2017), presentate poi meglio, ma invariate nei contenuti, nella Storia del Comunismo (settembre 2019). Si trovano in questo lavoro alcune centinaia di pagine alle questioni riguardanti l’Italia e il PCI[1]. A tale opera rimando quindi per approfondire ed eventualmente suggerire modifiche e integrazioni, per migliorare l’analisi.

LA MUTAZIONE PIÙ IMPORTANTE: IL BERLINGUERISMO

Il movimento comunista italiano ha ormai capito da tempo il valore distruttivo della “svolta occhettiana”, anche se forse non ha riflettuto abbastanza sulla rapidità con cui è avvenuto il passaggio dal marxismo-leninismo al “liberal-socialismo”, espressione quest’ultima probabilmente fin troppo generosa per definire il PD. Quest’ultimo è diventato ormai un partito organico alla grande borghesia, cercando di assolvere la funzione svolta negli Stati Uniti dai “democratici”: l’ala sinistra dell’imperialismo, con sfumate venature “social” e cosmopolitiche. Evidentemente i problemi non risalivano solo ad Occhetto, ma dovevano trovarsi anche nell’età berlingueriana. Questa è un’analisi che oggi in molti non hanno ancora saputo o voluto fare, ribadendo i fasti di un tempo che fu, quando quel partito era votato da un italiano su tre. Un grande consenso di massa, ma a quale prezzo? 

Gli anni ’70, ed in particolar modo la politica berlingueriana del “compromesso storico”, dell’eurocomunismo e della solidarietà nazionale (1973-79) si sono rivelati il periodo in cui alcuni capisaldi concettuali del marxismo sono saltati: dalle svolte nella teoria economica (vd il dibattito tra “conflittualisti” guidati da Graziani e “compatibilisti” con Modigliani leader) alla “politica estera indipendente” che conduce alla rottura con Mosca nel momento più favorevole, la seconda metà degli anni ’70, per il movimento comunista mondiale. Mentre in pochi si accorgono della messa in crisi di alcuni fondamentali del marxismo, un numero crescente di compagni, che darà luogo al gruppo Interstampa, protesta contro la rimodulazione sempre più chiaramente anti-leninista della “via italiana al socialismo”. 

Non ha senso parlare di tradimento, perché non si può negare la buona fede ad Enrico Berlinguer, che è stato un grande comunista, il cui esempio etico è un modello comportamentale, anche in considerazione della sua idea di “austerità”, sulla quale l’essere umano dovrebbe riflettere, al fine di uscire dalla condizione di totale alienazione che riguarda la grande parte delle masse popolari nell’attuale totalitarismo “liberale”. La capacità di interpretare correttamente il rapporto tra impegno politico e vita privata può consentire agli uomini il ricongiungimento di una vera e propria vita activa. Mi si perdonerà se cito Hannah Arendt, ma occorre riflettere in profondità sulle ragioni che portano strutturalmente alla degenerazione ideologica. 

LA REGRESSIONE DELLA COSCIENZA DI CLASSE

«la coscienza di classe è sempre reversibile, 
cioè può “regredire” dai livelli precedentemente raggiunti»
(Vittorio Rieser)

Tale discorso non è puramente teoretico, ma evidentemente assai pratico e sottovalutato, forse anche nella stessa lezione leninista, che si fonda su un partito ristretto di rivoluzionari dotati di una coscienza inossidabile.

Biologicamente parlando, l’essere umano ha sviluppato in maniera decisiva le proprie capacità cognitive grazie al lavoro manuale. La stessa riflessione mentale, sviluppata secondo sistemi di logica e razionalità più o meno avanzata, si sviluppa qualitativamente grazie allo sviluppo delle nostre capacità psico-fisiche. È insomma il lavoro che ha reso intelligente l’uomo, che ha cristallizzato le proprie prime idee sia a livello logico che morale. Che il primo istinto dell’uomo, come essere naturale, sia quello di difendersi e garantire la propria esistenza, è un fatto assodato. L’uomo è verosimilmente per natura un animale egoista e la razionalità è sempre soggetta al possibile regresso di lasciarsi vincere da un irrazionalismo naturale o “elaborato” (intendendovi i modelli culturali più elaborati, come quelli analizzati da Lukàcs ne La distruzione della ragione). Che abbia ragione l’ultimo Freud a dire che l’uomo sia strutturalmente composto da una pulsione aggressiva, quello che per Bergson sarebbe forse “l’istinto”, e per Nietzsche il “dionisiaco”, è cosa che qui interessa relativamente dal punto di vista filosofico, ma un po’ più dal punto di vista politico. Occorre saper investigare infatti anche le radici antropologiche dell’uomo per capire le mutazioni individuali, diventate degenerazioni nei parecchi opportunisti che dai banchi del PCI sono passati a difendere il grande Capitale. 

LA CRISI DELL’IMPERIALISMO

La “caduta dell’utopia” avvenuta con il 1989-91 non giustifica l’abbandono dei principi fondamentali, né tanto meno l’analisi generale, derivanti da un adeguato utilizzo delle categorie analitiche del materialismo storico e dialettico, la teoria più avanzata assieme all’analisi del Capitale, ben interpretate dal marxismo e dal leninismo. Si dovrebbe osservare che oggi riferimenti costanti a Marx, Engels, Lenin siano tuttora ben presenti nei discorsi ufficiali e programmatici del Partito Comunista Cinese, che si appresta a prendere il controllo della globalizzazione mondiale. Siamo forse più vicini che mai ad una svolta nella svolta nella storia dell’umanità. Salvo guerre, che sarebbero catastrofiche per tutti, la tendenza storica mostrata dagli indici economici e dall’analisi delle tendenze politiche, ci offre il quadro di una potenza economicamente superiore al bastione dell’imperialismo occidentale, gli Stati Uniti d’America. Bisogna riflettere approfonditamente su questi aspetti, per capire come agire nel contesto di crisi sistemica del capitalismo. 

L’analisi antropologica necessita un approfondimento e dato che la degenerazione politica ha riguardato tutte le società occidentali, deve inquadrarsi in un’ottica più ampia: oggi in Occidente la sconfitta ideologica ha raggiunto una portata tale che solo ora, nel momento di massima crisi del capitalismo dai tempi del 1929, ci si sta risollevando dalle macerie del 1991. Dopo la sconfitta del movimento di Seattle, si è affermato un vero e proprio totalitarismo “liberale” in Occidente[2].La crisi del 2007-08 non ha colpito in maniera profonda la Cina, che ha continuato a crescere con numeri impressionanti mentre l’Occidente sprofondava nel baratro della recessione. L’imperialismo si è fatto più sfacciato portando la guerra in Libia, Siria, Ucraina, Yemen, operando sovversioni politiche che hanno messo in dura crisi il “socialismo del XXI secolo” dell’America latina. Gli USA stanno cercando di salvaguardare un impero che si sta sgretolando sotto il colpo della cooperazione economica pacifica operata dalla Cina, ma anche per la rivolta crescente dei popoli del “terzo mondo”. Tra le masse popolari occidentali è però cresciuta enormemente la critica al capitalismo neoliberista, e non sono pochi coloro che tornano a parlare di socialismo. La crisi del 2020, che si ripercuoterà nei prossimi anni, può rafforzare queste opposizioni al punto da renderle dominanti. 

IL COMUNISMO E L’ANALISI DEL MOVIMENTO COMUNISTA ITALIANO

Noi dobbiamo lavorare per rafforzare queste istanze, rimettendo al centro del dibattito pubblico il valore progressivo del comunismo, ideale verso cui tendere, nell’ottica di uno sviluppo progressivo che parta dalla costruzione di una società socialista. Il movimento comunista mondiale può trarre grande giovamento da questa nuova situazione internazionale, se capisce il ruolo progressivo della Cina e struttura le proprie posizioni politiche in modo da favorire questa fase di transizione storica.

Il comunismo tornerà ad essere, come ancora negli anni ’50, la visione di società più razionale possibile. Sarà la rivolta del “Terzo mondo”, ed in particolar modo della Cina, a mostrare alle classi lavoratrici occidentali la necessità di sovvertire questo capitalismo incapace di garantire il soddisfacimento dei nostri bisogni essenziali. Alle organizzazioni comuniste occidentali spetta il compito di rimediare ai propri errori passati, facendosi trovare pronti per agire in quella che si annuncia come una “fase di movimento”, che non è esente da rischi di deriva autoritaria. La scelta strategica da percorrere non può che partire dall’analisi dei risultati ottenuti storicamente dai vari assetti tenuti dal PdC’I e poi dal PCI; è doveroso e utile gettare un occhio anche alle storie degli altri movimenti comunisti, ed in primo luogo di quello sovietico. Capire che Berlinguer aveva torto sulla Polonia e sull’«esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica» (dicembre 1981) è un altro tassello importante, così come la famosa preferenza per l’«ombrello della NATO» (giugno 1976). Perché nel 1956 Togliatti sostiene gli interventi sovietici a Berlino (1953) e Budapest (1956) mentre la direzione collegiale di Longo denuncia quella di Praga (1968)? È evidente che in quel periodo è avvenuto qualcosa di importante, perché non necessariamente è stata l’URSS ad allontanarsi dai principi fondamentali del comunismo… 

I molti compagni italiani, in particolar modo i “berlingueriani”, che pensano che il loro leader fosse nel giusto, dimenticano che c’era un intero movimento comunista internazionale a condannare le tesi italiane. La verità è che il PCI già in quegli anni aveva maturato una mutazione ideologica nel senso di una eccessiva infiltrazione di “liberalismo”. 

I DUBBI SUL “PARTITO NUOVO” TOGLIATTIANO

Il processo origina però da lontano. Pensiamo alla situazione del partito nel 1943: poche migliaia di quadri, ben strutturati sul marxismo-leninismo e militanti consapevoli. Molti hanno già esperienza militare avendo combattuto in Spagna. Grazie all’insuperato modello organizzativo leninista, un manipolo di uomini e donne costruisce la resistenza armata al nazifascismo. Nello stesso anno è stato sciolto il Comintern. Togliatti concorda la linea con Stalin. Pensare che Togliatti fosse il semplice facchino di Stalin è ingenuo e infantile. Togliatti è un uomo intelligente che aveva le sue idee personali sul socialismo già da tempo, forgiandole in un confronto-scontro con Gramsci, di cui si è fatto l’interprete principale, oltre che con l’esperienza diretta della realtà sovietica di epoca “staliniana”. 

Togliatti conosceva le idee di Gramsci e ha ritenuto di usarle, seppur in una propria visione “moderata”, per costruire i presupposti della “via italiana al socialismo”. Non ci si limita ad un accordo tattico con le altre forze antifasciste. Tutte le manovre che vengono realizzate fino al 1945 potrebbero essere viste come un tentativo tattico del gruppo dirigente per realizzare una rivoluzione socialista, con tanto di conquista finale del potere politico. Questo è ciò per cui hanno combattuto migliaia di partigiani comunisti, che non avevano interesse a ritornare sotto i padroni di un tempo, passati dal fascismo alla democrazia cristiana. La rivoluzione però probabilmente non è mai stata voluta, o ritenuta possibile, da Togliatti. Höbel ha evidenziato come le idee di un socialismo “democratico” e più liberale si trovino già nel Togliatti giovanile e del Comintern (anni ’30). È possibile che i conflitti politici e sociali interni all’URSS l’abbiano convinto della necessità di ripensare una nuova formulazione del socialismo. Considerazioni geopolitiche possono aver pesato nell’analisi togliattiana, ma l’impressione è che valgano soprattutto per l’epoca successiva all’agosto 1945, momento in cui gli USA fanno esplodere la prima bomba atomica avviando la guerra fredda. 

Da quel momento in poi fare la rivoluzione in Italia rischia di portare ad una crisi di carattere internazionale. Nonostante nel 1945 e nel periodo successivo si assista a tentativi rivoluzionari in decine di paesi del mondo, compresa la vicina Grecia, l’Italia rimane immobile. Si poteva forse agire diversamente nel periodo che va dall’aprile all’agosto del 1945, ma oggettivamente era logico tentare di consolidare il proprio riconoscimento popolare attraverso una libera elezione democratica. Non potevano immaginare Togliatti e il resto del gruppo dirigente tutti i trucchetti della “guerra psicologica” che avrebbero usato gli USA, alleati della grande borghesia nostrana (si vedano gli elenchi della P2) per impedire ai comunisti di andare al potere. Migliaia di vittime di stragi mafiose e del “terrorismo di Stato” stanno lì a dimostrarlo. 

È evidentemente impossibile per i comunisti andare al potere democraticamente in un paese “liberale”, borghese, alleato dell’imperialismo statunitense, e seppur a “sovranità limitata” ormai da tempo rinnovata potenza imperialista, che si spartisce una parte della torta, ossia del controllo dei mercati internazionali. Questa è una lezione importante di cui tenere conto, che pone dei grandi limiti all’elaborazione togliattiana del marxismo. È fin troppo noto come sia Marx che Lenin, basandosi principalmente sull’esempio della Comune di Parigi (1871), ritenessero necessario che il proletariato operasse uno strappo netto con le istituzioni statali borghesi. 

La rivoluzione sta nella necessità di operare una rottura netta, irreversibile, su alcune questioni fondamentali, le più importanti per l’essere umano. Per operare una simile rivoluzione serve l’azione delle masse popolari. La necessità di avere un partito di quadri strutturati sul modello leniniano del Che fare? è ancora oggi fondamentale, così come un recupero critico degli insegnamenti fornitici da Gramsci e Togliatti. 

PROBLEMI IRRISOLTI DEL PARADIGMA GRAMSCIANO-TOGLIATTIANO

Mettiamo un attimo da parte la questione di come si passi da questo livello a quello della presa del potere, argomento su cui oggi occorrerebbe ragionare bene. Ipotizziamo che la rivoluzione sia stata vittoriosa: se non lo si è ancora fatto, sarà necessario costruire un partito di massa, che educhi culturalmente e politicamente milioni di persone, in rapporto dialettico con la “società civile”, eufemismo per definire i circoli intellettuali della borghesia. L’idea gramsciana che questo potesse avvenire in una lunga “guerra di posizione” attraverso la costruzione delle “casematte” per conquistare l’egemonia culturale, è stata brillante, ma si è scontrata con un duplice problema storico: con l’allargamento del partito, cioè con la sua trasformazione da “operaio” a “popolare”, si sono introdotti nel partito nuovi strati sociali, membri di un’intellighenzia riconducibile al pensiero piccolo-borghese; si infiltrano poi gli opportunisti, nonché le spie. Anche il migliore rivoluzionario fonda il proprio agire sulla propria coscienza. L’uomo è forgiato quotidianamente, in maniera per lo più inconscia, dalle proprie esperienze quotidiane, dal proprio vissuto. Un comunista che ha vissuto le asprezze dell’esilio, del carcere, del fascismo, della guerra, della lotta armata, è un comunista che difficilmente ripudierà completamente le proprie idee, ma delle centinaia di migliaia di partigiani comunisti in pochi conoscevano le opere dirette di Marx ed Engels. 

Il “partito nuovo” ha certamente comportato un fattore decisivo per il rinnovo della cultura italiana, per l’accrescimento del proprio livello di civilizzazione, razionalizzazione ed educazione politica. Allo stesso tempo occorre constatare che la crescita dell’intellettuale collettivo non è stata sul lungo termine soddisfacente. Se il PCI è degenerato è perché le degenerazioni sono state accettate più o meno consapevolmente dai membri del partito. Il fatto che il centralismo democratico sia degenerato facilmente in Italia nel centralismo burocratico, poteva avere ancora un fattore progressivo nel periodo in cui le organizzazioni territoriali erano in mano a quadri partigiani e compagni leninisti della prima ora. Nel momento in cui alla vecchia guardia è stata sostituita una facciata più “pulita”, nell’ottica di conquistare il consenso democratico, si è consumata un’altra svolta importante.

Nell’impostazione gramsciana assumeva una funzione fondamentale il radicamento operaio attraverso cellule industriali. Si tratta del modello organizzativo più utile per conquistare un radicamento nella classe lavoratrice, oltre ad avere un sindacato di riferimento (o quanto meno avere una linea sindacale di classe). All’inizio degli anni ’50 questo modello viene abbandonato, dando avvio alla stagione dei circoli. Oggi quei gloriosi circoli, che assommavano a volte migliaia di iscritti l’uno, si contano in Italia sulle punte delle dita, ridotti spesso a conciliabili di compagni anziani che continuano a metterci un sincero ardore, non capendo però perché i giovani li hanno abbandonati. Una discussione politica fatta tra operai è certamente diversa rispetto ad una discussione politica in un circolo in cui sono presenti intellettuali, studenti, avvocati, comunisti di origine piccolo-borghese, più “studiati” e bravi a parlare in pubblico avendo potuto garantirsi una migliore istruzione.

Intendiamoci: non c’è niente di male nel fatto che un borghese possa essere un membro del partito. Non dimentichiamo mai le origini sociali di Marx, Engels e Lenin, “traditori della loro classe di appartenenza”. Indubbiamente però anche i comunisti, come ogni altro essere umano, subiscono gli influssi sociali, le mode, le tendenze, le provocazioni del “sistema”.

Il Panem et circenses esiste da millenni, e sarebbe ingenuo pensare che l’impero non agisca implacabilmente e con ogni mezzo una lotta strenua per l’egemonia culturale e quindi politica, colpendo anche tra i ranghi del partito comunista e influenzando negativamente le frange più deboli. A risentirne di più sono i lavoratori intellettuali, i più “colti” in quanto educati da un liceo in cui gli sono stati insegnati i valori del liberalismo. Quelli che tutto sommato hanno un buon lavoro e non faticano così tanto. Quelli che magari non hanno mai lavorato in vita loro, passando direttamente dai collettivi universitari alle strutture organizzative del partito e del sindacato. Non è un peccato fare di lavoro il rivoluzionario, ma è molto importante trovare un equilibrio tra vita pubblica e vita privata. L’autosufficienza economica è la premessa necessaria e indispensabile per mantenere l’autonomia personale, etica e politica. Il rischio di mutazione, nella mancanza di questa condizione, non è automatico, ma più probabile. Qualcuno è riuscito a rimanere saldo fino alla fine, ma il caso di Massimo D’Alema e di molti altri “ex-comunisti” continua a gridare vendetta. 

A favorire il partito ad un partito relativamente più “leggero”, in epoca togliattiana, è la rimozione dai vertici dirigenziali dei “secchiani”, operazione propedeutica per stroncare l’interpretazione verosimilmente più genuina del modello organizzativo rivoluzionario e conflittuale immaginato da Gramsci; un modello in cui gli intellettuali si sottomettono al partito, si rendono “organici” alla classe proletaria, e non viceversa. Il modello “gramsciano-togliattiano” ha evidentemente fallito nel garantire il ricambio qualitativo del partito. Un partito ingente quantitativamente, ma che è stato eroso sul lungo termine qualitativamente.

Tutte le mutazioni successive sono sintetizzabili nell’affermazione di Lukàcs per cui i dirigenti italiani hanno continuamente invertito (confuso, scambiato) la tattica con la strategia, cedendo un pilatro dopo l’altro. La consacrazione della togliattiana “via italiana al socialismo” ha d’altronde potuto emergere solo dal 1956, dopo la morte di Stalin, consapevole che la linea togliattiana fosse nella fase del dopoguerra tutto sommato comoda, essendo l’URSS sulla difensiva nello scenario internazionale (come ha ben spiegato Il secolo corto, capolavoro di Gaja). Indizi evidenti mostrano però come all’inizio degli anni ’50, in un contesto mutato, Stalin volesse distogliere Togliatti dalla guida del partito italiano. I critici di Stalin hanno gioco facile a stare con Togliatti. Chi è consapevole invece delle competenze di Stalin in materia, certamente qualche dubbio se lo deve porre.

CHIAVI DI LETTURA ULTERIORI

È impossibile fare la storia con i se e con i ma, ossia sapere se un modello gramsciano-secchiano avrebbe avuto più successo. Il problema di fondo però è un altro, specie oggi, in una società, quella italiana, profondamente cambiata per composizione sociale e per livello ideologico-culturale. Occorre capire come rimodulare tatticamente l’organizzazione leninista alla fase del totalitarismo liberale, in cui il livello della pervasività ideologica borghese è tale da aver quasi cancellato ogni forma di “utopismo” dalla testa dei lavoratori. 

Per fare una rivoluzione, piaccia o no, serve una collettività animata in profondità dall’atteggiamento che Mannheim ha chiamato “chiliastico”. Tale “ideal-tipo” politico è stato criticato con ottimi argomenti nelle ricerche storico-filosofiche di Losurdo, che ne ha evidenziato le conseguenze negative di lungo termine. Forse però occorre ricercare ulteriormente gli elementi positivi e razionali, oltre che l’utilità politica, che può offrire come contributo il marxismo occidentale sul tema (penso ad un Bloch). Per rilanciare in maniera efficace l’immagine dell’utopia comunista occorre però vincere la lotta culturale per imporre un bilancio più equilibrato della storia del movimento comunista contemporaneo. La storia del PCI si può interpretare come caratterizzata da una prima fase chiliastica (1944-48), in cui la base e la gran parte dei quadri era su posizioni rivoluzionarie. I “capi”, che maneggiano meglio le armi della dialettica materialistica, hanno fatto calcoli diversi, cercando di disciplinare (non senza fatica) l’ardore rivoluzionario degli operai e dei capi partigiani. Il gruppo dirigente è l’avanguardia dell’avanguardia. I leader hanno la loro funzione essenziale nel saper costruire (o aderire) alla tesi migliore, la sanno imporre agli altri e ne sanno gestire la messa in atto. Non è evidentemente compito agevole costruire dei buoni leader. A Lenin, il più consapevole marxista di inizio ‘900, ci sono voluti quasi vent’anni di lotta interna continua per conquistare la leadership indiscussa del partito, forgiando il bolscevismo anche nella lotta ai “chiliasti”, oltre che agli idealisti e ai “liberali” menscevichi che si opponevano alle sue tesi sul partito disciplinato.

Forse la storia del PCI andrebbe associata maggiormente a quella della prima SPD: da avanguardia del movimento operaio, socialdemocratico e marxista internazionale a fine ‘800, a collaboratore della borghesia nel voto sui crediti di guerra nel 1914. La prima “revisione” del marxismo era stata all’epoca quella di Bernstein (1899), le cui riflessioni forse sarebbero utili anche per capire quel che è avvenuto nel marxismo del secondo ‘900, non solo in Italia. 

INCONVENIENTI DELLA SOCIETÀ DEI SERVIZI

Forse il problema è strutturale: essendo l’Italia una potenza imperialista, ha potuto garantire, grazie alla globalizzazione liberal-capitalista, la “terziarizzazione” della società, risolvendo uno dei problemi politici principali conseguenti all’industrializzazione del paese: la presenza di una forte classe operaia industriale egemonizzata dall’avanguardia comunista.

Un partito comunista che intenda rivolgersi esclusivamente alla classe operaia, intesa in senso puro come la classe del lavoro “manuale”, può ottenere un vasto radicamento ma perfino al livello massimo della propria espansione possibile, si dovrà confrontare con le tipologie del lavoro “intellettuale”, ossia con quella “aristocrazia operaia” che spesso e volentieri ha preferito stare con i padroni, sperando di diventare come loro. Si tratta di un settore caratterizzato dall’opportunismo che può evolvere in una posa chiliastica quando avviene il processo di proletarizzazione, a seguito di una grave crisi. L’esito non è però necessariamente progressista, perché anche le destre proclamano di voler fare “rivoluzioni” e gli analfabeti politici non mancano ad abboccare. Le eccezioni evidentemente ci sono, ma è molto difficile nei grandi numeri che la visione politica di certi strati sociali sia perfettamente coincidente con quella degli altri. Le esperienze di vita di un lavoratore “intellettuale” sono indubbiamente meno dure e traumatiche di quelle di un lavoratore “manuale”. Tutto ciò riflette purtroppo conseguenze sulla propria filosofia generale, ossia sulla propria visione del mondo, e quindi anche sulla politica. Il problema diventerebbe capire come rapportarsi con queste masse arrivando ad un’adeguata sintesi politica che non porti a mutazioni tali da far degenerare l’organizzazione rivoluzionaria in un impianto fondato sul burocratismo dogmatico. Il fallimento del PCI degli anni ’70 si può leggere in effetti anche in questa maniera: il tentativo fallito di aprirsi al dialogo con il “centro” e i ceti meti, che ha accelerato i fenomeni interni di mutazione già in atto nel periodo togliattiano.

LA RINNOVATA IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE POLITICA

Il problema dell’acquisizione e del mantenimento della “coscienza di classe” è sempre stato un tema importante nel marxismo, ma analizzando la storia del PCI, sembra acquisire una nuova centralità per chiunque intenda oggi partecipare alla ricostruzione del movimento comunista in Italia e più in generale in Occidente. Occorre quindi delineare nel dettaglio un continuo programma di formazione, ricostruendo una visione filosofica, e soprattutto etica, per l’uomo, che può essere libero solo quando riesce a dominare gli impulsi provenienti dalla mera materialità. 

La prassi gira a vuoto senza un’adeguata teoria. Occorre quindi portare avanti l’opera di rifondazione teorica del comunismo, provando ad aggiornare la lezione che ci hanno dato i “classici”. Bordiga, Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta sono giganti che dobbiamo continuare a studiare, traendone ispirazione per la nostra prassi quotidiana. Qualsiasi critica possiamo fare al loro operato, ce li portiamo tutti nel cuore, perché pur facendo molti errori, credevano nei nostri stessi ideali. Gli errori li abbiamo fatti e continueremo a farli tutti. Dobbiamo quindi trovare la maniera di fare tesoro degli errori passati, rintracciabili nella storia del PCI e del movimento comunista internazionale. Sarebbe utile confrontare le esperienze resistenti delle organizzazioni comuniste nel resto del mondo (Cina, Cuba, Corea, Vietnam, Laos, ecc.), chiedendosi se si trovino motivi e pratiche esportabili anche in Occidente. Non si può costruire un modello teorico definito in astratto, senza un collegamento costante con la prassi politica, ma si può ragionare sulle caratteristiche generali necessarie, indicando alcuni accorgimenti possibili da tenere. 

Non c’è soluzione individuale ad un problema sociale, per cui non si può far altro che continuare il percorso di costruzione di un intellettuale collettivo che spero possa confrontarsi anche con queste analisi, criticandole e aggiornandole laddove deficitarie, ragionando costruttivamente sul presente in maniera materialista e dialettica. 

Non può esserci rivoluzione politica se non riusciamo prima a realizzare una rivoluzione culturale capace di rilanciare anche in Italia la questione concreta del comunismo.

1. Si allude in particolar modo alle tesi storiche e politiche presenti nei capitoli 10, 11, 21 e 24. La Storia del Comunismo è scaricabile gratuitamente in formato pdf sul portale Intellettualecollettivo.it.

2. Sul tema si rimanda a A. Pascale, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, 2018.