Per tre deputati qualcuno piagnucola e cambia bandiera. I comunisti sono un’altra cosa

di Fosco Giannini

pdci bandiere simboloIntervento al Comitato Centrale del PdCI. Roma, 9 e 10 marzo 2013

Il Partito comunista cileno, nel 1969, fa parte di Unidad Popular. Nel 1973, dopo il “golpe” di Augusto Pinochet contro il governo Allende, i comunisti sono massacrati e poi costretti dai fascisti all’illegalità. Da cui escono solo nei primi anni ’90, col ritorno della democrazia borghese. E torneranno in Parlamento, eleggendo tre deputati, solo nel 2009, dopo 36 anni di assenza. Dal 1973, dal momento del colpo di stato militare in poi, i comunisti cileni non hanno mai ceduto e oggi sono di nuovo in campo. Il Partito comunista portoghese fu messo al bando, dal regime fascista di Antonio De Oliveira Salazar, nel 1948 e riacquistò la propria legalità e libertà nel 1974, quando la rivoluzione dei garofani abbatté la dittatura di Marcelo Caetano, rientrando in Parlamento, dopo 26 anni di assenza, solo nel 1976, col 12% dei voti e 30 deputati. Oggi, quello portoghese, è tra i più forti partiti comunisti d’Europa.

Il Partito comunista di Grecia ha vissuto in clandestinità, o semiclandestinità, dalla sua nascita sino al 1974, dalla dittatura fascista del generale Metaxas, nel 1936, sino alla caduta dei colonnelli greci, offrendosi sempre come il perno della resistenza e della lotta greca, prima contro l’occupazione di Mussolini (1940) e di Hitler (1941), poi contro l’intervento militare, in Grecia, degli inglesi e degli Usa (1946-1949). E, ancora, contro la dittatura dei colonnelli, dal colpo di stato del 21 aprile del ’67 alla rivolta del novembre 1973 al Politecnico di Atene, ove la dittatura militare cadde. Non aggiungo a queste storie quella, troppo conosciuta, del Partito comunista italiano, che, per vent’anni, si organizza e agisce sotto la dittatura di Mussolini.

Ho rievocato queste dure lotte comuniste per argomentare e rivelare ciò che ho in animo: non riesco ad essere troppo clemente, politicamente e moralmente, con quei compagni (fortunatamente, tra noi, pochissimi) che oggi, dopo la sconfitta elettorale, piagnucolano, si disperano, sino al punto da evocare un abbandono della lotta e della militanza comunista.

Il punto è che il partito comunista non è solo un partito, non è un partito tra gli altri: esso è un’opzione filosofica, sociale, politica, antitetica al corpo – quello capitalista – in cui è inserita. Il sistema capitalista vive il partito comunista come un corpo estraneo e tende, in tutti modi, sempre, a espellerlo da sé, a cancellarlo. Il sistema capitalista può sopportare Grillo, può persino evocarlo e costruirlo in sé; ma non sopporta un partito comunista. Per la borghesia un partito comunista, seppur piccolo, è sempre lo “spettro che s’aggira…”. E’ per questo che essere comunisti non è una passeggiata di salute. Chi crede che essere comunisti sia una scelta politica come un’altra, o chi crede che essere comunisti sia la strada per la propria autoaffermazione materiale, non ha capito quale partito, quale opzione filosofica ha scelto. Specie ora, e in questa parte del mondo.

Quei compagni (pochi, i pochissimi che ho sentito e conosciuto)che non hanno capito bene su quale fronte di lotta si sono collocati; che non hanno capito cosa vuol dire essere comunisti; che non hanno bisogno di versare il sangue, di conoscere la galera, di attendere 36 anni per tornare in Parlamento perché la loro saldezza d’animo si incrini; quei compagni che non hanno capito che essere comunisti non è mai un pranzo di gala, quei compagni, alle prime difficoltà, di fronte ad una sconfitta elettorale, solo per aver perso tre deputati, iniziano a cercare altre strade, più comode, altri partiti; iniziano a pensare che i comunisti non hanno altre possibilità che essere mosche cocchiere di altri partiti. Ma i comunisti italiani, con Antonio Gramsci in testa, ci hanno insegnato che resistere si può, anche per vent’anni, persino sotto il fascismo. E i nuovi comunisti italiani, i compagni del nostro Partito, so che sapranno resistere, stanno già resistendo. Lo dimostra, innanzitutto, questo straordinario Comitato centrale: 120, 130 compagne e compagni sono venute/i da tutt’ Italia, dopo la sconfitta elettorale, per due giorni, a loro spese ( viaggio, vitto, alloggio) a confrontarsi, discutere, cercare una linea comune, in un dibattito vasto, profondo, con ottanta/novanta interventi, certo preoccupati, certo, anche diversi nell’analisi, ma rispettosi gli uni degli altri, non animosi e – soprattutto – concordi su di un punto centrale: rilanciare il PdCI, ricostruire il partito comunista in Italia.

Noi siamo parlamentaristi. Con Lenin, siamo perché il parlamento borghese divenga la cassa di risonanza della lotta di classe. Siamo con il capo della Rivoluzione d’Ottobre, che striglia il Bordiga dell’antiparlamentarismo. Noi dobbiamo tornare in Parlamento. E’ importante e molto più che importante. Per tornarci dobbiamo però svolgere un compito prioritario: ricostruire il partito comunista. Senza partito comunista, in Parlamento non ci torniamo più. E qui, oggi, io non sono particolarmente interessato a sapere cosa faremo alle prossime elezioni politiche; quali alleanze avremo. So che saremo guidati, come sempre, dalla nostra razionalità culturale e politica, dal nostro intento unitario e antisettario. So che i comunisti non debbono in nessun modo dividersi sulla questione della politica delle alleanze, che rimane questione meramente tattica. E sulla tattica si discute, non ci si divide, rispettando le altrui opinioni e assumendo, poi, la scelta della maggioranza che, come afferma il compagno Diliberto, non è più, a quel punto, la scelta della maggioranza ma è la scelta del Partito (è il valore, rivoluzionario, del centralismo democratico) Sulle questione tattiche non dobbiamo dividerci. Non dobbiamo farlo mai più. Dividerci su tali questioni sarebbe il segno di una labilità ideologica, culturale. Che non è cosa da partito comunista, non è cosa di questo Partito

Di ciò, delle future alleanze, parleremo. Ma quando hai un figlio che sta male, prima di tutto pensi a curarlo, a guarirlo. E oggi, noi, siamo essenzialmente chiamati a guarire il nostro Partito, a rafforzarlo, a ricostruirlo, a dare passione ai compagni, non a seminare dubbi, senso della rovina, attraverso le fughe, gli abbandoni, il consegnarsi ( strategicamente, come è stato detto) ad altre forze politiche, al PD. O, peggio ancora, ad utilizzare la penuria economica come una cassa da morto per il partito comunista! Il partito comunista non è un’azienda, che se è in passivo si chiude. Il partito comunista è l’opzione teorica e politica più conseguentemente anticapitalista; è una comunità di uomini e donne che hanno scelto il crinale più difficile della vita, quello rivoluzionario. Uomini e donne usciti/e dalla passività politica e dalla subordinazione alla cultura dominante; una scelta di vita che non si fa spegnere per la mancanza di fondi in cassa. Il compagno Diliberto ci ha chiesto: vogliamo andare avanti? Si,vogliamo andare avanti, non c’è bisogno nemmeno di chiederlo. Vogliamo organizzare il partito; vogliamo, con tutte le nostre forze, praticare tutte le forme, conosciute e inedite, dell’autofinanziamento. E cominci questo Comitato centrale a dare l’esempio: noi non possiamo iscriverci qui, in questa sede. Ma, tornati nei territori, facciamo- noi tutti, innanzitutto noi, membri del Comitato centrale – tessere di sacrificio. E chi più ha, più metta! Le tessere sono lì, in fondo alla sala. Non sono cartoncini: sono l’abbrivio, il simbolo della nostra ricostruzione! Il tesseramento è la prima forma dell’autofinanziamento. Sappiamo che la retorica borghese volta alla distruzione dei partiti – cosciente cavallo di troia capitalista per la cancellazione delle organizzazioni del movimento operario complessivo, dei lavoratori – sta dilagando e tra poco il finanziamento pubblico ai partiti sarà cancellato, cosicché rimarranno in campo solo i partiti che vorrà e sosterrà il capitale. Il tesseramento, dunque, e ogni altra forma di autofinanziamento è oggi parte della lotta di classe. Per questo, non possiamo più accettare la sciatteria di tessere a 5 euro (tranne i disoccupati, i precari, che possono versare 5 euro, ma occorre che un’azione solidale tra compagni porti la tessera del disoccupato, del precario, almeno a 50 euro). La sciatteria del tesseramento è il segno primario, è l’anticamera della deriva istituzionalista, della resa politicista, dell’affidare solo alla presenza istituzionale o ad altre forze politiche a cui ci si subordina e ci si arrende la nostra esistenza. Occorre organizzare una campagna per un tesseramento non di routine! Non basta più spedire le tessere ai territori e sperare in dio. Occorre avere un’idea forte del tesseramento; studiare le forme, impegnare tutti i dirigenti e gli intellettuali del partito nei territori. E poi, subito, feste, cene, incontri, recupero scientifico dei vecchi iscritti; contributi di “simpatia” per il partito da parte di intellettuali, artisti, lavoratori che non vogliono iscriversi ma vogliono aiutare il partito comunista. Occorre che da ogni regione arrivi al Partito una mappa precisa, certosina di quali feste, cene, iniziative, lotterie (anche la più piccola festa, la più piccola iniziativa del piccolo paesino) siano state organizzate. E occorre pubblicarle tutte nel sito del Partito, a mo’ d’incitamento, di emulazione. E poi la passione da disseminare, la determinazione. Non il piagnisteo! E l’organizzazione, la lotta! Gazebo nelle piazze delle città contro gli F-35 e contro il riarmo; referendum sull’articolo 18 da rilanciare subito; la lotta contro l’evasione fiscale, contro il fiscal – compact, per il rialzo dei salari, in difesa della scuola pubblica, dello stato sociale; posizioni da portare davanti ad ogni fabbrica, ad ogni posto di lavoro, ad ogni scuola. E una Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori da lanciare subito, come Partito, aperta ai quadri operai, ai dirigenti della Fiom, della Cgil, dei sindacati di base, di Sel, del Prc, del Pd. 

Oggi, alla sconfitta elettorale, non si risponde con la contrizione, ma con la lotta! Un “ritorno nelle piazze”, la ricostruzione dei legami, a partire dall’iniziativa sociale, con i compagni e le compagne del Prc, dei movimenti, di ciò che di migliore abbiamo messo in campo con Rivoluzione Civile, nell’intento di dar corpo, senso, al nostro “secondo cerchio”, quell’unità delle forze della sinistra antiliberista, anche per un’eventuale costruzione ( se lo decideremo, se sarà possibile, se lo vorranno anche gli altri, se ci saranno le condizioni antiliberiste necessarie) di un più vasto fronte – politico ed elettorale – democratico e di sinistra. Rivoluzione Civile: è stata un’esperienza piena di potenzialità e piena di errori. Ne parleremo. Le potenzialità vanno valorizzate, gli errori compresi, per non ripeterli. Ma la questione che dobbiamo porre, va ben oltre Rivoluzione Civile: noi dobbiamo inverare la nostra linea, la linea dei “tre cerchi”: costruzione del partito comunista; del polo di sinistra; del fronte democratico e di sinistra. Al di là di Rivoluzione Civile ( che probabilmente ha concluso il suo ciclo) noi dobbiamo costruire il secondo cerchio: il polo di sinistra antiliberista. Un polo costituito da forze comuniste, di sinistra, ambientaliste, pacifiste, di movimento; un polo unito, ma rispettoso delle varie autonomie; un polo nel quale il partito comunista, il PdCI, non si sciolga ma , nel binomio autonomia-unità, si rinvigorisca; un polo in grado di dispiegarsi sul piano delle lotte sociali; in grado di giungere, dunque, ad una massa critica sufficiente sia per essere – politicamente ed elettoralmente – autonomo, che per essere parte, col proprio peso, di un fronte democratico e di sinistra. A seconda delle necessità e delle possibilità. Il quadro politico, dopo queste elezioni, è più complicato che mai. Dobbiamo aspettare che si dipani, si chiarisca. E poi decidere, senza preclusioni, senza pregiudizi, senza dogmi, senza massimalismi, settarismi e subordinazioni. Con un unico intento – guida: gli interessi del nostro partito, del partito comunista. E, dunque, del nostro progetto di difesa della “classe”.

La fase è, per noi comunisti, difficile, più difficile che mai. Dobbiamo essere – tra noi –uniti e solidali, comprensivi e tolleranti, mettendo a valore tutti i nostri punti di convergenza e lasciar decantare le divergenze. Ciò che è proibito è fare le caricature reciproche: rifiuto l’idea – miserevole sul piano intellettuale – che vi siano tra noi istituzionalisti marci e massimalisti folli: queste sono figure inverosimili, disumane, tutte chiuse in un’unica, rigida, irreale forma politica e culturale. Inventata. Noi siamo comunisti, siamo figli di una grande cultura e di una grande storia. Non siamo caricature! E troveremo, insieme, a partire dalle prossime elezioni amministrative sino a quelle nazionali, la miglior strada tattica, sulla base del nostro pensiero autonomo e unitario. Ciò che non possiamo fare, ciò che è vietato fare, ciò che sarebbe politicamente delinquenziale fare, è dividerci sulla tattica, sulla linea elettorale, quando siamo uniti sull’idea, sulla necessità, della difesa e del rilancio del partito comunista, quale tappa decisiva per il nostro progetto strategico: la disseminazione dell’idea del socialismo, del superamento storico del capitalismo. Ciò che conta è essere consapevoli che siamo in una fase – in Italia – che chiede una nuova resistenza, che resisteremo per un’idea e per una prassi, quella comunista, anticapitalista, che non solo ha segnato di sé il ’900 ma ora, di nuovo, vola sulle coscienze, sulle lotte, sulle vittorie dei popoli di tanta parte del mondo.

Dobbiamo mettere a fuoco due questioni: primo, la lotta di classe non è un pranzo di gala e, all’interno di un sistema e di un potere capitalistico totale, come quello italiano, l’azione dei comunisti è sempre, oggettivamente, durissima. Noi non siamo Grillo, non siamo il Movimento 5 Stelle, e la borghesia non ci ha mai in simpatia. Né ci avrà mai in simpatia l’ambasciata Usa in Italia, che simpatia l’ha invece già espressa a Grillo. Non siamo simpatici né agli Usa, né alla Nato né alla Confindustria, poiché la nostra cultura politica, la nostra strategia è conseguentemente anticapitalista e antimperialista e dunque le nostre enormi difficoltà sono, innanzitutto, relative alla nostra natura. Nessun esponente comunista è socio della “Casaleggio Associati”, come ne è socio (con altri quattro, compreso il guru del M5S) Enrico Sasson, l’uomo delle multinazionali nord americane, l’uomo della grande finanza europea, l’uomo del “Sole 24 Ore” e della Confindustria, l’uomo imparentato con i Rothschild, l’ex amministratore delegato della Camera di Commercio Americana in Italia, entro la quale curano i loro interessi sia i poli capitalisti e imperialisti USA che i poli capitalistici italiani, compresa la Fiat. I comunisti, lì, non ci sono, e per loro, per noi, che non siamo al servizio di nessuno, le strade non sono mai facili.

Ma i nostri insuccessi – seconda questione – sono anche relativi ai nostri errori e alla nostra debolezza, al nostro deficit di lotta di classe. Noi non siamo e non dobbiamo mai essere il Saragat che attribuiva le sconfitte a un “destino cinico e baro”. Se abbiamo perso, anche questa volta, dobbiamo dirci, prioritariamente, che la nostra lotta (a fianco dei lavoratori, degli operai, contro le politiche liberiste dell’Unione europea e i suoi governi italiani, contro le politiche di riarmo e contro le guerre) non è stata sufficiente. Dobbiamo dirci che il Partito non si è sufficientemente radicato nei territori e non ha costruito il necessario legame di massa con la classe, con il proletariato, oggi più vasto che mai. C’è un deficit chiaro di costruzione del partito comunista e su questo dobbiamo lavorare. Non dividendoci in astruse e bizantine discussioni relative solamente alle alleanze politiche. Essendo, la prima alleanza, quella sociale. Con i lavoratori, con la classe, con il nostro popolo.

Dunque, c’è un punto fermo: il Partito comunista, in ogni modo, dovrà proseguire la sua azione e la proseguirà, pur nelle inasprite difficoltà che l’assenza dal Parlamento reca alla lotta. Anche, però, nella consapevolezza piena che il Parlamento non è tutto. Chi crede che entrare in Parlamento, per i comunisti, sia l’unico o il più alto degli obiettivi, si sbaglia e invia messaggi sbagliati ai compagni. Deve essere chiaro: l’eventuale elezione di tre deputati – benché importane, importantissima – non avrebbe certo accelerato il processo rivoluzionario, né risolto il problema della ricostruzione, in Italia, di un partito comunista di quadri e di massa. Noi abbiamo lottato per tornare in Parlamento, poiché era e rimane importante. Oggi, tuttavia, rifiutiamo l’idea – nefasta – per la quale l’assenza dal Parlamento sarebbe la nostra fine.

Il Movimento 5 Stelle, in assenza della sinistra, è stato il catalizzatore delle spinte antiliberiste e antisistema di massa ma, non essendo dotato di un pensiero forte e di una strategia sociale rivoluzionaria, è con ogni probabilità destinato ad essere attraversato, in tempi brevi, da profonde contraddizioni interne. Le posizioni palesate da Grillo, segnate da attrazioni per l’autoritarismo, per il fascismo, per il razzismo, per l’omofobia e per l’antisemitismo; le posizioni di Casaleggio, molto inclini a “comprendere” le ragioni del profitto e del capitale e le prime idee espresse dalla Lombardi (la deputata 5 Stelle designata capogruppo alla Camera), che ha messo a fuoco “ le qualità” del fascismo italiano e ha giudicato “ un’aberrazione” l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, queste idee dei guru e dei nuovi capi del M5S possono entrare in contraddizione con la sicura onestà e bontà delle posizioni di tanta parte del popolo dei “grillini” e dei suoi eletti.

In questo quadro, grande è il compito di chi, come i comunisti e la sinistra anticapitalista, ha in dote una grande cultura, una grande storia e un progetto strategico. Si tratta di riconnettere il pensiero e la prassi, di ricostruire i legami di massa recisi con gli errori e le assenze. Si tratta, nell’essenza, come compito primario, di ricostruire il partito comunista, come soggetto trainante della lotta e della nostra strategia, come garanzia primaria di autonomia politica, qualsiasi sia la nostra scelta contingente, la nostra politica delle alleanze, che è sempre tattica e di fase.

Per tutta questa serie di ragioni è necessario che il nostro partito vada ad un Congresso anticipato, un Congresso avente il compito preciso di rinsaldare il Partito, rilanciarlo, dotarlo di una analisi profonda e serie della fase sociale e politica e su quell’analisi costruire una linea politica. Non, dunque, un Congresso per discutere la linea politica contingente, la prossima politica delle alleanze, ma – al contrario – un Congresso che, attraverso la messa a fuoco del carattere strutturale, essenziale, della fase ( internazionale e italiana) giunga a definire anche il “che fare” contingente.

E vi è un’analisi che possiamo già mettere a fuoco come strutturale: il nostro Paese ha avuto un lungo cinquantennio ( dopo la seconda guerra mondiale) segnato da un ordine democristiano e segnato, altresì, dalla grandezza del PCI e di una CGIL di classe e di massa. L’ordine sociale, politico, economico, culturale scaturito dall’insieme di una DC spesso reazionaria, ma anche attraversata da forti spinte del cattolicesimo solidale e popolare e dalle lotte del PCI e della CGIL, fu un lungo ordine non liberista e, anzi, moderatamente socialdemocratico. Poi, viene il ventennio berlusconiano, che non ha la forza di imporre un ordine proprio, nuovo e stabile. E’ stato il governo Monti, il “montismo”, invece, ad evocare, per la prima volta, in Italia, un ordine liberista strutturato e coerente, un ordine, per ora, battuto alle urne. Qual è, oggi, dopo le elezioni del febbraio 2013, il quadro che emerge? Qual è la spinta carsica, che reca in sé i segni di un ordine nuovo? Vi sono segni poderosi dai quali emerge che l’ultraliberismo dell’Ue potrebbe radicarsi in Italia e trovare un sistema politico nuovo attraverso il quale affermarsi. Un sistema politico autoritario, populista (“né di destra né di sinistra”, come affermano i reazionari, come afferma la destra), antiparlamentarista, che può trovare in Grillo un forcipe importante. In quest’ordine liberista, antidemocratico e antiparlamentarista, nel quale ogni pensiero critico è ancor più vilipeso ed emarginato, sorge, più forte di prima, l’esigenza di un soggetto politico dal pensiero forte e dallo sguardo strategico. Noi chiamiamo questo soggetto Partito comunista. Per la costruzione del quale riprendiamo, vigorosamente, a lavorare e lottare.