di Marco Pondrelli
La rassegna di contributi alla discussione sul ruolo e le prospettive dei comunisti in Italia si arricchisce dell’intervento del compagno Marco Pondrelli.
Comunisti oggi, che Partito?
Che cosa significa oggi essere comunisti? Era la domanda che Nanni Moretti/Michele Apicella si poneva nel film “palombella rossa”, una domanda che nel film non trovava risposte convincenti. Oggi è da qui che dobbiamo partire. Cosa vuole dire, nel 2016, essere comunisti.
Mi è capitato in questi mesi, durante i quali ho partecipato attivamente al progetto della costituente, di fissare il punto di partenza dell’essere comunisti oggi: le esperienze presenti sul panorama italiano sono insufficienti ed inadeguate al compito che abbiamo di fronte. Il tema è profondo e va affrontato senza facili slogan o circumnavigazioni semantiche, siamo veramente convinti che dalla crisi dei comunisti in Italia si possa uscire rilanciando l’idea del partito di massa o del partito del popolo? Se il PRC non è diventato un partito di massa, e men che meno lo è diventato il Pdci, pur avendo toccato vette importanti (sia in termini di voti che di iscritti) non è perché non l’ha voluto e neanche perché questa decisione non è stata condivisa dai gruppi dirigenti. Costruire un partito di massa, come fu il PCI, non è solo frutto di una scelta e di una capacità organizzativa è anche la conseguenza di una situazione economica, sociale ed internazionale che, rispetto agli anni passati, è mutata. Questo tema si incrocia con le trasformazioni che l’Italia, ma non solo, in questi anni ha vissuto.
Joseph Stiglitz per primo ha parlato di una società spaccata: da una parte l’1% dei ricchi (o lo 0,1% dei ricchissimi) e dall’altra il restante 99%. Questa struttura sociale è, ovviamente, incompatibile con un sistema democratico, tanto meno lo è con l’ipotesi di democrazia progressiva. I nostri avversari investono tempo, soldi, energie e risorse per allontanare dalla politica non la gente intesa in senso general generico ma le forze del cambiamento, fu un caso che il biennio ’92-’93 vide andare a braccetto la lotta per il maggioritario e l’abolizione della scala mobile?
Dobbiamo quindi rinunciare, come molti compagni e compagne hanno già fatto, a conquistare le “case matte” ovvero a tentare di aprire spazi di democrazia dentro lo Stato? In parole povere dobbiamo rinunciare ad essere comunisti? Assolutamente no! Continuare la lotta è essenziale ma non pensiamo che basti aprire le sezioni, quando ci sono, perché queste si riempiano. Quando Fausto Sorini sostiene, citando il documento congressuale del Pdci di Rimini, che va costruito un Partito di quadri e di militanti con un’influenza di massa offre una possibile sintesi rispetto alla contraddizione che abbiamo di fronte a noi. Costruire un Partito non settario che sappia stare nei movimenti, che sappia radicarsi in alcune “case matte” e che abbia un rapporto con il mondo del lavoro è un obiettivo difficile ma realistico; più che illudersi che da l’oggi al domani le masse si iscrivano ad un partito a cui manca un reale radicamento. Un partito costituito da pochi e capaci quadri militanti non è un piccolo partito se riesce ad avere un’influenza di massa. Un delegato sindacale non è un semplice iscritto o una semplice iscritta, se ha rapporti strutturati sul suo posto di lavoro può costruire vertenze o anche semplicemente raccogliere delle firme, un lavoro simile lo può fare chi è presente e riconosciuto nel suo luogo di studio oppure dentro un’Arci o un’altra organizzazione di massa sia essa sportiva, culturale o semplicemente ricreativa.
Il fallimento delle esperienze comuniste in Italia si misura nell’incapacità di costruire un gruppo dirigente ed un corpo intermedio all’altezza. Lenin affermava che nei momenti di difficoltà i comunisti, a differenza dei partiti socialdemocratici borghesi, sanno ritirarsi in modo organizzato limitando così i danni, ecco perché sono quelli che perdono meno forze dopo una sconfitta. Se questo non sì è verificato ed ancora oggi i comunisti non sono riusciti a riprendersi dal disastro del 2008 il motivo non è iscrivibile al fato, come dice Cassio a Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare “la colpa, caro Bruto, non è delle stelle, ma nostra”. La migliore tradizione comunista ci insegna ad essere critici verso noi stessi ed a ricercare i nostri errori. Sono mancati, sia nel Prc che nel Pdci, i quadri, nazionali ed intermedi, così facendo l’idea del Partito come lo stesso Gramsci l’aveva delineate e praticata è stata, nei casi migliori, difesa a parole ma annientata nei fatti.
Partiamo da qui! Non illudiamo nessuno non basta un simbolo per riempire le piazze o anche solo le sale, il lavoro che ci attende è quello di costruire quadri capaci, motivati e convinti.
L’eredità e la prospettiva comunista in Italia
Un Partito comunista non nasce senza una teoria che lo supporta e che gli da forza. Su cosa deve poggiare la prassi comunista nel XXI secolo? Provo ad articolare una risposta chiarendo prima di tutto l’approccio metodologico. Cesare Luporini in un’intervista del 1971 (Dentro Marx: il presente e la prospettiva, Rinascita XXVIII n. 42) affermava: “il marxismo, è prima di tutto analisi e critica del presente. La ‘attuale società’ di cui parlava Marx […] le prospettive, la loro elaborazione, sorgono appunto dalla analisi del sistema presente, dei suoi meccanismi, delle sue interne contraddizioni e di ciò che attraverso tali analisi il presente fa emergere come tendenza storica”. L’analisi del presente è fondamentale per capire ed agire da comunisti, Lenin ha agito nella sua fase storica, che egli aveva ben capito, questo perché il ruolo dei comunisti non è astratto, non è situato in un limbo atemporale e così come non si sarebbe potuto immaginare Marx prima della rivoluzione industriale non si può pensare che le analisi marxiane oggi sarebbero uguali a quelle fatte oltre 150 anni fa.
Da dove partire per definire il comunismo del XXI secolo? Non ho la pretesa né la capacità di rispondere a questa domanda mi limito ad una riflessione generale.
Si solleva sovente l’eredità del PCI ed il ruolo di Enrico Berlinguer che entra addirittura nel preambolo dello statuto del futuro Partito Comunista. La figura di Berlinguer è molto complessa e diversificata per cui non mi addentrerò qui in un’analisi articolata, basta dire che Berlinguer è stato l’uomo che ha aperto alla NATO ma anche quello che parlò davanti ai cancelli di Mirafiori. Oggi in molti rileggono positivamente il ruolo di Berlinguer: da Veltroni a Grillo passando addirittura per Romiti che di fronte al pool di mani pulite ebbe a dichiarare: “Io che pure non sono di idee comuniste ebbi modo di convenire con le argomentazioni di Berlinguer”. Tralascio il tema della moralità, questione certo condivisibile ma su cui non si può costruire la prassi comunista, i comunisti non possono limitarsi a rappresentare gli onesti, devono rappresentare i lavoratori!
Più interessante è capire che cosa fu il compromesso storico (da non confondersi con i governi di unità nazionale), il quale nacque in conseguenza del colpo di Stato in Cile, in anni in cui l’offensiva fascista e reazionaria avanzava: erano gli anni delle stragi, dei depistaggi e del terrorismo. Oggi la situazione che viviamo, pur essendo altrettanto e forse ancor più grave, non è paragonabile a questa.
Il centro dello scontro oggi è in Eurasia, non siamo i soli a dirlo: Brzezinski lo scrisse nel 1997 e nel 2001 Robert Kagan e William Kristol erano consapevoli che il conflitto appena iniziato in Afghanistan sarebbe ulteriormente divampato in Eurasia. Se guardiamo gli eventi che si sono susseguiti dalla caduta del muro ad oggi vediamo come quello euroasiatico sia stato da subito l’obiettivo dell’imperialismo americano. Come disse nel 1996 John Woolworth, ex vice assistente del segretario alla difesa degli Stati Uniti, l’obiettivo della NATO erano i Balcani per poi passare ad altre aree del mondo a maggioranza mussulmana. I piani erano pronti ben prima dell’attacco alle torri gemelle. Questo è il quadro che ci sta di fronte e la nostra risposta deve essere consapevole della posta in gioco, altro che tornare allo spirito del ’98!
Gli Stati Uniti hanno scatenato la guerra (il Papa ha parlato di Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti), le conseguenze sono state drammatiche per le popolazioni coinvolte (morte, tortura, povertà) ma anche i paesi occidentali hanno conosciuto una forte limitazione democratica. Questa è la nuova cifra politica in Occidente, chi oggi ha 20 anni e fa politica ha conosciuto sempre e solo un mondo in guerra ed anche una politica di guerra.
I motivi alla base dell’aggressività politica americana si rintracciano innanzitutto nella carenza di risorse e quindi nella volontà di controllarle militarmente e successivamente nell’emergere sul panorama mondiale di nuove potenze, come la Cina, o nel riemergere di stati che si pensavano annientati come la Russia.
Dire questo non vuole dire che Putin sia un novello Lenin che ha fatto risorgere l’Urss, così come nessuno pensa che l’Iran sia uno stato comunista, nonostante questo entrambi questi stati esercitano un ruolo fondamentale nel fermare l’avanzata imperialistica americana ed israeliana. Quello che interessa è il ruolo strategico e geopolitico che essi rappresentano. Una loro vittoria non significherebbe la vittoria del comunismo nel mondo così come essa non arrivò dopo la sconfitta dal nazifascismo ma questo aprirebbe spazi di democrazia, di libertà e di sviluppo delle forze progressiste che aiuterebbero il lavoro dei comunisti anche in Italia.
Oggi non possiamo non partire da qui se vogliamo ripensare il socialismo nel XXI secolo. Affidarsi a facili certezze e tanto comodo quanto fuorviante, è invece il momento di rimettersi in gioco e ripensare il nostro ruolo.