di Giorgio Langella, Direzione nazionale PdCI
Il risultato elettorale è stato disastroso. Ancora una volta la sinistra non è in Parlamento. Il tentativo della lista Rivoluzione civile si è rivelato inconsistente. Su questo dobbiamo certamente riflettere, come dobbiamo analizzare seriamente la questione delle alleanze. Ma la prima decisione che dobbiamo prendere deve rispondere a alcune domande: è utile la presenza di un’organizzazione comunista oggi in Italia? Abbiamo la volontà, la determinazione, la passione di (ri)costruire un partito comunista degno di questo nome? Come fare, che fare e con quale forza.
Se partiamo dall’analisi di cosa è diventata l’Italia e quale politica oggi è in campo la risposta alla prima domanda è una sola: un partito comunista forte non solo è utile ma sarebbe necessario. La corsa (politica, economica, imprenditoriale e, anche, sindacale) verso (o a fianco) del liberismo più sfrenato ha portato il nostro paese (i lavoratori, i pensionati, i giovani … tutti i cittadini compresi i piccoli imprenditori e gli artigiani) a una sofferenza insostenibile.
La dismissione di interi settori produttivi, il trasferimento di investimenti ed enormi quantità di denaro dalla produzione alla speculazione finanziaria ed edilizia (unita alla mancanza di materie prime) ha impoverito il paese relegandolo a una funzione del tutto irrilevante nel panorama internazionale. Si parla spesso di competitività e di produttività del sistema produttivo. Lo si fa per distruggere lo stato sociale, per cancellare i diritti dei lavoratori, per contenere il costo del lavoro (che viene indicato come causa prima del disastro produttivo del paese). Gli stessi che lo fanno sono quelli che delocalizzano o favoriscono le delocalizzazioni, sono gli stessi che nascondono miliardi nei paradisi fiscali, quelli che evadono il fisco, che corrompono e si lasciano corrompere. Sono gli stessi che pretendono le privatizzazioni, quelli che le permettono, quelli che comandano finanza, economia, imprese. Sono questi personaggi e gruppi di potere “irresponsabili” i colpevoli della situazione italiana attuale. In questo contesto ritengo di estrema debolezza (e, per questo, colpevolmente grave) l’azione politica e sindacale. Una situazione imbalsamata fatta da organizzazioni che si sono trasformate da “partito” in un coacervo di comitati elettorali che non rispondono a interessi “di classe” (o a quelli generali del paese), ma servono a procurare affari e guadagni a finanziatori più o meno occulti. I partiti (o sedicenti tali perché non lo sono più nell’accezione storica del termine) si sono appiattiti nell’accettazione del sistema capitalista, hanno abbandonato qualsiasi aspirazione di trasformare la società, hanno occupato le istituzioni asservendole all’interesse di questa o quella casta. In questa maniera le prospettive vengono a mancare e assume grande (o unica) importanza la questione delle alleanze e del compromesso per poter governare … Governare … ovvero amministrare la cosa pubblica per conto di privati che, di fatto, sono i padroni di tutto.
Anche noi ci siamo adeguati e ci siamo avvitati nel vortice insano dell’inseguimento delle alleanze (con chi e non su cosa o perché) senza avere un progetto vero, fondato su solide basi. Ci siamo persi in sterili dibattiti su “come” andare alle elezioni e “con chi”, anche dopo l’ultimo congresso che aveva delineato una linea politica (quella dei tre cerchi) che avrebbe dovuto costringere ognuno di noi a tentare in ogni modo di unire i comunisti e creare un partito meno debole degli attuali. Abbiamo perso di vista la prospettiva e il fine dell’essere comunisti e di formare un’organizzazione comunista, asservendo agli accordi elettorali una linea politica e un progetto che non sono andati avanti. Ci siamo fermati rincorrendo l’accettazione della nostra presenza da parte di chi non ci considerava omogenei allo status quo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I comunisti e la sinistra fuori dal parlamento, relegati a essere “la canaglia pezzente”. Irrilevanti perché percepiti come facenti parte di un sistema corrotto. È il momento di cambiare.
La nostra sopravvivenza (l’esistenza del partito comunista) non può essere condizionata dalle alleanze a prescindere con forze (come il PD) che si sono trasformati in qualcosa difficile definire “di sinistra” (hanno adottato un moderatismo politico che è, a mio avviso, incloncludente e profondamente sbagliato) o dal far parte o meno di una ipotetica “area dei progressisti” (sarebbe anche utile capire cosa sia tale “area politica” e definire il significato odierno del termine “progressista”). Noi comunisti esistiamo se lottiamo per una prospettiva di cambiamento radicale del modello di sviluppo e della società. Noi comunisti esistiamo se abbiamo proposte concrete che possano risolvere i problemi del paese e, in primo luogo, della nostra classe di riferimento (chi vive del proprio lavoro). Noi esisteremo se avremo un progetto che si possa distingua dalla nebbia attuale, dal populismo, dall’opportunismo. Un progetto di trasformazione della società, calato nella realtà, con indicazioni di obiettivi che possano essere raggiunti con la lotta (e non solamente con la presenza nelle istituzioni o con accordi con i più forti). Dobbiamo avere un progetto di prospettiva e individuare un percorso, altrimenti saremo uguali a tanti altri (e, quindi, saremo più che ininfluenti, indistinguibili) e non avremo più ragione d’essere.
(… noi siamo chi suda e lavora …)
Alcune questioni le dobbiamo porre in maniera precisa. Provo a riassumerle. Cosa sono, oggi, i partiti del cosiddetto centrosinistra? Cosa sono diventati i sindacati (intendo principalmente la CGIL)? Quale deve essere il ruolo dello Stato e del pubblico nello sviluppo del paese?
Partiamo dalla lettura di alcuni dati.
In Italia nel 2012 ci sono stati 1.027.462 licenziamenti con un incremento del 13,9% rispetto al 2011. Nell’ultimo trimestre del 2012 i licenziamenti sono stati 329.259 (+15,1% rispetto allo stesso periodo del 2011).
I disoccupati, a livello nazionale, sono (a fine 2012) 2.744.000. Gli scoraggiati (inattivi pronti a lavorare) sono 2.975.000. In totale i senza lavoro sono circa 5.700.000. I sotto-occupati sono, nel 2012, 605.000 (erano 451.00 nel 2011 e 364.000 nel 2007). In Europa i disoccupati hanno superato i 25 milioni.
Per quanto riguarda il Veneto, nel 2012 ci sono 37.945 disoccupati in più (pari a un incremento del 33,9%) rispetto al 2011. Rispetto al 2008 l’aumento è di 69.903 unità (+87,4%). Tra il 2011 e il 2012, a livello provinciale, i disoccupati aumentano a Belluno di 1.589 unità (+35,64%), a Padova di 5.865 unità (+25,92%), a Rovigo di 4.424 unità (+70.73%), a Treviso di 3.990 unità (+19,40%), a Venezia di 13.885 unità (+68,39%), a Vicenza di 8.630 unità (+46,31%); diminuiscono a Verona di 438 unità (-2,29%). Rispetto al 2008, nel 2012, la disoccupazione aumenta in tutte le province venete. I valori assoluti e quelli percentuali evidenziano un drammatico calo dell’occupazione, segno di un sistema produttivo fallimentare che non ha saputo (e, spesso, voluto) resistere alla crisi. A Belluno i disoccupati in più sono 3.720 (+159,79%), a Padova 13.343 (+88,10%), a Rovigo 6.671 (166,44%), a Treviso 10.440 (+73,96%), a Venezia 20.956 (+158,36%), a Verona 2.679 (+16,77%), a Vicenza 12,931 (+90,21%).
E anche se i dati veneti sulla disoccupazione mensile del 2013 (regionali e provinciali) non sono ancora disponibili (così come non è disponibile alcun dato, generalmente diffuso mensilmente da Veneto Lavoro, relativo al 2013 su cassa integrazione e mobilità) la sensazione è che non ci sia alcuna inversione di tendenza. Anzi. La disoccupazione a livello nazionale a gennaio 2013 è cresciuta toccando un preoccupante 11,7% (+0,4% rispetto al dato di dicembre 2012). I dati aggiornati a fine febbraio (fonte Veneto Lavoro, gli unici ad oggi disponibili sulla situazione del lavoro in regione e provincia) evidenziano che, in Veneto, le domande di mobilità in deroga sono state 13.197 nel 2012 rispetto alle 8.003 del 2011 (con un aumento percentuale del 64,9).
Nel 2012, in Veneto, sono state autorizzate in totale 102.866.768 ore di cassa integrazione (+18,18% rispetto alle 87.038.926 ore del 2011). I nuovi inserimenti nelle liste di mobilità hanno colpito, nel 2012, 36.092 lavoratori (+4,74% rispetto ai 34.460 del 2011). In dettaglio si registra una diminuzione nei licenziamenti collettivi (legge 223/91) che da 11.813 nel 2011 passano, nel 2012, a 8.797 (-25,53%); i licenziamenti individuali (legge 236/1993 che dà diritto ai benefici fiscali a favore delle aziende in caso di assunzione, non confermata per il 2013, ma non consente ai lavoratori l’accesso all’indennità di mobilità) invece aumentano da 22.647 del 2011 a 27.295 del 2012 (+20,52%). I lavoratori in lista di mobilità a fine dicembre 2012 sono 61.530 (a dicembre 2011 erano 59.773).
A livello nazionale le ore autorizzate di cassa integrazione sono aumentate in ogni settore (ordinaria, starordinarie, in deroga). Solo a marzo sono state autorizzate complessivamente 96.973.927 ore (+22,4% rispetto a febbraio). Nei primi tre mesi del 2013 le ore autorizzate di cassa integrazione sono state 97.213.845 di ordinaria (+31,68% rispetto allo stesso periodo del 2012), 124.069.365 di straordinaria (+53,36% rispetto allo stesso periodo del 2012), 43.760.435 in deroga (-46,62% rispetto allo stesso periodo del 2012), per un monte ore complessivo è di 265.043.645 (+11,98% rispetto allo stesso periodo del 2012). I lavoratori coinvolti sono stimati in 520.000 a zero ore. Il taglio di reddito complessivo è di 1 miliardo di euro circa (pari a oltre 1.900 euro pro capite).
La produzione industriale a febbraio 2013 scende dello 0,8% rispetto a gennaio e del 3,8% nell’arco di un anno.
Una situazione a dir poco allarmante, confermata dalle continue notizie di chiusura di fabbriche, delocalizzazioni, riduzione di personale, licenziamenti, ricorso alla cassa integrazione e alla mobilità. È il declino di una nazione intera. Un declino dovuto sicuramente a politici (anzi, sedicenti tali) interessati unicamente a fare affari e distribuire benefici ai propri “gruppi di riferimento”. Questi politici sono corrotti e mediocri, certo, ma non bisogna dimenticare né sottovalutare la responsabilità di una classe imprenditoriale miope e incapace che ha preteso di aumentare i propri profitti personali distruggendo un tessuto industriale e produttivo importante. Il trasferimento di investimenti dalla produzione alla finanza, l’evidente fallimento del sistema delle sciagurate politiche di privatizzazione e il disinteresse dello Stato rispetto alle strategie industriali del paese hanno contribuito al disastro che stiamo subendo. Lo Stato, invece di colpire le sacche di parassitismo e di corruzione presenti al suo interno, ha favorito speculazioni di qualsiasi tipo e ha regalato a privati senza scrupoli il patrimonio pubblico (industriale, finanziario, infrastrutturale …). Il risultato è quello di aver ridotto il paese a una ininfluenza produttiva e industriale che lascia poche prospettive. La latitanza dello Stato (decisa da governi sempre più liberisti) e il suo “lasciar fare” al privato ha portato alla dismissione di interi comparti produttivi, alla totale mancanza di strategia e all’inesistenza di piani di sviluppo industriali organici. L’assenza di regole e di controlli, unitamente all’aumento spaventoso di una burocrazia inutile e dannosa hanno fatto il resto. Quello che dovremmo chiederci è se sia giusto e, soprattutto, utile continuare su questa strada o se sia, invece, necessario riconquistare al pubblico (quindi allo Stato) il ruolo costituzionale di produttore e controllore dello sviluppo economico e industriale del nostro paese.
Bisognerebbe fare qualcosa e invece … di fronte al disastro non si notano iniziative adeguate né da parte della “politica” istituzionale né da parte sindacale (e la cosa è particolarmente inquietante).
Ci si dovrebbe domandare cosa sia diventato il sindacato (e il riferimento va alla CGIL) e perché sia così silenzioso di fronte a quanto sta succedendo. C’è una trasformazione in atto, è solo iniziata o è andata troppo avanti?
La CGIL (e la cosa ci deve interessare, non per una critica sterile e astiosa ma per tentare un’analisi e capire come i comunisti possono e devono agire) ha progressivamente abbandonato la connotazione di sindacato di classe diventando principalmente un ente che eroga servizi. Attualmente, la dirigenza nazionale e locale della CGIL, dice poco o nulla su questioni anche importanti e fondamentali. Al massimo si limita ad “ascoltare” e “prendere atto” dell’esistente. Si ferma alla “conoscenza” spesso superficiale di ciò che avviene nel paese.
L’atteggiamento assunto di fronte alle leggi del governo Monti (non voglio chiamarle “riforme” per rispetto) è stato (ed è) quanto meno sconcertante. Sulle pensioni qualche risibile ora di sciopero. Sulla cancellazione dell’articolo 18 c’è stata qualche protesta formale, ma non il sostegno (se si esclude la FIOM) alla raccolta di firme per il referendum che ci ha visti mobilitati in prima persona come partito assieme ad altre forze della sinistra. Su questi temi abbiamo scoperto l’indifferenza sindacale o, meglio, della maggioranza del sindacato appiattito sulle posizioni del PD e in attesa delle decisioni di quel partito. Una situazione drammatica e, per molti versi, deprimente.
I silenzi (o al massimo i sussurri) che la CGIL vicentina ha tenuto su alcuni fatti più o meno recenti (ed è un esempio) dimostrano timori, prudenze e sudditanze che stanno diventando caratteristica di questo sindacato. Parlo di fatti che hanno investito (e investono) il gruppo Marzotto. Sulla questione della Marlane di Praia a Mare, sul processo in corso che vede imputati i massimi vertici della Marzotto, la CGIL vicentina è stata assente in maniera quasi provocatoria (passatemi il termine) evidenziando una “prudenza” molto vicina all’indifferenza se non alla complicità. Lo stesso è avvenuto per la questione dei lavoratori degli stabilimenti vicentini della Marzotto deceduti per mesotelioma (indagine in corso, informazioni inesistenti) e per l’indagine sulla presunta evasione fiscale attuata dalla famiglia Marzotto-Donà delle Rose sul guadagno realizzato nell’affare Valentino Fashion Group. L’indagine si è recentemente conclusa con l’accettazione delle imputazioni (rinvio a giudizio) per un’evasione che è stimata in 71 milioni di euro. Ebbene, poche notizie sui giornali, nessuna presa di posizione da parte sindacale.
Questi fatti (che sono solo esempi di un atteggiamento ormai consolidato) e la mancanza di iniziativa sindacale evidenziano quella apatia della quale parlavo prima. Un sindacato appiattito sulla convenienza non va da nessuna parte. Si impoverisce e si trasforma in qualcosa d’altro. Le lotte sono sempre sulla difensiva e vengono quasi mai accompagnate da mobilitazioni più vaste che non siano un presidio dei lavoratori coinvolti. Lavoratori spesso divisi in decine di contratti più o meno atipici e precari che hanno poca forza contrattuale e sono ricattabili. Si contratta su quanti dovranno essere gli “esuberi” e ci si accontenta di ottenere qualche lavoratore non licenziato (e messo in lista di mobilità) o una cassa integrazione più lunga.
Risulta evidente che la linea che dobbiamo seguire come comunisti non è quella di “stare a vedere” o “prendere atto di ciò”. Dobbiamo organizzare le compagne e i compagni che operano nei sindacati perché ci sia una linea comune che riporti al centro dell’azione prospettive di cambiamento. Incalzare e combattere le “prudenze” può e deve essere nostro compito.
La posizione “prudente” del sindacato è sposata in pieno dai partiti della (ex o post) sinistra. Anzi, spesso è incentivato da questi. I calcoli sull’opportunità di aprire qualche conflitto o qualche protesta pendono sempre (o quasi) verso il lato del “non fare nulla”, in attesa che le cose si mettano a posto da sole o che qualche “folle” si azzardi nella protesta e nella lotta solitaria.
La proposta, della federazione del Partito di Vicenza alle forze politiche e sociali “progressiste”, di operare assieme nella stesura di un piano per il lavoro provinciale non ha avuto alcun riscontro. Qualche apprezzamento, sempre prudentemente sussurrato e “mascherato”, è nulla più. Il risultato è una “sinistra politica e sindacale” disarmata che insegue i problemi creati (o evidenziati) da altri e non riesce a dare risposte diverse da quelle di una maggiore “efficienza” (presunta) nel trattare gli argomenti. In questa maniera nulla cambia se non l’apparenza (l’etichetta di appartenenza a un campo più o meno “progressista” che ognuno dà a se stesso).
In Italia la sedicente sinistra parlamentare è ridotta a questo. Qualche slogan, molta competitività interna, lotta per il potere effimero di controllo dei comitati elettorali che compongono i vari (ex o post) partiti ecc. Lo vediamo ogni giorno con le scaramucce tra Bersani e Renzi, l’ininfluenza di Vendola pur con i parlamentari che SEL è riuscita a eleggere nonostante un risultato elettorale risicato e inferiore alle aspettative. IL recente, ambiguo, ammiccamento di Vendola alla proposta leghista (a margine di Vinitaly a Verona) sulla macroregione del nord che “non rappresenterebbe una minaccia” è emblematico di un modo di fare politica basato sulla frase ad effetto spesso improvvisata estemporanea e fuorviante.
Il tema del conflitto tra capitale-lavoro non viene più affrontato, anzi, è stato stabilito che, semplicemente, non esiste. E non perché questo sia vero (basta girare per le fabbriche in sofferenza, tra i precari, i cassaintegrati, i licenziati, i disoccupati, i nuovi e vecchi poveri per capire come le disuguaglianze siano cresciute a dismisura e quella contraddizione sia più che mai attuale) ma perché la sedicente sinistra parlamentare ha deciso che non è più un suo problema. Ha fatto, coscientemente, una scelta di campo? Forse. Quello che sono certo è che ha abbandonato il campo che era della sinistra storica, non riconosce una classe di riferimento, non fa più gli interessi di chi vive del proprio lavoro (chi ha lavorato, chi lavora, chi non ha più o ancora un lavoro compresi i piccoli imprenditori e il “popolo delle partite iva” esempre più simili a quel proletariato che è stato, storicamente, il “motore” e il principale interlocutore e riferimento del PCI e della sinistra).
Nel periodo storico che viviamo, in Italia ha vinto l’opportunismo, il calcolo, la convenienza, il fatalismo. La prospettiva di trasformazione della società e del modello di sviluppo è stata accantonata, cancellata.
è il trionfo della mediocrità … senza alcun progetto …
La “novità” del “manifesto” presentato dal ministro Fabrizio Barca (iscrittosi contemporaneamente al PD) può essere importante ma non può e non deve assolutamente indurci all’attesa e al procrastinare decisioni ed elaborazioni “nostre”. A una prima lettura, mi sembra che, pur dichiarandosi di sinistra in un’area genericamente socialdemocratica, Barca faccia proposte che non cambiano sostanzialmente il ruolo del pubblico e dello Stato nell’economia e nello sviluppo del paese. Barca scrive sotto il titolo “convincimenti comuni a un partito di sinistra” (punto 7 a pag. 54 del documento) che “Mercato aperto, libera iniziativa privata e concorrenza costituiscono condizione per lo sviluppo. Lo Stato deve impegnarsi a produrre i beni pubblici che sono necessari al funzionamento del mercato (prima di tutto la salvaguardia della proprietà, una giustizia efficiente e la tutela della concorrenza, tanto più forte quanto maggiori sono gli ostacoli all’entrata) e tutti quei beni per i quali il controllo privato delle risorse è insufficiente o relativamente inefficiente. Appropriate politiche devono promuovere la piena occupazione del lavoro e il contrasto da fluttuazioni economiche”. Mi pare di capire che lo Stato venga considerato come supporto del privato e del mercato che restano motore dello sviluppo. Mi sembra che Barca proponga qualche aggiustamento al liberismo imperante rendendosi conto del suo fallimento, ma non pensi di cambiare radicalmente il sistema. Del resto bisogna tenere conto che Barca fa parte del governo Monti (ministro della coesione territoriale) e che è corresponsabile di quanto da esso deciso o imposto. Prestiamo, quindi, la dovuta attenzione a quanto di positivo c’è nel documento e alle eventuali aperture di dialogo e confronto che contiene, ma non fermiamo la nostra elaborazione e la volontà di costruire il nostro progetto. E il nostro partito.
(… smettiam di soffrire ch’è l’ora … insorgiamo …)
Diventa necessario, a questo punto, costruire il partito comunista e il progetto che vogliamo portare avanti. Il congresso straordinario deciso dall’ultimo comitato centrale deve proprio servire a (iniziare) questo lavoro difficile e faticoso. Un lavoro necessario se vogliamo mantenere viva la prospettiva di trasformazione della società. La discussione che dobbiamo aprire non è di critica o consenso (e di attesa) rispetto a documenti proposti dal nazionale. Non può né deve esserlo. Il compito che ci aspetta (tutti le compagne e i compagni) è quello di elaborare assieme i temi che ognuno sente come dirimenti. La disperazione che si vive nel paese non può essere vista da fuori, osservata come fosse un esperimento. Dobbiamo entrarci dentro, analizzare, interpretare quello che sta succedendo … studiare ed elaborare … se non vogliamo scadere nel populismo più rabbioso e impotente o nell’opportunismo più vergognoso. Dobbiamo “fare Politica”. Dalla visione generale (che non può limitarsi alla nostra provincia o alla regione e neppure alla nostra “povera patria”) dobbiamo essere in grado di entrare nel particolare del territorio e della condizione che viviamo tutti i giorni. Indicare soluzioni che vadano nella direzione della trasformazione della società in senso socialista. E su questo creare alleanze e accordi con le forze che sono ancora di sinistra e democratiche (tenendo come faro la Costituzione).
Ribaltiamo il concetto così caro a chi ha tradito la lezione di Gramsci, di Togliatti, di Longo e di Berlinguer che è quello di occupare le istituzioni per garantire la propria sopravvivenza. Un concetto, questo, che fa parte integrante (anzi è) quanto Enrico Berlinguer (e prima di lui Luigi Longo) aveva indicato come il principale pericolo per la nostra democrazia: la questione morale. Partiamo dalla Politica, dalla necessità di scardinare lo spaventoso ordine globale capitalista e creare una società giusta.
Insorgiamo. Partiamo da noi (da ognuno di noi), dalle nostre intelligenze, dalle nostre forze, senza pigrizie né stanchezze. E ripudiamo qualsiasi individualismo, ogni personalismo, ogni arrivismo per costruire un progetto condiviso, un corpo unico, un collettivo … il Partito Comunista.
Ne abbiamo bisogno noi, ne ha bisogno la sinistra (oggi così silenziosa, timorosa, prudente), ne ha bisogno chi vive del proprio lavoro, ne ha bisogno il paese.
* è il titolo di questa canzone della Resistenza (adattata da un vecchio canto anarchico):
Noi non siam la canaglia pezzente:
noi siamo chi suda e lavora,
finiam di soffrire ch’è l’ora . (2 vv.)
Ai Soviet stringiamo la mano,
l’Italia farem comunista,
a morte il regime fascista.
Insorgiamo che è giunta la fin
insorgiamo che è giunta la fin
evviva la Russia
evviva Lenin!
Con falce e martello d’emblema
non più vagabondi e signori,
un pane a ciascun che lavori. (2 vv.)
Ai Soviet…
Già temano troni e corone
macchiati di fango e di sangue
si sveglia il popol che langue. (2 vv.)
Ai Soviet…
Pei ladri del nostro sudore
giustizia nei cuori già freme.
Spezziamo le servili catene! (2 vv.)
Ai Soviet…
Fratellanza e giustizia chiediamo,
al mondo siam tutti fratelli.
Noi siamo le schiere ribelli! (2 vv.)
Ai Soviet…
Ricordiamoci sempre che chi apparteneva a quella “canaglia pezzente” ha organizzato e partecipato agli scioperi del ’43 e del ’44, ha fatto la Resistenza, ha sconfitto il nazifascismo, ha scritto la Costituzione, ha lottato per conquistare i diritti che oggi ci stanno togliendo. Avevano una prospettiva, ideali e volontà di combattere per essi. E non erano molti.