di Lamberto Lombardi – Segretario Provinciale PCdI Brescia
Il fatto se i comunisti debbano o meno stare in un movimento spontaneo è stato chiarito tanti anni fa quando sulla questione della loro adesione o meno agli Arditi del popolo Lenin ebbe a chiarire a Bordiga, primo segretario del PCI, che i ‘comunisti stanno dove è la classe e non in salotto’.
Oggi riteniamo ancora valida quell’impostazione ma le profonde differenze rispetto all’Italia del primo dopoguerra vanno analizzate e comprese per una coniugazione dell’impegno che possa essere efficace ed attuale.
E’ rilevante, per esempio, come la struttura-partito sia oggi assai meno consueta che allora mentre, viceversa, i movimenti abbondano assumendo le più diverse forme, da quelli locali a quelli nazionali, dai comitati alle aggregazioni politiche in forma di movimento, suddividendosi per tematiche di diverso rilievo, da quelle ristrette fino a quelle costituzionali.
I motivi di questa diffusione aggregativa a fronte del ritrarsi dei partiti sono molto politici, perché culturale e politica è l’odierna indisponibilità della grande massa dei singoli ad impegni prolungati, politica è la maggior visibilità mediatica di queste fiammate di interesse che non di rado si sviluppano a partire dalle notizie in prima pagina, e politica è l’attenzione rivolta ai movimenti da parte del personale intellettuale che sa fornire in breve una direzione organizzativa sfruttandone poi adeguatamente i ritorni di immagine, ritorni rigorosamente individuali. E politicissima è, infine, la compatibilità sostanziale di queste esplosioni di partecipazione con gli assetti di governo perché sfibrano la militanza ottenendo scarsi e momentanei risultati ma a costo di enormi fatiche, procurano platee attente, danno una salutare immagine di democrazia e sono sostanzialmente non autonomi quanto ad analisi dipendendo troppo dai canali informativi ufficiali. Valga per tutti, sotto quest’ultimo aspetto, l’esempio di un movimento per la pace che lotta contro la Nato ma che contemporaneamente ne è subalterno condividendone o quantomeno non sapendone contrastare i giudizi in tema di politica internazionale.
Questa stagione dei movimenti che dura da un trentennio si presenta, così, assai diversa da quella dei movimenti degli anni sessanta e settanta quando era lo scontro politico ideologico a mobilitare tante coscienze ed era lievito per imponenti movimenti, da quello per la pace a quello per il diritto alla casa, ai diritti del lavoro, e, diciamolo, premessa per sostanziali conquiste.
Oggi gli aggettivi usati per definire questi modi ‘nuovi’ di fare politica sono ‘trasversale’, ‘unitario’, ‘non ideologico’, slogan ossessivamente ripetuti a marcare una alterità rispetto ai partiti tradizionali. Alterità esibita senza più nemmeno badare al fatto che i partiti tradizionali nemmeno esistono più avendo lasciato spazio alla nuova retorica, quella della ‘società civile’, composta da uomini liberi che giammai si farebbero strumentalizzare.
Non è così da considerarsi un paradosso che i risultati progressivi di queste tante mobilitazioni temporanee siano scarsi. A livello nazionale si ricorda la vittoria al referendum per l’acqua pubblica, vittoria che, una volta che il relativo movimento si è spento, è stata poi regolarmente disattesa in innumerevoli casi amministrativi locali. Mentre il risultato più duraturo e dalle ricadute più pesanti è stato quello ottenuto col referendum per l’abolizione del metodo elettorale proporzionale, memorabile esempio di spontanea mobilitazione dall’alto ad ottenere ciò che la casta aveva a lungo e incostituzionalmente sognato.
Questo bilancio, destinato ad aggravarsi per lo sfilarsi progressivo anche del sindacato che sta cambiando natura e funzione, può apparire ingeneroso ma ci pare che a farlo apparire tale sia piuttosto il contrasto con la generosa retorica che circonda i movimenti. E, particolarmente, ci pare si mostri come necessaria l’uscita da quella sorta di incantamento collettivo che fa credere possibile esercitare una organica opposizione politica semplicemente a partire dalla creativa spontaneità delle moltitudini.
La severità delle nostre considerazioni va anzi intesa come rispetto della reale volontà di coloro che si mettono all’opera in quelle imprese, volontà che ambisce a risultati duraturi, ad esprimere autonomia di giudizio per un dissenso strutturato e non meramente formale, estetico e consolatorio.
E’ dunque chiaro oggi più di quanto non lo sia stato negli scorsi anni, è chiaro a chiunque partecipi a qualsiasi comitato vivendone le difficoltà, è chiaro proprio al culmine della ‘cultura dei movimenti’, che condizione indispensabile per pensare a risultati positivi e strutturali è che esistano a sostegno delle strutture politiche stabili, dal solido impianto analitico e organizzativo, dunque dei Partiti.
Trattiamo di un’evidenza indigesta destinata a collidere con quella cultura individualistica che esprime però, oggi, il fatale cortocircuito tra una incoercibile ‘libertà’ in fatto di mobilitazione e il suo destino segnato di una sostanziale irrilevanza politica.
Esprimiamo così la nostra nitida percezione che ogni minuto di ritardo accumulato sul percorso di costruzione di un Partito Comunista abbia costi non ancora quantificabili ma enormi in termini di mancato raggiungimento dei risultati non più derogabili in termini di civiltà, pace, lavoro, democrazia.