pubblichiamo come contributo alla discussione
di Eros Barone
da https://www.sinistrainrete.info
«Prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente» (Lenin).
Abbiamo assistito alla fine di una fase iniziata, almeno in Italia, con il collaborazionismo delle sinistre sedicenti “radicali” (Prc e Pdci) rispetto alla borghesia e la loro progressiva delegittimazione rispetto al proletariato: epoca che si è conclusa con la loro scomparsa dal parlamento. La bancarotta politica, ideologica e morale delle formazioni opportuniste, non meno che la costituzione del Pd, partito della borghesia imperialista, avrebbero dovuto indurre ad una seria riflessione coloro che avevano sopravvalutato il grado di permeabilità di tali formazioni rispetto a posizioni autenticamente comuniste, ossia marxiste-leniniste, e che non si rendono ancora conto che una fase della storia del movimento di classe, legata alla nozione otto-novecentesca di ‘sinistra’, si è definitivamente chiusa.
Ciò è reso ancor più evidente dalla presenza, dentro la ‘sinistra’, di una cultura anticomunista e pro-imperialista sempre più diffusa, che ostacola fortemente lo sviluppo di un metodo e di una teoria capaci di superare il movimentismo e la pura protesta: quel movimentismo e quella protesta che sono, per dirla con Mao Ze Dong, come i palloni che, quando piove, si afflosciano. Quella che il Partito Comunista ha intrapreso è dunque una ‘lunga marcia’ verso i lavoratori, verso le fabbriche, verso gli uffici, verso le periferie, verso le scuole e le università: i tanti luoghi nei quali nessuno sa più quali siano le grandi ragioni di un partito comunista fondato sul socialismo scientifico.
Questa ‘lunga marcia’ va condotta all’insegna della parola d’ordine formulata da un grande dirigente della socialdemocrazia tedesca, un marxista della ‘seconda generazione’, August Bebel, che in questi precisi termini indicò i cómpiti del movimento di classe negli anni Ottanta del XIX secolo: «Studiare, propagandare, organizzare». Il cómpito immediato che ora si pone è quindi quello di lavorare a diffondere tra le masse, un’idea di partito comunista animata dal gramsciano “spirito di scissione”. Un’idea che, fondandosi sull’assunto dialettico che non è solo la classe a creare il partito, ma anche il partito a ‘creare’ la classe, si esprime nella volontà e nella capacità di tracciare una netta linea di demarcazione che separi nell’economia il lavoro salariato dal capitale, nella società il proletariato dalla borghesia, nella politica i comunisti dalla sinistra, nell’ideologia i rivoluzionari dagli opportunisti. Il Partito Comunista è nato da poco tempo e pian piano si sta sviluppando. Per svilupparsi deve però liberarsi dal pesante retaggio opportunista e revisionista delle precedenti formazioni politiche, tutte di stampo socialdemocratico, da cui è scaturito.
Che la sinistra comunista debba tornare a studiare è stato affermato e più volte ripetuto da parecchi compagni, ed è tanto più necessario quanto più è evidente l’abbandono dello studio e della ricerca che caratterizza la società italiana e le stesse istituzioni (come la scuola e l’università) preposte a tale funzione. Ma allora, se si vuole risalire una china rovinosa, la parola d’ordine da seguire torna ad essere quella formulata più di un secolo fa da August Bebel, grande dirigente della socialdemocrazia tedesca: “studiare, propagandare, organizzare”. Dunque, ‘studiare, propagandare, organizzare’, sì, ma con chi? Se dovessi rispondere con paradossale franchezza a questo legittimo quesito, direi: con “Lotta comunista”. È questa infatti l’unica organizzazione che abbia raggiunto nel nostro paese la massa critica per potersi definire partito. Ma come accettare ciò che non può essere accettato? Non è possibile infatti accettare né l’irriducibile antistalinismo né la scelta dell’astensionismo strategico, benché la serietà dell’impegno organizzativo, la continuità dell’intervento politico e sindacale, il rigore della elaborazione teorica e la costante propaganda del socialismo scientifico, che caratterizzano tale partito, sùscitino anche in un marxista-leninista un’indubbia ammirazione.
Ma lasciamo da parte “Lotta comunista” (anche se non so fino a che punto si potrà continuare ad ignorare una forza reale come questa, data la sua presenza nelle fabbriche, sul territorio, nel sindacato, nella scuola e nell’università…) e guardiamo all’area marxista-leninista. Ebbene, mi pare difficile negare che il panorama (teorico, politico e organizzativo) sia connotato dalla frantumazione e dalla marginalità. In effetti, come hanno affermato qualche tempo fa Gabriele e Pioppi, tra i fattori oggettivi che ostacolano l’unità dei comunisti occorre richiamare innanzitutto, per le pesanti ripercussioni che questo evento ha determinato sia nelle file del movimento operaio internazionale e dei movimenti di liberazione nazionale sia nei rapporti di forza tra gli Stati su scala mondiale, la sconfitta dell’URSS e di altri paesi socialisti ad opera della borghesia imperialista e dei suoi naturali alleati all’interno di tali paesi, cioè dei moderni revisionisti. Da qui hanno tratto ulteriore forza la spinta verso la ‘reazione su tutta la linea’, fascistizzazione inclusa, e la tendenza alla guerra, che sono connaturate all’imperialismo. Orbene, il processo di socialdemocratizzazione che ha permeato di sé l’intero movimento operaio costituisce un grande ostacolo non solo per l’unificazione dei comunisti sul piano ideologico e organizzativo, ma altresì per la stessa prospettiva rivoluzionaria. Ed è proprio un caso esemplare della conversione dialettica di un fattore soggettivo (la ricerca di una generica identità comunista) in un fattore oggettivo (il blocco della prospettiva rivoluzionaria) quello che risulta dalla rinuncia, parziale o totale, tacita o dichiarata, da parte di un certo numero di gruppi che si ritengono comunisti, alla lotta contro il revisionismo, che è invece un compito integrante e inderogabile dei gruppi che sono comunisti e marxisti-leninisti.
Sennonché il galoppante processo della degenerazione revisionista e liquidazionista del movimento operaio avrebbe dovuto imporre ai comunisti marxisti-leninisti una straordinaria capacità di costituire subito una organizzazione alternativa e di agire, cioè elaborare ed attuare un piano strategico, per polarizzare intorno ad essa la maggioranza del proletariato. Tutta l’esperienza storica del movimento operaio dimostra infatti che, senza una organizzazione rivoluzionaria, la prospettiva della rivoluzione, benché resti iscritta nella dinamica contraddittoria del modo di produzione capitalistico (assieme, per altro, a quella, che gli autori del Manifesto del Partito Comunista non tralasciano di indicare, della “comune rovina delle classi in lotta”), si chiude per un lungo periodo (si pensi al periodo, durato ben 34 anni, compreso tra la Comune di Parigi del 1871 e la prima rivoluzione russa del 1905). Inoltre, occorre sottolineare che alle difficoltà intrinseche al progetto della ricostruzione del partito comunista si somma un’ulteriore difficoltà, rappresentata dallo iato profondo, che segna in questa fase la congiuntura della lotta di classe, fra questione sociale e questione politica (per una ‘metrica’ dei rapporti fra le due questioni si pensi, da un lato, al nesso strettissimo che si pose nel ‘biennio rosso’ e, dall’altro, alla dissociazione che si ebbe negli anni ’30).
Dunque, ciò che risulta con chiarezza è che, in Italia, l’ostacolo politico che sbarra la strada alla ricostruzione del partito comunista è il revisionismo/liquidazionismo. Un grave ostacolo di natura ideologica, che richiede una risposta coerente e sistematica sul terreno del socialismo scientifico, è poi, in un ambiente, quale quello della sinistra italiana, dominato dalla tendenza a rimuovere il conflitto di classe e le concezioni che su di esso si fondano, l’eclettismo, cioè il prodotto della confusione e della disgregazione. Vi è infine un ostacolo di natura teorica, che chiama in causa le capacità di elaborazione, individuali e collettive, dei comunisti: la mancanza di un’analisi scientifica del capitalismo e dell’imperialismo contemporaneo, fondata sulla teoria marxista- leninista. Si tratta di una carenza, per l’appunto di ordine scientifico, che spiega, in larga misura, la debolezza dei comunisti, ossia la loro disomogeneità ideologica e la loro dispersione organizzativa. Ad ogni modo, lo spartiacque che separa i comunisti, che si sforzano di risolvere il problema, oggi politicamente centrale, della ricostruzione del partito rivoluzionario della classe operaia e del popolo lavoratore, dagli opportunisti, che ostacolano tale processo, è la lotta contro l’economicismo. Sia la posizione che, a livello della pratica politica, esclude dal riconoscimento della lotta di classe la necessità della dittatura proletaria (= PCI), sia la posizione che, a livello della pratica organizzativa, scinde la partecipazione al movimento di lotta delle masse dalla ricostruzione del partito (= Centri sociali e aree anarco-riformiste che gravitano su di essi) hanno la stessa radice opportunistica: l’economicismo. Sia la posizione (oggettivistica) che affida al decorso naturale della crisi economica la formazione della coscienza di classe e la conseguente ricostruzione del partito, sia la posizione (soggettivistica) che enuncia la necessità della ricostruzione del partito ma non lavora per tradurla in atto hanno la stessa radice opportunistica, benché l’una moltiplichi le mediazioni e l’altra le abolisca in un colpo solo: l’economicismo (da cui si genera il volontarismo, da cui si rigenera l’economicismo… in una sorta di ‘cattivo infinito’). Così, subordinare il percorso della ricostruzione del partito ad una specie di ‘referendum’ fra le diverse compagini è un modo di vanificare, attraverso una procedura democraticistica, il fine cui si tende, poiché in nessun caso un partito rivoluzionario può nascere da una consultazione (e men che meno da una votazione) fra gl’individui, le compagini e le organizzazioni esistenti. Altrettanto erroneo è il modo di procedere di chi, pur affermando la necessità di ricostruire il partito, confonde, in nome della giusta esigenza di ancorare tale processo alla pratica sociale, l’istanza del partito, cioè della sintesi teorica e politica delle esperienze del movimento di classe, con l’istanza, che è differente sia per grado che per natura, del fronte unico e degli organismi rivoluzionari di massa. In ultima analisi, ciò che i romantici soggettivisti (i quali scambiano i loro desideri con la realtà) e i rinunciatari oggettivisti (i quali scambiano i limiti esistenti con l’impossibilità di agire) non sono in grado di comprendere è il nesso dialettico fra teoria e pratica, fra scienza e programma, fra previsione e volontà: il nesso dialettico in virtù del quale la realizzazione della tendenza oggettiva…dipende dall’azione soggettiva del partito. Tralascio infine la posizione, ad un tempo infantile e opportunistica, di chi, in una fase come quella attuale, in cui si tratta di arrivare a costituire il partito comunista, afferma ciò che è valido per la fase successiva, ossia che “un partito comunista esiste solo se è ben radicato tra le masse ecc.”.
Dal canto mio, sono convinto che oggi più che mai, sia in linea di principio che in via di fatto, non può sussistere alcuna cesura, nel dibattito e nella ricerca che vedono impegnati i comunisti, fra il lavoro teorico, l’analisi della situazione interna e internazionale, i giudizi e gli orientamenti politici relativi ad essa, da un lato, e, dall’altro, le indicazioni organizzative e gli obiettivi di lotta che derivano dall’applicazione di tale lavoro e di tale analisi alla congiuntura attuale dello scontro di classe e, nel contempo, ne garantiscono l’ulteriore sviluppo ed approfondimento. In realtà, la forma-partito non è solo, come ci ha insegnato Lenin, uno strumento fondamentale della lotta che il proletariato conduce per la conquista della maggioranza politica della classe operaia e del popolo lavoratore, per l’abbattimento dello Stato borghese e per l’instaurazione del potere proletario, nonché per la successiva transizione alla società comunista, ma è anche una condizione essenziale della conoscenza che il proletariato acquisisce ed elabora nel corso di questa lotta. Pertanto, chi ritiene che l’unificazione delle analisi e l’approfondimento del dibattito debbano precedere l’unificazione organizzativa (= gruppetti vari di mosche cocchiere) ragiona in modo non dissimile da chi ritiene che la lotta per il socialismo possa essere ingaggiata solo dopo che l’ultimo operaio sia stato conquistato alla causa del socialismo. Parimenti, colui il quale, ragionando in modo eminentemente schematico, sostiene che prima bisogna percorrere “la via all’in su” e dopo “la via all’in giù”, ha perso di vista il grande principio enunciato da Eraclito, fondatore della dialettica, secondo cui “la via all’in su e la via all’in giù è una stessa via” e va percorsa in entrambi i sensi. Nel caso migliore abbiamo a che fare con individui del tutto privi di spirito di partito, nel caso peggiore con individui che tendono a spostare la ricostruzione del partito comunista nella immensa lontananza di un futuro indeterminato. La conclusione che ritengo di poter trarre da questa deprimente rassegna del massimalismo, del velleitarismo, del nullismo, del revisionismo e dell’opportunismo, è che l’unico partito a cui mi sento vicino è il Partito Comunista, in cui si può riconoscere il nucleo embrionale del processo di ricostruzione di una soggettività comunista nel nostro paese.
Per quanto concerne il giudizio sulla recente scissione avvenuta nel PC, riconosco che, dall’esterno (essendo io un “compagno di strada” del PC), non è semplice formulare una valutazione sulle cause e le ragioni di tale scissione, mentre non è difficile prevedere che, a questo punto, la Rete dei Comunisti è il naturale approdo degli scissionisti, ed è scontato che questo raggruppamento, che aderisce alla compagine di Potere al Popolo, tenti di fare campagna acquisti accaparrandosi questo manipolo di giovani. Ritengo però che, per le questioni che investe, per le analisi che implica e per l’orientamento che ne consegue, la lotta politica, ideologica e organizzativa che si è svolta nel ristretto àmbito del Partito Comunista non può lasciare indifferenti tutti coloro che, a vario titolo, sono interessati al rilancio di una prospettiva marxista-leninista nel nostro paese. “Il partito epurandosi di rafforza”: è questo un insegnamento basilare di Stalin, che va tenuto presente. In queste ultime settimane sono state pubblicate le tesi programmatiche ed entro la fine del 2020 dovrebbe tenersi il terzo Congresso Nazionale del PC: questa sarà dunque la sede in cui, applicando correttamente il centralismo democratico, dovrà svolgersi il confronto tra le diverse posizioni e le differenti linee tattico-strategiche, confronto da cui scaturirà la linea generale del partito. Una volta approvata dalla maggioranza dei delegati al congresso, tale linea sarà poi vincolante e obbligatoria per tutti: dirigenti, quadri intermedi e militanti. Mi auguro pertanto che il prossimo congresso ponga le basi della crescita qualitativa del partito, ‘conditio sine qua non’ di una crescita quantitativa della sua influenza, secondo il corretto binomio leninista: partito di quadri / linea di massa. Insomma, riguardo alle “contraddizioni in seno al popolo” che si sono manifestate nel Partito Comunista io non sono pessimista, perché penso che debbano essere inquadrate in un processo oggettivo che tende necessariamente verso la maturazione, ovviamente fra contrasti, scontri e divergenze, di un autentico partito, indipendente marxista-leninista e rivoluzionario, che rilanci l’azione del proletariato anche in un paese politicamente, culturalmente e ideologicamente reazionario, qual è oggi l’Italia. A questo proposito, vi è un passo della hegeliana Fenomenologia dello Spirito (Firenze 1970, vol. II, pp. 117-118) che sembra confortare questa mia interpretazione circa il carattere potenzialmente progressivo che questo tipo di contraddizioni può acquisire, se il processo viene ben governato. Eccolo: “Un partito si comprova come vincitore solo perché si scinde in due partiti; e così mostra di possedere in se stesso il principio che prima combatteva, e di aver quindi tolta l’unilateralità nella quale prima sorgeva. L’interesse che si divideva tra lui e l’altro, cade ora interamente in lui, e dimentica l’altro partito, dacché proprio in questo trova l’opposizione che lo tiene occupato. Ma in pari tempo la discordia è stata elevata al superiore, vittorioso elemento, dove essa si presenta purificata. Cosicché dunque la scissione sorgente nell’uno dei partiti, pur sembrando una disgrazia, indica soltanto la sua fortuna”. Si tratta di una visione teleologica, progressiva e positiva, della “negazione dialettica” che supera se stessa e si invera nella “negazione della negazione”, ma, come spesso accade leggendo e meditando le pagine di Hegel, si resta colpiti dalla genialità delle sue argomentazioni dialettiche e dalla loro aderenza alla realtà.
L’esperienza storica del movimento comunista internazionale, alla quale i marxisti-leninisti apertamente si ricollegano, ci insegna che i partiti della classe operaia sono sempre stati costruiti sulla base di uno stretto legame dialettico fra l’unità teorica (i fondamenti del marxismo-leninismo) e l’unità politica raggiunta attraverso l’azione. Oggi l’azione deve tendere ad elaborare i primi elementi di una linea politica rivoluzionaria, adeguata all’attuale situazione interna e internazionale (è questo, peraltro, il solo terreno sul quale può crescere e svilupparsi anche la teoria). La prospettiva verso cui tendere è quella dell’unità organica di tutti i comunisti nel partito rivoluzionario, marxista-leninista, della classe operaia italiana: un partito con una linea politica corretta, militanti sicuri, una solida organizzazione, una preparazione teorica e politica ben salda, il quale sappia conquistarsi legami sempre più stretti con le masse. I comunisti devono quindi far propria e applicare nella presente congiuntura la massima leniniana che ho riportato nell’epigrafe di questo scritto: «Prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente» (Lenin). Ma qual è il punto archimedico di questa necessaria delimitazione? Credo che non possano esservi dubbi di sorta: esso per un marxista-leninista è l’obiettivo dell’abbattimento rivoluzionario dello Stato borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria quale condizione storicamente necessaria per la costruzione di una società socialista. Questo punto archimedico implica pertanto la rottura col revisionismo sulla questione che è sempre stata decisiva per distinguere un partito rivoluzionario marxista-leninista da una qualsiasi formazione politica riformista o centrista.
Mi sia infine permesso di concludere queste considerazioni, occasionate da un recente articolo del compagno Norberto Natali Contro “l’unità dei comunisti” (‘unità’ non a caso posta fra virgolette), con le parole del più grande fra i nostri maestri: «Il comunismo è una forza sociale materiale, che vince la nostra intelligenza, conquista i nostri sentimenti, salda la nostra coscienza con la nostra ragione, è una catena di cui non ci si può sbarazzare senza spezzarsi il cuore; è un demone di cui l’uomo non può trionfare che sottomettendosi a lui».