Lo stato delle cose*

Intervista a Fosco Giannini, della segreteria nazionale del PdCI | a cura di Mauro Gemma

ilbolscevico kustodiev*quest’intervista farà parte del libro di Giannini, in uscita, dal titolo Da una parte della barricata – Con, sottotitolo: Dalla lotta contro la liquidazione del Pci al progetto dell’unità dei comunisti. Introduzione di Andrea Catone e postfazione di Oliviero Diliberto

Dicembre 2012. Le elezioni politiche nazionali del 2013 sono ormai vicine. Dopo la disfatta dell’Arcobaleno del 2008 e la drammatica uscita dei comunisti dal Parlamento; dopo il governo Berlusconi, la Grossa Coalizione di Monti e la costituzione politica e sociale del “montismo”, è di nuovo l’ora del voto popolare. Ci si arriva con due posizioni diverse all’interno della Federazione della Sinistra: il Pdci per la costruzione di un fronte democratico e di sinistra ed un accordo con il centro-sinistra, il Prc contrario a quest’accordo. Ci si arriva dopo la vittoria di Bersani alle primarie. Come leggi il quadro generale?

Per leggere il quadro attuale occorre rivolgere un lungo sguardo all’indietro. Nel processo di consunzione della natura di classe del Partito comunista italiano (in questo processo, non, dunque, solo nella “Bolognina”) troviamo tanta parte delle risposte all’odierna crisi democratica del nostro Paese.

Tanta parte delle risposte all’avvenuto,profondo, cambiamento dei rapporti di forza sociali e politici a favore del capitale, a sfavore del movimento operaio complessivo. Certo,non ci sfugge che la svolta a destra del quadro politico e sociale italiano è, anche, il riflesso dei mutati rapporti di forza internazionali determinatisi dopo la caduta dell’Urss e il ritorno (soprattutto in Europa, poiché negli altri continenti le vittorie antimperialiste e la forza propulsiva dei paesi del Brics spuntano le unghie all’imperialismo) a una fase di restaurazione del potere totale delle forze imperialiste e capitaliste, con la conseguente rimozione – una volta venuta meno l’esigenza di politiche sociali come risposta alla grande estensione dei diritti e delle garanzie sovietiche – del welfare come categoria sociale centrale. Ma,in Italia, è stata la combinazione di questo “riflesso” internazionale con il suicidio del Pci e lo scatenamento degli spiriti animale dell’Ue a far crollare le dighe che contenevano le onde del liberismo. Il Pci non è stato una meteora politica, un accidente della storia: in Italia, esso ha rappresentato – finché ha mantenuto la propria natura comunista e, nell’essenza, sino all’“eurocomunismo” e alla nebbia politica e teorica da esso sollevatasi – l’esperienza politica, sociale, culturale e morale più importante dell’intera esperienza della nostra repubblica. L’unica forza organizzata e di massa di tutto il secondo dopoguerra (e l’unica nell’intera storia del nostro Paese, dall’unità d’Italia in poi) che nel momento in cui costruiva la democrazia e conquistava diritti per la “classe”, aveva anche la forza concreta di evocare un altro mondo: il socialismo. Il suo venir meno, rispetto a tutto ciò, non è dunque possibile registrarlo storicamente come una semplice scomparsa: la cancellazione del Pci ha rappresentato uno spartiacque. Dopo la “Bolognina”, dopo il XX Congresso – di scioglimento – del più grande partito comunista al mondo non al potere, l’Italia è stata un’altra. La borghesia non ha più temuto nulla; i padroni hanno osato ciò che prima era inosabile; l’ambiguità e l’immoralità, che per ragioni consustanziali alla storia italiana avevano, prima, durante e anche dopo il fascismo, abitato l’animo di una parte significativa del popolo italiano e di cui già avevano parlato Leopardi, Gramsci, Pasolini, con la progressiva liquefazione dell’etica di massa disseminata dal Pci (“un paese nel paese”) e con la mercificazione capillare del senso comune, riapparvero, si estero, presero forma di massa per poi consolidarsi, in tutta la loro volgarità e perniciosità, nel lungo ventennio berlusconiano. Prima e dopo la “Bolognina” subì un nefasto processo d’involuzione la Cgil: sempre più lontano Giuseppe Di Vittorio, sempre più egemone, nei tempi lunghi, Luciano Lama. Lo stesso sbocco politico e istituzionale di “tangentopoli” – in assenza della diga democratica che era stato il Pci – portò alla luce, consolidandole poi in forme conservatrici e reazionarie, più le ombre oscure che si muovevano dietro il “dipietrismo”, che gli elementi di pulizia morale, che, infatti, non trovarono mai modo di diffondersi e stabilizzarsi. Era la Seconda Repubblica, quella senza il Pci: la fase più untuosa della storia italiana del secondo dopoguerra. Quella in cui si mettono fortemente in discussione diritti, lavoro, salari, welfare, cultura. La fase, oltretutto, dell’espansionismo egemonico neoimperialista dell’Unione europea, del suo sempre più doloroso, e incontrastato, giro di vite. In questa fase, soprattutto, un partito comunista di lotta e di massa c’è mancato, è mancato alla “classe”. Lo stesso tentativo, generoso, coraggioso e inizialmente colmo di passione del partito della rifondazione comunista, si è infranto contro l’anticomunismo estetico dell’“ideologia” bertinottiana; vere e proprie mura pseudo teoriche sono state tirate su, in fretta e furia e su risibili basi ideologiche, contro il nuovo impulso comunista, contro chi aveva resistito all’occhettismo e voleva rilanciare l’azione comunista. Erano ostacoli di scarsissima densità politica e culturale, sideralmente lontani dal sentimento popolare e dalla cultura comunista, pensierini rifondativi continuamente elettrizzati da singulti concettuali piccolo borghesi. Ma essi,installati su di un potere monarchico e mediatico, quello dell’intero gruppo dirigente bertinottiano, sorretto da una vasta corte opportunista, hanno avuto la forza di far implodere il progetto inizialmente volto a trasformare Rifondazione in un partito di massa, legato alle masse popolari, riducendolo ( nelle sue linee guida, nel suo vasto apparato dirigente bertinottiano) ad un riflesso esistenziale, culturale e politico della piccola borghesia movimentista e “futurista”, pseudo colta, carrierista e dalla stazione eretta rovesciata: mani a terra e piedi in alto, diretti all’iperuranio e, specularmente, alle “belle poltrone” istituzionali. E’ stata una resa ideologica e politica, che, dopo la cancellazione del Pci, ha tolto letteralmente respiro al movimento comunista e anticapitalista in Italia. Ed è con ciò, sulla scorta di questa resa e del disincanto popolare prodotto dal governo Prodi nato nel 2006, che giungiamo, nel 2008, alla disfatta epocale della lista Arcobaleno, una lista nata attraverso l’accordo obliquo Veltroni – Bertinotti, che ha portato all’ “espulsione” dei comunisti dal Parlamento e dallo stesso tessuto sociale. Veltroni non voleva rapporti a sinistra; Bertinotti sognava di costruire il suo solito “nuovo soggetto politico” attraverso il superamento del Prc, dell’autonomia comunista e la vittoria elettorale dell’Arcobaleno: il combinato disposto di tanta insipienza portò alla fuoriuscita dei comunisti non solo dalla Camera e dal Senato, ma dallo stesso dall’immaginario collettivo. Portò a un loro profondo indebolimento, tuttora non superato.

Oggi, dunque, il quadro politico e sociale contingente non può che essere il prodotto di quest’insieme di fattori: scomparsa del Pci; progetto neocomunista letteralmente distrutto dal dannunzianesimo bertinottiano e quasi totalmente da ricostruire (come se la “Bolognina” si fosse estesa, senza soluzione di continuità, sino a noi); involuzione della Cgil e dell’intero movimento sindacale; diffusione – a ondate cicliche e di massa – di ogni forma di populismo, quello che organizza consenso su vastissima scala senza proporre analisi e progetti, senza chiedere (ai militanti e agli elettori) coscienza politica e culturale (la Lega, Berlusconi, Grillo), ma richiedendo l’idolatria del capo, cavallo di Troia per ogni sbocco autoritario; una linea duramente antioperaia di quella parte del capitale italiano (nella fase data, la più vasta) che, scartando a priori la competizione con gli altri poli capitalistici europei e mondiali, s’illude di mantenersi/garantirsi il saggio di profitto solo attraverso un continuo giro di vite contro il lavoro, giungendo, così, al doppio e nefasto obiettivo di chiudere i mercati interni e rinunciare a quelli internazionali. Tutto ciò, mentre i burattinai della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale diramano, inesausti, i loro ordini antisociali. Incontrastati. E’ solo in questo quadro che possiamo valutare i veri rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra destra e sinistra; valutare l’entità della crisi della democrazia; i pericoli d’instaurazione di regimi antidemocratici, iperliberisti o populisti, di natura e colori “inediti”. Solo in questo contesto possiamo valutare la vera capacità di incidere sul reale della residua sinistra in campo e a partire da ciò – affondando i piedi scalzi nella terra della realtà – capire quali sono i compiti di fase dei comunisti e delle forze di sinistra. Dalla loro forza reale, non presunta, poiché non si possono ingannare (e, infatti, non si ingannano) le masse con le urla più forti, con i propositi più arditi, con le parole scarlatte. I legami di massa recisi dall’occhettismo e dal bertinottismo si riannodano offrendosi (ora, nella fase data, con le forze a disposizione), come parti – le più consapevoli e dense di strategia – della resistenza antiliberista e democratica. Così si possono recuperare forze, per poter fare di più domani. Chi non vede la desertificazione politica, sociale e culturale prodotta dal lungo asse Occhetto – Bertinotti nel campo comunista e della sinistra anticapitalista, o è stato uno dei protagonisti di tanta desertificazione o è affetto da evidente miopia politica.

Un quadro difficile, oscuro… e come giudichi il governo Monti, in questo quadro? Cos’è il “montismo”?

Occorre ragionare: il secondo dopoguerra italiano è stato caratterizzato – essenzialmente – da due lunghi periodi politici e da un terzo appena accennato, ma quanto mai denso sul piano prospettico. Il primo periodo è stato quello dell’ordine democristiano. Un ordine spesso oscuro, non certo al servizio dei lavoratori,ma anche attraversato da forti pulsioni solidali del cattolicesimo popolare. Quella fu, soprattutto, la fase delle grandi lotte del Pci e della Cgil e l’insieme di tutto ciò – natura non liberista della Dc e ruolo politico e sociale avanzato del Pci e della Cgil – formò un quadro denso di soluzioni economiche, sociali e politiche aventi alcuni significativi segni di stampo “socialdemocratico”, un quadro nel quale lo Stato giocava un ruolo non secondario nell’economia, che non era lasciata solo nelle mani del mercato. Poi, c’è il ventennio berlusconiano, ancora non storicizzabile, ma di cui possiamo dire già qualcosa: nonostante tutti gli attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori e al welfare, Berlusconi non può, non riesce a costruire un nuovo, coerente, ordine liberista. E’ con Monti, invece, che quest’ordine nuovo, mai visto nella sua forma totale in Italia, è scientemente evocato e perseguito. Il tempo che, sinora, ha avuto Monti a disposizione non è bastato per cogliere quest’obiettivo, ma se il “montismo” proseguisse non vi è dubbio che un ordine liberista organico, strutturato e conseguente si costituirebbe. E’ per questo che Monti è l’uomo su cui puntano, anche per il futuro, gli Usa, la Nato, il Fmi, l’Ue, la Bce, la Merkel. I poteri forti, internazionali e italiani. Tutto è molto chiaro: da diverso tempo l’Ue e i poteri sovra ordinatori internazionali cercano il loro partito di riferimento, un partito di massa ad essi legato e subordinato, la loro lunga mano politica in Italia. Un partito che, tuttavia, non trovano ancora: non lo è il Pdl, poiché inaffidabile; non lo è l’Udc, poiché troppo debole; non può esserlo il Pd, poiché ancora non addomesticato e troppo denso di istanze socialdemocratiche e progressiste; non può essere Monti da solo, senza partito. E dunque è qui la questione: il Fmi, l’Ue, la Bce stanno assiduamente lavorando per costruire e consegnare a Monti (o ad una sua creatura, al “montismo”) il loro partito. Sabato 17 novembre Luca Cordero di Montezemolo, leader di Italia Futura, apre a Roma la kermesse “Verso la terza Repubblica”. Presso gli stabilimenti De Paolis di via Tiburtina si affollano circa settemila persone, un pezzo importante della classe dominante italiana. L’incontro – non poteva essere altrimenti – diviene un evento mediatico e, soprattutto, politico. Il cuore del discorso di Montezemolo è il seguente: “Non chiediamo a Monti di essere leader adesso. Noi, ora, gli prepariamo il fondamento elettorale per essere capo del governo domani”. Partecipano all’incontro il ministro “montiano” Andrea Riccardi, Lorenzo Dellai, Irene Tinagli, Edoardo Nesi. Al movimento giungono immediatamente le aperture di Fini e Casini. Lo stesso Alfano, segretario del Pdl, afferma di “guardare con attenzione” all’iniziativa. Rappresentanti di una vastissima e politicamente, socialmente, “pesante” area cattolica si schierano subito con Montezemolo: oltre il ministro Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, salgono sul palco della kermesse romana Ernesto Olivero, presidente delle Acli, e Raffaele Bonanni, leader della Cisl, che lavorano alacremente, tra l’altro, per portare a Montezemolo le cooperative bianche, la Confcooperative guidata da Luigi Marino, già protagonista, con Bonanni, dell’incontro “Todi 2”, un’accumulazione di forze cattoliche per Monti. Anche le gerarchie della Chiesa sono attive e a fianco del “movimento civico per la Terza Repubblica”: è il segretario di Stato del Vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, a incoraggiare Bonanni ad andare avanti. Ed è lo stesso quotidiano della Cei, Avvenire, a seguire con grande attenzione il progetto Montezemolo- Monti. A suggellare il tutto le parole non equivoche di Nicola Rossi, economista e membro (significativamente) del Comitato scientifico della Fondazione Italia-Usa: “La partita italiana si gioca a Bruxelles, più che a Roma, e c’è una persona che questo lavoro lo sta facendo al meglio e deve continuare a farlo: Mario Monti. Nelle parole di Vendola e di molti del Pd che vogliono rottamare l’agenda Monti vedo un programma antitetico… Con Bersani capo del governo il Paese sarebbe sotto il faro dell’Ue, come già capita alla Francia di Hollande: un dramma per il nostro Paese”.

Il partito di massa dell’Ue, della Bce e del Fmi in Italia è in costruzione. Non inganni il non grande peso elettorale che, ora, gli danno i sondaggi. Esso potrà trovare forme e percorsi diversi, potrà passare attraverso fasi costruttive convulse e contraddittorie, potrà fare passi avanti e poi indietreggiare (proprio perché, nell’Italia del secondo dopoguerra, un partito liberista di massa non si è mai costituito e di esso non vi sono radici e memoria): ma è in costruzione. Paradossalmente, oggi, l’ostacolo più rilevante al costituirsi del partito liberista di massa, quale “frazione” italiana dell’Ue e della Bce, è Berlusconi, col suo testardo progetto volto a riproporre una sorta di forza politica di destra, antioperaia ma – senza giungere ad un nazionalismo compiuto – non proiezione esatta ed appendice dell’Ue. La lotta di Berlusconi contro Alfano, oggi, è un impedimento alla costruzione del partito liberista dell’Ue. Ma Berlusconi ha esaurito il proprio ciclo e il suo confuso progetto non potrà opporsi ancora a lungo alla forza egemonica che l’Ue esercita a destra, e non solo a destra. Anche sussumendo, infine, lo stesso Berlusconi. O, più verosimilmente, tutto ciò che, in vent’anni, si è organizzato sotto le sue bandiere. Tuttavia, il punto, per i comunisti, è questo: una potente pulsione, ormai non solo carsica, inizia a prendere forma politica, una forma corposa e volta a soddisfare l’Ue e il suo desiderio di dominare, in Italia, direttamente, attraverso il proprio partito di riferimento. Quante volte ci siamo detti che se non riusciamo a percepire, decodificare, i moti sotterranei dai quali prende corpo la nuova realtà, non riusciremo a mettere a fuoco né una tattica né una strategia. Oggi è del tutto evidente che vi è un nesso profondo tra la natura rapace e improduttiva del nano capitalismo italiano e il progetto liberista strutturato dell’Ue. Ed è su questa base che la costruzione del partito liberista di massa come organo dell’Ue e come soggetto anticipatore e costruttore di un nuovo ordine liberista, diviene verosimile. Ed è a partire da tale, concreta, questione che occorre capire quali sono i compiti primari (non velleitari, ma praticabili, perseguibili) della sinistra e dei comunisti, affinché queste forze recuperino una linea di massa, un agire di massa. Corredo essenziale – quello di giungere ad almeno un minimo peso specifico di massa – per rilanciare, domani, una più conseguente lotta anticapitalista. Il compito centrale, oggi, è lottare affinché l’ordine liberista strutturato, di cui è portatore Monti, non si costituisca, riconquistando, con ciò, diritti e spazi di democrazia, entro i quali battersi. E per evitare il ritorno di Monti e delle sue politiche antioperaie e antidemocratiche occorre costruire un vasto fronte democratico e di sinistra, con i comunisti dentro. Non capire questo, oggi, vuol dire offrirsi all’inessenzialità, come lo stesso sindaco di Napoli, De Magistris, ha dichiarato. Offrirsi persino – politicamente, socialmente, materialmente – alla consunzione finale. Dalla Confindustria al Vaticano, il vero potere, in Italia, si sta celermente riorganizzando per portare la testa del nostro Paese sul piatto di Maastricht, escludendo da tale intento ogni minima resistenza riformista. Contro questa potenza politica, sociale ed economica, che trova un’eccezionale protezione internazionale, che progetta di scardinare definitivamente gli ultimi assetti democratici e istituzionali rimasti ad arginare gli spiriti animali del liberismo, non bastano (occorre essere dolorosamente realistici) le piccolissime forze della sinistra di classe, le piccole piazze in cui oggi, da soli, pur sempre dignitosamente, riusciamo a scendere. Queste forze, culturalmente le più avanzate in campo, non debbono scrivere, sulla proprie bandiere, la cronaca di una sconfitta annunciata. I comunisti e la sinistra di classe, non debbono più circoscrivere il loro progetto entro perimetri politici e sociali ristretti; non debbono più accontentarsi di essere “giusti” e di nicchia; non debbono godere della loro emarginazione. Se puntiamo in alto, come diceva Lenin, dobbiamo sparare a Dio, non a una quaglia di passaggio. E sparare a Dio, oggi, vuol dire, innanzitutto una cosa: uscire dalla “clandestinità” sociale, recuperare un respiro ed un ruolo di massa. Dobbiamo mettere a fuoco una linea che, senza snaturamento alcuno della nostra identità comunista, antimperialista e anticapitalista, ci faccia percepire di nuovo, dal senso comune, quali soggetti attivi della resistenza antiliberista di massa. Attraverso il velleitarismo, seppure inconscio, seppure il più nobile dei velleitarismi, oggi non riusciamo a contenere l’onda gigantesca e montante del capitalismo reazionario italiano, che si solleva con Monti – od un suo clone – alla testa. Oggi, dobbiamo recuperare l’estrema lezione togliattiana, e quella che era, allora, l’unità delle forze antifasciste, deve essere, oggi, l’unità delle forze antiliberiste. Non comprendere che poter svolgere un ruolo (avanzato e attivo) nella costruzione di tale unità può riconsegnare ai comunisti quel profilo di massa cancellato dall’asse Occhetto-Bertinotti, vuol dire non avere in nessun modo il polso della situazione. Quando Togliatti propone la svolta di Salerno, il Pci può contare solo su poche migliaia d’iscritti. Quella svolta colloca il Pci su di un fronte di massa; lo rende, di fronte alle masse,utile, necessario al superamento del fascismo e alla costruzione della democrazia. Da quella svolta nasce quel Pci di massa che avrebbe cambiato l’Italia nelle sue fibre profonde. Lo sappiamo: nessuna storia può essere pedissequamente riproposta e ripetuta. Ma le lezioni della storia esistono, e quella del Pci, del suo trasformarsi – facendo, apparentemente, dei passi indietro – nel baluardo della democrazia italiana, rimane una delle più grandi lezioni sull’organizzazione del consenso di massa.

Abbiamo il compito di lavorare per unire le forze antimontiane, vincere le elezioni e imboccare una via politica democratica. E poi vigilare e battersi perché questa via sia praticata. Obiettivo, quello di aprire una via democratica, peraltro non certo scontato, poiché la destra, seppur confusa nella sua ricerca di una propria unità liberista di massa, và agendo su tutti i fronti, non solo a partire da sé, ma estendendo scientemente la propria influenza, il proprio progetto strategico capillarmente e ovunque: basti pensare al contendente “thatcheriano” di Bersani, a Renzi, al suo improvviso e molto ambiguo consenso. Alla possibilità non proprio remota che Renzi possa divenire, anche dopo la propria sconfitta alle primarie,l’anello mancante per la costruzione del partito liberista di massa dell’Ue. Per questo è stata importante la scelta del Pdci di votare e indicare Bersani al ballottaggio: una scelta compresa e vissuta come giusta all’interno del grande popolo democratico e di sinistra ( milioni di persone, di lavoratori) e a livello di massa, che aiuta i comunisti a recuperare legami e senso di massa.

Ma i comunisti, ricordano in molti, sono stati sempre contrari alle primarie…

E contrari rimangono. Ma il punto è che i comunisti sono, innanzitutto, materialisti. Non credono all’esistenza delle cose in sé, a quel differenzialismo politico e teorico che divide ogni cosa dall’altra, rendendo ogni cosa autonoma dall’altra. E, dunque, inutile e svolazzante nel vuoto, come foglie al vento, come le parole scarlatte. I comunisti hanno, invece, una concezione della totalità, del tutto che si tiene,ed è per questo che rifiutano le vuote posizioni di principio, belle, all’inizio, quanto stucchevoli e nefaste in relazione allo stato delle cose presenti. Le primarie non ci piacciono, d’accordo. Ma se l’obiettivo era quello di battere Renzi e le sue posizioni in sintonia con la destra, con i padroni, con l’agenda Monti e con Berlusconi; se l’obiettivo era anche, com’era, quello di immergerci in una lotta democratica e di massa, essere pesci nell’acqua, noi dovevamo utilizzare anche lo strumento delle primarie, senza stare attaccati alle sterili “questioni di principio”. Dobbiamo costruire un’alternativa a Monti; dobbiamo costruire un fronte il più possibile avanzato, impedire che il partito liberista in fieri prenda forma consolidata. E per cogliere quest’obiettivo dovevamo, innanzitutto, battere Renzi.

Ciò vuol dire, dunque, costruire un nuovo centro-sinistra?

Vuol dire che i comunisti e le forze della sinistra debbono battersi affinché il Pd – un partito di massa avente ancora al suo interno importanti spinte socialdemocratiche, progressiste, democratiche, “costituzionaliste”, oltreché una forte destra liberista e conservatrice – non cada nella fascinazione “montista”, recuperi autonomia per offrirsi quale spina dorsale di un governo che introduca la patrimoniale e una legge contro l’evasione fiscale, a partire da quella – vastissima – delle grandi fortune economiche; che metta al centro il lavoro; che sia per l’articolo 18 e contro l’articolo 8; che cancelli – come sembra intenzionato a fare anche il dirigente Pd Damiano – le controriforme liberiste di Monti relative alle pensioni; che metta in discussione il fiscal compact e ricostruisca la scuola, la sanità pubblica, lo stato sociale necessario. E’ chiaro che per giungere a tali obiettivi il Pd deve battere le perniciose posizioni interne alla Renzi e deve avere al proprio fianco l’intera sinistra e l’intera area comunista italiana, come vera e propria accumulazione di forze positiva e virtuosa. Se col Pd ci fossero Sel, la Fds nel suo insieme e non solo i comunisti italiani, l’intera Idv, De Magistris, i Verdi, Alba e le forze del movimento, tutto sarebbe più facile. Sarebbe più facile battere il “renzismo”. E proprio per questo diciamo che ogni defezione, ogni rinuncia alla costruzione di questo fronte democratico e di sinistra ne indebolisce la spinta antiliberista, rafforzandone quella “montiana” interna. E dico tutto ciò anche alla luce del fallimento del progetto del polo di sinistra…

Non era un progetto giusto, questo del polo di sinistra?

Era un progetto giusto, giustissimo, persino rispetto alla non remota eventualità – vedi le ultime elezioni regionali in Sicilia – che esso non avesse poi la certezza di superare lo sbarramento elettorale nazionale. Era un progetto così giusto che il nostro Partito, il Pdci, per oltre un anno, sul campo, si è battuto per costruirlo. Durante la prima campagna per la raccolta delle firme per il referendum sull’articolo 18, ognuna delle 150 iniziative nelle piazze, davanti alle fabbriche, nei convegni pubblici, è stata da noi scientemente concepita anche come occasione per unire strategicamente l’intero polo di sinistra. In ogni iniziativa che abbiamo messo in campo oltre quelle per i referendum, a fianco dei lavoratori dell’Alcoa, a Pomigliano d’Arco, a Melfi, alle Acciaierie Lucchini, ai cantieri navali di Ancona, Viareggio, Castellamare di Stabia e via dicendo, abbiamo sempre richiesto la presenza dell’intera Federazione della Sinistra, di Sel, dell’Idv, della Fiom, dei sindacati di base, dei movimenti di lotta. Questo perché pensavamo che proprio “dal basso”, nell’iniziativa comune – a partire dalla chiara volontà proveniente “dall’alto” di unire – potesse prendere corpo il polo di sinistra. Ciò che è accaduto è molto semplice: a costruire il polo di sinistra Sel non era interessata e l’Idv non si è stracciata le vesti. E, dunque, il polo è fallito sul campo. Ora, sembrano davvero ridicole e persino sconcertanti alcune critiche che puntano ad addossare ad altri la responsabilità del fallimento del polo di sinistra. No, dobbiamo rimarcarlo bene: esso non è partito poiché Sel innanzitutto, ma anche l’Idv, tra i soggetti maggiori,non hanno voluto. Mentre De Magistris, al progetto del polo di sinistra, non si è mai, davvero, accostato. Il nucleo che rimaneva ( Alba, Sinistra critica, Nomonti day), seppur composto da forze dignitosissime, certo non aveva e non ha, purtroppo, la forza di guidare un moto di massa antiliberista e anticapitalista, né la forza, verosimilmente, di accumulare consensi sociali sia per superare lo sbarramento elettorale che per battere il “montismo” e aprire, in solitudine, un’alternativa. Di converso, esso ha la forza di sottrarre energie al polo che tende a spostare l’asse di sinistra del centro-sinistra. Senza aver potuto, oggettivamente, perseguire il polo di sinistra, la linea più razionale è quella del fronte democratico e di sinistra, in alternativa a Monti e al “montismo”. All’interno del quale fronte ricostruire il polo di sinistra…

Da alcune parti si alza una critica nei nostri confronti: si dice che il Pdci, con la linea del fronte democratico e di sinistra, avrebbe diviso la Federazione della Sinistra e il progetto dell’unità dei comunisti…

Penso che tale argomentazione sia così priva di senso, così speciosa e persino ipocrita che nessun compagno serio – sia esso del Prc o del Pdci – possa prenderla in considerazione. Ci siamo battuti per l’unità dei comunisti sin dal 2008; il Pdci ha incardinato i suoi due ultimi congressi nazionali su questa stessa questione; l’unità dei comunisti è stata proposta al gruppo dirigente del Prc in tutte le salse e ogni giorno per tutti questi ultimi quattro anni; l’ex area de l’ernesto, che ha poi scelto la strada dell’unità con il Pdci, l’ha trasformata, invano, nella battaglia centrale all’interno del Prc; la stessa Fds è stata concepita, da chi propugnava l’unità dei comunisti, come primo passaggio per questa unità. Viceversa, chi è stato contrario sin dal primo minuto all’unità dei comunisti, come il compagno Ferrero e il suo gruppo dirigente, non ha mai smesso di esserlo e ha concepito la Fds come un passaggio per evitare l’unità dei comunisti. E concependo la Fds in negativo (utile, cioè, soprattutto ad evitare un’azione, l’unità dei comunisti) è chiaro che si toglie ad essa ogni respiro, ogni sviluppo, obbligandola alla paralisi politica e sociale, come è stato. Sul piano contingente ricordo solo che, ben prima – mesi prima – della proposta avanzata dal gruppo dirigente del Pdci alla Fds e volta alla costruzione di un fronte democratico e di sinistra, Paolo Ferrero aveva, in alcuni interventi sulla stampa nazionale, lanciato il progetto di una Lista arancione, senza più simbolo comunista ( per inciso: quale orrore quell’arancione che piace a tanti, da De Magistris a Ferrero: non ricordano che è il colore dei movimenti filoamericani, sostenuti dalla Cia, antirussi, liberisti e anticomunisti? Non possono pensare ad un altro colore, uno che non evochi le politiche filo imperialiste e attratte dalla Banca centrale europea che avevano, ad esempio in Ucraina, i leader arancioni Viktor Juscenko e Julija Tymosenko?). Proposta, quella della Lista arancione di Ferrero, di cui non si era affatto discusso tra i gruppi dirigenti della Fds. Come non si era mai discusso di un nostro eventuale rapporto con Grillo, da noi sempre duramente avversato, ma che Ferrero, in una fase, aveva persino evocato. Ma occorre notare, detto tutto ciò, che lo stesso compagno Ferrero, con il suo gruppo dirigente, sembra comprendere la razionalità e la liceità della nostra proposta. Ferrero non è d’accordo, ha un’altra linea contingente e tattica, ma non per questo drammatizza sino al punto di mettere in discussione la Fds, che, infatti, va preservata e difesa, poiché la lotta è lunga e l’unità dei comunisti e della sinistra è un bene che deve protrarsi ben oltre ciò che rimane, comunque, solo un passaggio, come tanti altri, della lotta di classe: il passaggio elettorale.

Cosa vuoi dire, con questo?

Semplicemente, voglio dire che i comunisti sono condannati a lottare all’interno di una struttura generale che non è la loro, quella capitalistica, che ha una democrazia borghese e regole borghesi, che occorre accettare se non si vuol essere posti ai margini della realtà. Le elezioni borghesi sono solo uno dei tanti passaggi della nostra lotta, del conflitto di classe e, se si enfatizzano, si assume – in toto – il punto di vista borghese, che fa delle elezioni l’apice insuperabile della democrazia. Democrazia borghese, appunto. Già Lenin, nella polemica con Bordiga, ci avvertiva: l’enfasi extraparlamentare è speculare al cretinismo parlamentare. Se ti agiti, soggettivamente od oggettivamente, solo per star fuori dal Parlamento o solo per starci dentro, senza altre ragioni, sbagli comunque, sei su di una linea irrazionale e subordinata. Oggi, la scelta giusta, funzionale alla ricerca di una linea di massa, è, per noi, quella di svolgere un ruolo da protagonisti nella lotta contro l’instaurarsi del “montismo”, di quel liberismo alla “Chigaco Boys” (l’America Latina di Videla e Pinochet) che vorrebbe il capitale italiano, in combutta con l’Ue. Se Ferrero crede in un’altra linea tattica e contingente non saremo noi a demonizzarlo: l’importante è non dividerci sulla strada maestra della lotta anticapitalista e antimperialista, sulla lotta strategica per il socialismo. Detto ciò, credo sia giusto aggiungere che anche la nostra linea va praticata ad alcune condizioni, che è meglio chiarire. Primo, la linea del fronte democratico e di sinistra, con la conseguente conquista del gruppo parlamentare comunista, va praticata a condizione che l’intero gruppo dirigente del nostro Partito sia consapevole che essa non è solo “una linea in sé”, ma è, soprattutto, funzionale all’obiettivo per noi centrale: la costruzione del Partito comunista. Secondo, che tale linea va discussa democraticamente, capillarmente, con l’intero corpo del nostro Partito, sino all’ultimo compagno dell’ultima sezione. Terzo, che va organizzata, in modo ancora più deciso di prima, l’opposizione politica e sociale al governo Monti e al “montismo”, presente e futuro; quarto, che nel momento stesso in cui facciamo la scelta del centro-sinistra lavoriamo, contemporaneamente, al rilancio di un profilo politico e teorico comunista. Compito, questo, che attiene sia al Partito che all’Associazione Marx21. Per ultimo: è del tutto evidente che lavoreremo ventre a terra affinché il “montismo” sia sconfitto, che una linea politica antiliberista vinca, che il nostro Partito riconquisti una linea di massa, che riconquisti un gruppo parlamentare utile alla lotta e alla ricostruzione del partito comunista. Ma è altrettanto evidente che se non riusciremo in questo, se saremo sconfitti, se non conquistassimo il gruppo parlamentare, il partito comunista continuerà la sua strada e lavoreremo con ancora più lena, con maggior spirito di sacrificio per resistere e rilanciare il progetto comunista.

E che cos’è – è una provocazione – un partito comunista?

No, non è una provocazione. E’ una domanda giusta. Da cosa è dato un partito comunista? Dal suo rapporto profondo, privilegiato, con il movimento comunista, antimperialista e rivoluzionario mondiale; dal mantenere e sviluppare, nel proprio corredo politico-teorico, la categoria centrale dell’imperialismo; dalla sua netta posizione antimperialista; dalla lettura, di natura antimperialista, dei moti geo-politici ( oggi, solo con quest’ ottica possiamo comprendere il ruolo positivo della Cina nello scacchiere internazionale, mentre altri comunisti non lo capiscono; abbiamo potuto definire l’intervento Usa e Nato contro la Libia una guerra imperialista, mentre altri comunisti hanno, su questo, balbettato, organizzando addirittura –durante l’aggressione Usa e Nato – manifestazioni di fronte all’ambasciata libica e non contro quella Usa; possiamo stigmatizzare vigorosamente l’odioso e sanguinario intervento imperialista in Siria, mentre altri comunisti faticano a condannarlo nettamente, per paura di legittimare Assad; possiamo comprendere il ruolo di contrappeso antimperialista dell’Iran, mentre altri comunisti stentano a comprenderlo). Un partito comunista è dato dal mantenimento del proprio rapporto con la storia del movimento comunista e rivoluzionario; dalla propria cultura politica, dal proprio asse ideologico marxista e leninista; dal rapporto creativo col proprio corredo culturale; dalla sua cultura e pulsione unitaria; dal suo rapporto con le masse, col sentire delle masse; dal suo ruolo d’avanguardia e – contemporaneamente – dal rifiuto dell’avanguardismo; dalla sua lotta contro il massimalismo e il minimalismo; dal suo radicamento e dalla sua capacità di organizzare il conflitto sociale, la lotta di classe. Qualità essenziali, tutte queste, che, in gran parte, si addensano nel Partito dei comunisti italiani e non in altre forze che, in Italia, si richiamo al comunismo; un Pdci che, seppur ancora troppo gracile per organizzare e sostenere un conflitto all’altezza dello scontro attuale tra capitale e lavoro, possiede, tuttavia, la qualità di base per potersi sviluppare sul piano organizzativo e su quello delle capacità di lotta: un gruppo dirigente diffuso – centrale e territoriale – ed una spina dorsale di quadri e militanti con il segno profondo della cultura comunista. Ed è per questo che, oggi, di fronte alla crisi dell’intero movimento comunista italiano e sotto le macerie occhettiane e bertinottiane, occorre, innanzitutto, riconsegnare al Pdci una linea di massa e le basi materiali per la propria ricostruzione.

Si levano critiche rispetto al “nostro accordo con il Pd”…

Coloro che avanzano queste critiche sono, spesso, gli stessi che ci criticano per aver indicato di votare Vendola, in prima battuta, alle primarie. Senza accorgersi che abbiamo indicato di votare Vendola, che con noi e altre forze è impegnato sui referendum degli articoli 18 e 8 e in difesa delle pensioni e che, tra i candidati alle primarie, è colui che più si è speso nella battaglia antimontiana e antiliberista, proprio perché non vogliamo fare un accordo con il Pd, ma un accordo di centro-sinistra accumulando più forze possibili a sinistra.

Si levano anche critiche relative a due questioni: il fatto che non si dovrebbe fare nessun accordo con un Pd che ha sostenuto Monti e che i comunisti non debbono andare al governo…

Rispetto alla prima questione: la politica è una cosa viva, non si potrebbe fare se ci riferissimo solo al passato. Il Pd ha governato con Monti ma, ora (ora!), ha una chiara pregiudiziale antimontiana e un’altrettanto chiara contrarietà ad una riedizione di una Grossa Coalizione. E’ su questa base, peraltro, che Vendola, e già tanta parte dell’Idv, lavorano per un accordo di centro sinistra. E’ su questa base che vi è lo scontro tra Bersani e Casini. Sarebbe un grosso errore pensare al Pd come un blocco unico, granitico, tutto liberista. Avremmo uno sguardo semicieco, che non ci farebbe vedere le contraddizioni importanti (per ora e per il futuro) che vi sono all’interno del Pd, tra orientamenti socialdemocratici, progressisti, popolari e chiare inclinazioni liberiste e conservatrici. Sarebbe un errore non capire che, ora, il nostro compito è di far emergere e vincere le istanze più avanzate. Sulla seconda questione, relativa al fatto che i comunisti non possono andare al governo, entrare in un ipotetico prossimo governo di centro-sinistra: non c’è bisogno che ce lo dicano gli altri, poiché l’abbiamo ratificato al nostro ultimo Congresso e lo ribadiamo anche oggi. E l’esperienza serve: il gruppo dirigente del Pdci, con alla testa il compagno Oliviero Diliberto, ha fatto una seria autocritica sulla questione della guerra contro l’ex Jugoslavia. Questo è indispensabile, oggi, per affermare che i comunisti potranno appoggiare un governo di centro-sinistra che superi il “montismo” e il liberismo, non appoggiando mai, viceversa, né politiche antioperaie né guerre imperialiste. E’ una fase davvero difficile e i comunisti, per superare i guasti storici scientemente provocati dai tanti denigratori e distruttori del movimento comunista italiano e per risollevarsi, non devono scivolare né nel massimalismo parolaio né nella subordinazione. Affermava Lenin, nell’Estremismo malattia infantile del comunismo, il saggio scritto nell’aprile del 1920, in vista del secondo Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi nell’estate del ’20 e riferendosi ai “sinistri tedeschi”: “C’è da stupirsi che questi “sinistri”, con queste opinioni, non pronuncino una recisa condanna del bolscevismo! Non è, infatti, possibile che i “sinistri” tedeschi non sappiano che tutta la storia del bolscevismo, prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, è piena di casi di destreggiamenti, di accordi, di compromessi con altri partiti, compresi i partiti borghesi! Condurre la guerra per il rovesciamento della borghesia internazionale, guerra cento volte più difficile, più lunga, più complicata della più accanita delle guerre abituali fra gli Stati, e rinunziare in anticipo a destreggiarsi, a sfruttare i contrasti di interessi (sia pure temporanei) tra i propri nemici, rinunziare agli accordi e ai compromessi con eventuali alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionati) non è una cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell’ardua scalata di un monte ancora inesplorato e inaccessibile, si rinunciasse preventivamente a far talora degli zig zag, a ritornare qualche volta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare direzioni diverse? ”. Era Lenin, per quel tempo e per oggi.