L’amara medicina del Partito di massa

bandierine rossedi Lamberto Lombardi, segretario PCdI Brescia

Riceviamo dal compagno Lombardi e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dei comunisti

La finestra di dialogo, e di aria fresca, che si è aperta nell’intento di costruire nel 2016 un Partito ci sottopone senza posa una elevata casistica di criticità che, però, non sono generate al ‘nostro interno’, non riguardano noi nello specifico se non per il fatto che al nostro interno le trasferiamo da fuori e da prima.

Caso mai l’ambito di cui si sta parlando ha il merito di renderle tangibili e visibili, queste criticità, di far sì che si manifestino in quanto tali.

Chi come me bazzica da sempre queste che per decenni sono state morte gore ha dovuto da tempo  interrogarsi su una realtà culturale diffusa e apparentemente inscalfibile che porta, per esempio, il compagno Raccichini a dare per persa la partita di costruire un Partito di massa.

Che accade dunque?  Proviamo a scomodare la filosofia, la sua capacità di rappresentare un esistente non altrimenti evidente,  e sfidare le nostre capacità di apprendisti, capacità che in questo campo sicuramente non sono mai state eccelse.

Cominciamo con una domanda: cosa hanno in comune due genitori che aggrediscono l’insegnante che ha dato un’insufficienza al figlio, Ronald Reagan che dice la realtà siamo noi, un format televisivo che fa ascolti record mettendo in scena le intimità delle persone, la mistica intorno a Padre Pio e una sinistra frazionata in cento parti (e l’elenco potrebbe allungarsi pressoché all’infinito)?

La risposta e’ il pensiero postmoderno che si rappresenta in una corrente filosofica esclusivamente occidentale che oggi più correttamente definiremmo, però, ideologia postmoderna, intrigante e pervasiva dei più intimi ambiti personali come delle grandi opzioni.

Essa prese avvio negli anni settanta, nella sinistra, come moto antidogmatico che metteva in dubbio il valore, prima, e l’esistenza stessa, poi, delle verità assolute ed assolutamente definite.

L’esempio semplice e classico per descriverla è un quesito: che definizione dare dell’oggetto che abbiamo sul tavolo? E’ davvero un bicchiere? o magari non è un tronco di cono ? o piuttosto un oggetto in vetro? E così via dicendo, all’infinito, producendo definizioni che, in quanto non false, sarebbero egualmente vere tra di loro. Questa asserzione di un infinito numero di verità partiva dall’assunto che la normale definizione dell’oggetto in questione come ‘bicchiere’ fosse il portato di sovrastrutture culturali, sovrastrutture impositive che andavano messe in discussione a favore di una più allargata e rinnovata partecipazione al ‘vero’.

Ora, quali che fossero le intenzioni dei nostri eroi, e comunque ben al di là ed altrove delle stesse, i portati finali di questa rivoluzione furono assai di destra e dalla destra stessa recepiti e gestiti come si conviene a chi trova uno strumento finalmente adeguato.

Infatti, in grande, questa radicale messa in discussione degli assunti teorici, ideologici e storici giungeva in breve a nascondere il Novecento stesso con il suo portato di messaggi che quanto più imponenti erano tanto più erano da confutare. Questo, contestualmente ai noti fatti storici di fine secolo, è il terreno di coltura per la più tipica e propagandata delle teorie storiche ‘postmoderne’ cioè la fine della storia e la fine delle ideologie dell’americano Francis Fukuyama.

E non paia una forzatura considerare che il postmoderno prende le mosse dalla grande operazione di condanna della figura di Stalin, operazione trasversalmente riuscita, e, per quanto assolutamente approssimativa, gradita e utilizzata tanto a destra che a sinistra.

Per fare questo,  però, è stato necessario essere complici nel rimuovere la verità storica e particolarmente quella che lo vede, per esempio, immagine della sconfitta del nazismo per poi consegnarlo ad un giudizio liquidatorio, indiscusso perché praticamente mai seriamente indagato, che ottiene come ultimo risultato di mettere una pietra sopra la stessa Rivoluzione d’Ottobre e quindi su tutto il secolo.

Nel piccolo si giungeva alla frammentazione di qualsiasi assunto precedente per giungere a verità piccole piccole, a misura di individuo, verità tascabili. Dalla medicina all’alimentazione, dalla religione alla politica tutto diveniva ‘à la càrte’ in un processo inarrestabile di apparente democratizzazione  dei significati ma, in sostanza, di individualismo radicale. Individualismo che si andava rafforzando dissolvendo qualsiasi codice di riferimento: le verità erano divenute infinite affinché  ognuno avesse la sua personale e privata, indiscutibile da parte di qualsiasi entità statuale o collettiva.  Così, se non esistono verità superiori alla mia, cosa insegneranno mai i docenti a mio figlio? Che autorità avranno mai di giudicarlo ? E questo moto ‘antiautoritario’ porta al paradosso apparente dei genitori che aggrediscono gli insegnanti per un giudizio negativo dato al figlio. Con chiarezza questo non è più paradosso ma logica conseguenza, esattamente come queste generazioni di giovani che si affacciano alla società con la loro tradizionale carica eversiva ma non trovando gerarchie di valori, invece che imparare, si sentono investiti del ruolo di insegnanti. E cosa insegnano, in fondo, se non la giovinezza, valore minimale ed inservibile fuori da  un contesto sociale complesso in cui anche gli anziani abbiano un ruolo e una funzione?

Della Storia, in questa vertigine individualistica, resta ben poco, così come dei valori, delle culture e della stessa responsabilità individuale e si resta in balìa del presente e del soggettivo nella efficace e pornografica rappresentazione che ne danno i format televisivi dove vanno in scena pseudo drammi e microstorie ossessive nella loro ripetitività ma che danno l’agognata visibilità a costo di rinunciare per sempre all’intimità e alla vergogna e, direbbe Pasolini, all’identità..

Il primo illustre a perdere, a suo modo, la pazienza fu il mite Umberto Eco che intervenne per proporre almeno un accordo minimo: se non possiamo convenire insieme che questo sia un bicchiere diciamo almeno che non è una giraffa! Dicesi ‘realismo negativo’, non siamo d’accordo su ciò che è ma almeno lo saremo su ciò che sicuramente non è.

Perché il disastro di questo postmoderno è che neanche lo si può definire democratico dato che (fa giustamente notare Maurizio Ferraris)  in presenza di miliardi di verità tutte uguali una gerarchia si impone lo stesso ma non essendo quella degli argomenti è piuttosto quella della forza: tra le tante  definizioni di questo oggetto quella vera è la mia perché ho i mezzi per imporla. Si spiega così l’affermazione di un membro dello staff di Ronald Reagan: la realtà (la verità) con cui tutti devono fare i conti oggi è una sola e siamo noi, gli USA. Qui scompaiono le sfumature e i dubbi interpretativi, qui esiste una sola verità e che valga per tutti. Come dire, dall’antidogmatismo rivoluzionario si è arrivati dritti dritti al medioevo dell’autorità regale di derivazione divina o, se vogliamo, a rimettere in sella il padrone delle ferriere.

Ma, ahimè, i guai non finiscono qui perché un altro motivo per cui il pensiero postmoderno fa a pugni con la democrazia è che tra tante verità inattaccabili non può esserci dialettica, non c’è spazio per il confronto e ogni discussione si chiude sul nascere quando i contendenti se ne vanno per la loro strada o, peggio,  si affrontano con  le relative verità sul piano delle forza fisica. E’ questa, dopo la fine delle ideologie, anche la conseguente fine della politica intesa come confronto fecondo di differenti linee di pensiero. Restano solo la tecnica del potere e l’unitarismo inteso come assemblaggio di individui per fare numero e non certo per sostenere ipotesi comuni che non esistono.

Così la sinistra, nata assertiva e forte delle rivoluzioni, diventando ‘postmoderna’ assume il minimalismo del non dire più nulla per non essere dogmatica e perseguendo il pluralismo inteso come assunzione passiva del senso comune. Inutile stupirsi degli esiti.

Come non stupisce che aderendo essa collettivamente alla teoria della fine della storia, poco importa se coscientemente o meno, qui siano state egemoni per decenni quelle forze di ispirazione trozkista che in virtù del loro ergersi a vittime della storia stessa ne esigono e rappresentano gioiosamente la fine quale premessa di una rinascita millenaristica. Dal materialismo storico alla mistica.

Neppure sorprende che a rappresentarne l’egemonia si stata una forza come Rifondazione comunista che  in virtù di una ‘democrazia delle verità’  ha escluso per se stessa le necessità di manifestare un’unica linea politica per cercare di rappresentare piuttosto un sincretismo tra le varie ‘anime’ della sinistra arrivando a mettere sullo stesso piano tutto ciò che potesse avere la valenza di alternatività. E’ proprio la confusione fattuale tra sinistra di alternativa e sinistra di classe (la classe, vecchio dogma, naturalmente non esiste più) a fare di quel Partito, nella sua contraddittorietà, una delle più straordinarie esperienze postmoderne divenendo, naturalmente diciamo noi, veicolo per tanti interessi individuali (anche se di massa) tra i quali hanno prevalso, come altrove, quelli dei più forti.

Partito esemplare dunque Rifondazione, per le grandi speranze suscitate ma, malinconicamente, esitate solo nella memorabilità di qualche carriera individuale, nelle tante scissioni (se la mia verità è pari alla tua ma differente perché stare insieme ora che viene meno anche il carisma del caro leader?) e nell’egemonia dell’entrismo negativo (entrare senza condividere e per distruggere).

E anche da noi,  dove confusamente si è compreso l’inghippo e ci si appresta a fissare il punto di una identità politica forte, dove ci si appresta al Partito di massa e di classe, anche qui, tutti i nodi dei comportamenti inveterati negli anni, tutte le culture individualistiche percolate nelle pratiche collettive stanno arrivando al pettine. E anche coloro che pure di Partito hanno diffusamente scritto nel tempo si sottraggono al primo passaggi critico, altri sgomitano e altri, rifondativamente, tengono  già pronti i bagagli per un altro posto ed un’altra storia, microstoria naturalmente. E’ come l’albero di Bertoldo, lo devo scegliere ma, disdetta, non ce n’è mai uno che vada bene.

Perché amara è per tanti la medicina del partito, soprattutto se di massa e di classe: quando lo si evoca poi esso c’è per tutti e non solo per gli altri, e quando c’è allora bisogna rispettarne i tempi e la dialettica soprattutto se aspra. Il potente antidoto contro il tutto e subito impone la stretta strada dell’arricchimento collettivo tramite la valorizzazione di quello che è una seconda definizione di Partito Comunista e cioè spazio dialettico votato alla definizione di una linea comune tra lavoratori. Questo spazio esiste solo lo vuoi distribuendo ruoli dimenticati come quello dell’intellettuale organico, di colui che si dà una funzione di utilità solo dentro al Partito e  riconoscendo ai lavoratori consapevoli il ruolo fondante, ruolo su cui non prevaricare mai .

E la finestra si apre allora sulla storia, sulle Storie a coinvolgere le moltitudini spossessate di un passato e di un futuro. 

Più difficile di così! Verrebbe da dire ‘astenersi perditempo’.