La sinistra nel gorgo occidentale

red flagdi Spartaco A. Puttini

Note dalla crisi

L’articolo è stato pubblicato nel numero di maggio 2016 della rivista on line “Gramsci oggi”
www.gramscioggi.org

Sono in molti coloro che hanno pronosticato un 2016 molto critico per l’economia italiana. La crisi di alcune banche, con il suo strascico doloroso e le prospettive fosche che ne derivano, è un ulteriore passo dell’eurocrisi in cui il nostro paese è ormai avviluppato. Il processo di integrazione europeo (e il processo di integrazione monetaria che ne rappresenta la punta apicale) sono funzionali al tentativo di ridisegnare i nuovi rapporti di forza tra le classi in questa parte del mondo dopo la fine della guerra fredda, cioè dopo la sconfitta del movimento operaio (e non solo dei paesi dell’Est, come qualcuno aveva innocentemente creduto). Il fine è consentire che il vertice della piramide sociale dreni ricchezza dalla base riprendendosi progressivamente quanto concesso nei tre decenni precedenti. Il prefisso “post”, con il quale siamo soliti designare tanti fenomeni che caratterizzano la nostra realtà, a volte, visto da vicino, sembra quasi una foglia di fico sulla macchina del tempo grazie alla quale la reazione ci ha messo in viaggio per quello che, con qualche forzatura, può essere definito un ritorno all’Ottocento.


La ristrutturazione dello spazio socio-economico a uso e profitto delle élites del grande capitale deve necessariamente far pendant con la ridefinizione di uno spazio politico che possa garantirne gli interessi. Il processo complesso e con più cause che ha travolto il vecchio sistema della rappresentanza politica basato sui partiti di massa ha preparato il terreno al “nuovo” Ottocento. La trasformazione dei partiti di massa in partiti-cartello privi di ideologia e caratterizzati dalla vocazione a fare da assi pigliatutto elettorali ha reso più impermeabile il sistema politico alle richieste che potevano venire dalle classi popolari stritolate dalla crisi. Ma ha reso i partiti e le istituzioni, nelle quali ciò che resta dei partiti si è arroccato, molto permeabili alla cattura oligarchica. I cittadini si trovano a così a scegliere chi condurrà l’orchestra ma non quale musica ascoltare, perché questa finisce con l’essere già data ed immutabile. Come la storia ha insegnato, qualche consumato trucco nell’ambito della legge elettorale (vedi alla voce maggioritario) dovrebbe consentire di sbarrare porte e finestre per tenere al sicuro l’argenteria.

In Italia l’ultimo ostacolo al consolidamento di un nuovo equilibrio liberale può essere ravvisato nella Carta Costituzionale, dove sono (erano?) segnate nero su bianco le conquiste più avanzate raggiunte dalla classi popolari sull’onda della vittoriosa Guerra di Liberazione contro il nazifascismo e al tempo stesso era indicata la strada “progressiva” di una “rivoluzione promessa”[1], i cui sviluppi venivano lasciati al gioco democratico delle forze in campo. Purtroppo occorre dirsi con realismo che l’assalto alla Costituzione mira solo a porre fine ad un equivoco che dura da tempo, visto che la Costituzione è già disattesa e manomessa. Se l’evasione degli articoli 1 e 11 grida vendetta ad ogni passo, bisogna anche ammettere che un patto costituzionale vive se resta in piedi un sistema politico articolato per garantirne i principi. Il sistema dei partiti che ne era la traduzione in termini di “sistema politico” non è che un lontano ricordo, sul quale chi si affaccia oggi al limite di età che consente l’accesso al voto svolge sempre più frequentemente le proprie tesi universitarie (quando può permettersi di continuare gli studi). L’inserimento del Fiscal compact in Costituzione ha rappresentato la ciliegina sulla torta di un processo di svuotamento e abdicazione dalla sovranità i cui contorni erano già stati definiti dalle pretese del processo di integrazione europeo che ha posto le sue normative neoliberali al di sopra delle costituzioni nazionali degli stati membri[2], mentre la possibilità di disporre delle proprie risorse in ambito economico era già stata confiscata dall’unione monetaria, con le conseguenze che dovrebbero orami essere visibile a tutti. Per queste ragioni la cruciale battaglia in difesa della Costituzione, per essere davvero efficace e parlare a tutti (e non solamente a coloro che coltivano una residua sensibilità verso determinate tematiche o storie), dovrebbe riuscire a tenere insieme la valorizzazione delle linee ispiratrici fondamentali della Carta e la lotta, da svolgersi sulla base di un sano patriottismo, per la rottura dei tre vincoli che contribuiscono grandemente a svuotarla: Ue, Euro e Nato. Sarebbe questo un lavoro più che meritorio, perché favorirebbe finalmente il dialogo e il confronto anche tra “gruppi” di cittadini politicamente sensibili a questa o all’altra questione, che però faticano ancora a trovare un terreno d’incontro per fare fronte comune.

Già Lipset nel 1960 e successivamente Huntington alla fine degli anni Settanta, epoca alla quale possiamo far risalire molti dei cambiamenti con i quali adesso siamo alle prese, avevano affermato la necessità che la mitica “democrazia liberale” (per essere più liberale che democratica) riuscisse a rifuggire da un “eccesso di domande” provenienti dal basso, cioè che fosse meno partecipata e che, a questo fine, un aumento dell’istruzione e delle mobilitazioni dei cittadini rappresentassero un pericolo da frenare con un tasso adeguato e per loro benefico di apatia. In gran parte la ristrutturazione dello spazio politico nei paesi occidentali si è evoluto in linea con questi desideri. 

Questi processi, interagenti tra loro, non devono essere letti secondo chiavi di letture deterministiche o come il frutto di complotti di piccole cerchie elitarie. Sono più semplicemente politica. Frutto e ricaduta di processi di interazione in una fase storica di transizione e turbolenza derivante dalla crisi di un ciclo di accumulazione sul piano dell’economia-mondo e dallo scontro in atto a livello internazionale per ridisegnare nuovi equilibri.

Le sfide che avvengono a livello mondiale, a livello strategico, attivano e attiveranno processi con ricadute vaste e difficilmente prevedibili. Avranno una loro conseguenza anche nella definizione degli schieramenti politici all’interno dei singoli paesi, anche se non con il grado di corrispondenza che era proprio dell’epoca della guerra fredda.

Sarà prevedibilmente sempre più difficile che forze che guardano alla politica estera in modo antitetico possano governare insieme sulla base di un comune orientamento macroeconomico. Come potrà, per fare un esempio, chi è contro il neoliberismo restare legato al carro della scelta occidentale nel momento in cui questa promuove in automatico l’americanizzazione delle società che sussume? Come potrà chi scorge nel progetto di un nuovo secolo americano il vero pericolo per la pace, la sovranità e la democrazia, accedere al governo con forze che sono improntate ad un approccio liberale e occidentalocentrico?

La conseguenza è che lo spazio di manovra per piccoli tatticismi, in virtù di queste dinamiche e dell’avanzare della crisi economica e sociale, dovrebbe ridursi, punendo sempre più severamente le forze che si mostreranno indulgenti in queste pratiche, come per tanto tempo hanno fatto le componenti della sinistra radicale, a rimorchio di coalizioni che si definivano di centrosinistra solo per il gusto di far rivoltare nella tomba Giovanni Gronchi e Amintore Fanfani.

Il quadro del processo reazionario non sarebbe completo se non si tenesse conto che la “guerra di classe condotta solo dall’alto” va di pari passo con un altro processo: la ri-gerarchizzazione del sistema internazionale tra un centro e una periferia. Come sottolineò Marx, prima ancora di Lenin, “coloro che non riescono a capire in che modo un paese può arricchirsi a spese degli altri, tanto meno sono in grado di capire in che modo all’interno di un singolo paese una classe può arricchirsi a spese di un’altra”. Oggi, al tentativo di egemonia statunitense, punta di lancia dell’imperialismo nella presente epoca storica, si contrappone l’emergere di un mondo multipolare e lo scontro tra queste due tendenze alimenta e spiega le tensioni internazionali sulle principali scacchiere. In subordine a questo processo se ne sviluppa un altro, in virtù del quale i centri di accumulazione imperialisti cercano di disegnare delle periferie su misura, da modellare a proprio piacimento soggiogando i paesi più deboli. Ciò che accade nel processo di integrazione europeo è, in buona sostanza, che il centro tedesco aggrega attorno ai suoi desiderata le periferie e semiperiferie (grazie all’unione valutaria) e le modella sulla base delle sue necessità, innescando processi di mezzogiornificazione crescente. L’Italia ne è l’esempio paradigmatico e rischia in prospettiva di uscire dal novero dei paesi sviluppati con conseguenze sociali e politiche inimmaginabili.

Le regole che Bruxelles si è data in ambito bancario sono l’ennesima dimostrazione della natura dell’Unione europea e della direzione assunta dal processo di integrazione. La crisi bancaria che potrebbe prospettarsi rappresenterebbe un ulteriore, durissimo, colpo approfondendo la crisi italiana e mettendo in forse il futuro dell’Italia come paese moderno e sviluppato. Chi può avanzare al contempo la necessità della rottura con l’eurozona, il tema del riallineamento internazionale del paese, quello della nazionalizzazione del sistema bancario e una proposta coerente e praticabile di nuova politica economica e sociale?

L’anello debole

L’eredità di trent’anni di arretramenti e rotte rappresenta una criticità notevole per la costruzione di un’alternativa politica reale e credibile. Esercita un’influenza negativa dal punto di vista della cultura politica, prima ancora che dal punto di vista organizzativo. Spesso quando si guarda a sinistra ci si lascia scioccare dalla frammentazione pulviscolare che la caratterizza. Questo sguardo però sottace le cause profonde della crisi: quelle inerenti la cultura politica, appunto. Anche nella sua salsa radicale la sinistra continua infatti a subire l’iniziativa ideologica dell’avversario nelle chiavi interpretative della realtà in mutamento che ha attorno e non riesce ad elaborare nulla di efficace e credibile. Continua a subire un processo di “rivoluzione passiva” e di cambiamento di segno di alcune delle sue parole d’ordine e non se ne avvede. Non è questo lo spazio per analizzare estesamente il fenomeno ma il risultato è la sussunzione in politica estera della mentalità occidentalista; in politica economica la sussunzione dei dogmi liberoscambisti e euromonetaristi, nonché la sussunzione dell’allergia per il ruolo dello Stato e del settore pubblico, il cui corollario è incarnato dalla sbornia da beni comuni.

Questa crisi non può essere derubricata alla forza d’urto e alla potenza di fuoco mediatica di coloro che hanno battuto la lingua sul tamburo della “fine della storia” o “delle ideologie”. Ci sono settori della sinistra, anche non moderata, che hanno svolto la loro parte, consciamente o meno. Che in tutti questi anni non hanno fatto altro che stigmatizzare o sottacere il peso, il ruolo e i processi storici che si svolgevano in gran parte del mondo in contraddizione con l’imperialismo. Lo dimostrano l’introiezione (imbarazzante) di certa russofobia; i peana sulla presunta omologazione della Cina ai dogmi neoliberali; lo schierarsi con i ribelli jihadisti durante la sporca guerra alla Libia nel 2011; il sostenere la tesi delle primavere arabe in relazione alla guerra per procura ingaggiata contro la Siria (anche a posteriori e nonostante certe narrazioni siano state smentite dai fatti sul campo); il presentare Putin come padrino della destra europea mentre i neonazisti sostenuti dall’Occidente prendevano il potere a Kiev e, infine, il continuare a delimitare il campo dell’alternativa oggi praticabile in questa parte di mondo all’alter-europeismo.

Nel caos sistemico nel quale siamo immersi, contrariamente a quanto credono alcuni, destra e sinistra sono parole che hanno ancora un senso. Vanno però messe in relazione a visioni e proposte politiche inserite in un contesto storico concreto e quindi vanno necessariamente ridefinite per essere ben comprese. Su qualsiasi questione cardinale e di rilevanza dell’agenda politica ormai (dall’imperialismo al terrorismo, dall’islamismo all’europeismo, etc…)  non è raro notare che vecchie appartenenze, spesso riproclamate solennemente a parole, non corrispondono ai fatti. 

Ma ci sono al contempo, oltre le criticità, anche ampie opportunità per la definizione e l’accumulazione di forze per costruire una reale alternativa. Perché la crisi ha colpito l’intera fascia medio-bassa della società: proletariato tradizionale, proletariato precario, buona parte del lavoro indipendente (che è ormai in larga parte poco più di un proletariato mascherato) e altre figure sociali che al proletariato sono ormai assimilabili. Si tratterebbe di riuscire a capire dove sono i “nostri”[3] e come porsi il problema di ricomporre un blocco sociale. Il guaio è che, in un mondo frammentato a partire dai luoghi di lavoro e pervaso dall’individualismo, ciascuno si pensa come una monade o, al più, riconosca sulla stessa barca solo i propri diretti simili e che tali sbarramenti impediscano che il lamento un po’ piagnucoloso e livoroso dell’”io” diventi la voce del “noi”, di un’identità collettiva che chiede spazio e giustizia sulla base di un progetto condiviso, con tutte le conseguenza del caso.

Allora si tratta di riuscire ad impossessarsi di una lettura della società da affiancare a quella della realtà internazionale per offrire una proposta strategica e un’identità che riporti ad unità la frammentazione. Cosa per la quale serve rigore e chiarezza. Elementi che possono derivare solo da un intellettuale collettivo omogeneo dal punto di vista della cultura politica e ben orientato. In epoca di crisi non bisogna temere di formulare ipotesi radicali o di assumere toni radicali, perché nella crisi anche i ceti medi in via di proletarizzazione sono inclini a prendere in considerazione le proposte radicali, come stanno ampiamente dimostrando anche le primarie americane, peraltro su entrambi i versanti e specie in ambito giovanile[4].

Le condizioni delle giovani generazioni oggi rappresentano in effetti una vera e propria gigantesca questione. Spesso si tratta di uomini e donne qualificati che però non trovano una posizione nella società adeguata alla loro professione e spesso nemmeno un’occupazione. Condizioni che innescano una “bomba a orologeria” per ora inesplosa che potrà deflagrare a destra come a sinistra dello spettro politico con conseguenze ovviamente diverse. E’ certo che questa “bomba” avrà un effetto determinante sugli scenari politici italiani del prossimo futuro ma quale effetto avrà resta un incognita aperta che solo l’attività politica delle forze in campo potrà chiarire. E’ questo però un punto dirimente, se si vuole guardare al futuro senza preoccuparsi troppo, se possibile, della raccolta dei naufraghi di precedenti e non proprio esaltanti esperienze.

La nostra penisola è nel ciclo storico in corso l’anello debole della catena occidentale. Perché in un’Italia destinata ad occupare le fasce basse nella divisione internazionale del lavoro non può che esistere una situazione di miseria crescente e disperante. L’Italia è oggi un osservatorio privilegiato per accorgersi che la questione sociale e la questione nazionale stanno insieme.

Questione sociale e questione nazionale

In questo contesto l’uscita dalla triade che tiene inchiodata l’Italia e la spinge ad affogare (Euro, Ue e Nato) è necessaria. Ovviamente nessuna delle tre rotture (nemmeno se attuate simultaneamente) sarebbero sufficienti a risolvere i principali problemi del paese. Ma potrebbero aprire potenzialmente una prospettiva.

Non torno su quanto scritto in altre sedi[5]. Mi pare assodato che a sinistra la questione dell’euro e dell’integrazione europea, almeno nei settori più coscienti e meno subalterni, cominci ad essere vista e percepita nella sua vera luce. Tuttavia permangono delle ritrosie che sono di impaccio alla costruzione di una reale alternativa patriottica e di classe. L’unica necessaria. Come da manuale in un’unione monetaria il paese che si trova in deficit ha solo due scelte: o attuare una drastica politica di deflazione salariale, o accettare l’emigrazione massiccia della propria popolazione nel paese in surplus. Punto. Quindi chi accetta la moneta unica e si rifiuta di metterla in discussione può scrivere bellissime poesie ma, di fatto, DEVE tenersi anche la deflazione, la precarizzazione e l’impoverimento della propria popolazione. Battersi contro l’austerità ma non contro l’euro non significa assolutamente niente. Perché nella cornice di questa unione valutaria non ci sono margini negoziabili per politiche redistributive o anche solo riformistiche, che del resto hanno fatto il loro tempo. Coloro che sostengono ancora i metodi correttivi all’interno del campo di gioco dato non si rendono conto che il processo di finanziarizzazione dell’economia non è dovuto semplicemente al complotto di qualche avido e cattivo speculatore di borsa a spese del capitale produttivo ma che rappresenta un normale processo del capitalismo in una fase concreta del suo ciclo sistemico di accumulazione. La finanziarizzazione che si è imposta dal Nixon shock in poi rappresenta semplicemente una fase del ciclo di accumulazione intervenuta quando il capitale non poteva trovare altre forme di remunerazione. Un fenomeno che nella storia del capitalismo si è manifestato più volte[6]. Lo stesso margine per le politiche riformiste di piccolo cabotaggio è dunque venuto meno perché l’equilibrio dell’epoca fordista è oggi per il grande capitale “sovrabbondante” e inutile, se non insostenibile, mentre i rapporti di forze giocano a sfavore di un ipotetico compromesso tra capitale-lavoro, così come era venuto a determinarsi durante i “trenta gloriosi”.  Il che suggerisce che la speranza di resuscitare centrosinistra futuri è destinata a restare delusa o a non incontrare i favori del pubblico, di cui non potrebbe soddisfare le necessità. Una questione che va dunque molto al di là della leadership di Matteo Renzi. Uomo politico che, in fondo, è giunto solo alla fine di un processo a raccogliere i frutti seminati da altri, al momento giusto. Cosa deve fare ancora il politico fiorentino per dimostrare che in fondo è figlio legittimo di Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo? E’ l’intera galassia social-liberista ad essere in crisi, in tutti i quadranti della politica internazionale[7]. Questo dovrebbe suggerire qualcosa.

Le forze per un’alternativa andrebbero raccolte nella proposta, già avanzata nel dibattito economico giustamente da Emiliano Brancaccio e, con maggior decisione, da Sergio Cesaratto, di ripristino della sovranità e arresto della libera circolazione dei capitali. Una tesi che viene ormai affacciata nel dibattito pubblico negli stessi Stati Uniti, dove viene fatta propria dall’interessante fenomeno politico rappresentato da Bernie Sanders (fenomeno ben diverso dalla farlocca Obama-mania che aveva impazzato qualche anno fa). Restare nell’eurozona significa condannare il nostro paese e il nostro popolo a subire un impoverimento di dimensioni colossali per un periodo misurabile solo in tempi storici. Lo si può tranquillamente prevedere senza bisogno di nessuna sfera di cristallo, per una semplice ragione: perché era già previsto! In mancanza dell’intervento dell’operatore pubblico, inviso alle teorie neoliberiste, l’aggiustamento tra i vari paesi dell’area valutaria veniva a dipendere dall’azione delle spontanee forze del mercato, con la conseguenza che si sarebbero rafforzati in modo cumulativo determinate tendenze a scapito dei paesi più deboli, sino al punto in cui questi avrebbero dovuto uscire dall’unione oppure accettare un declino senza prospettive. L’Unione europea e l’euro hanno contribuito al trasferimento di ricchezza dalle classi popolari e lavoratrici alle oligarchie alto borghesi e dagli Stati periferici e semiperiferici dell’unione al centro tedesco secondo un copione classico dell’imperialismo.

I ragionamenti di chi teme che su queste tematiche vi sia già un’egemonia di destra in realtà sono destinate ad evocare il fantasma che vorrebbero esorcizzare. Sappiamo bene come senza sovranità sia impossibile compiere qualsiasi passo in direzione dell’adozione di politiche popolari e progressiste. Ovviamente la sovranità pur essendo elemento indispensabile, non è elemento sufficiente per garantire lo sviluppo della democrazia e l’adozione di politiche “di sinistra”. Però, il fatto che di per sé non sia sufficiente non ha mai spinto le forze di emancipazione a rinunciare a questa determinante, giusta, fondamentale ed irrinunciabile battaglia. La battaglie indispensabili si combattono. Una sinistra patriottica e di classe può ritrovare un proprio ruolo e una propria legittimazione solo se si butta a capofitto nella battaglia necessaria a salvare il paese, cioè le masse popolari dalla crisi, dando a questa battaglia il giusto segno politico. Cioè accettando di lottare sul campo di battaglia disegnato dai processi storici concreti per l’egemonia. Non era stato questo, in fondo, il senso della scommessa (perché di scommessa si trattò) della svolta di Salerno e dell’impegno in prima fila nella guerra di Liberazione? Passaggio storico troppo spesso incompreso e piegato in modo deprecabile al suo aspetto di “compromesso” e a tal fine utilizzato in seguito più volte per giustificare l’ingiustificabile sulla base di un presunto “tardo togliattismo”, che di Togliatti aveva poco, ma che di tardo aveva molto.

In Italia vi è l’obiettivo vantaggio che non c’è a contendere il terreno un Front national in mutazione verso uno statalismo e un repubblicanesimo che gli erano fino a poco tempo fa completamente estranei ed allergici e che oggi favoriscono la sua dédiabolisation. Né il M5S, né tantomeno la Lega sono credibili in questo ruolo, perché neanche minimamente conseguenti con le conclusioni che pur deriverebbero dalle battaglie che dicono di voler fare (quando lo dicono). Grillo sull’euro balbetta di referendum incomprensibili mentre la Lega resta ancorata alla sua visione liberista dello Stato minimo. Certamente vanno tenuti nella giusta considerazione le evoluzioni che possono verificarsi all’interno del M5S, movimento che oscilla ancora tra il polo negativo rappresentato da una sorta di qualunquismo digitale e il polo sicuramente più positivo rappresentato da un certo populismo democratico. La visione del populismo come fenomeno intrinsecamente reazionario, xenofobo e di estrema destra è in realtà una forzatura, è la favola del babau che si racconta ai bambini per farli dormire. Ora dovremmo svegliarci e comprendere che di fronte alla acquisizione di fette di mercato politico da parte della reazione liberale favorevole alle oligarchie, in mancanza di una alternativa sistemica, è inevitabile che il favore di parte rilevante delle classi popolari vada a fenomeni populisti; fenomeni molto vari tra loro, con loro funzioni potenzialmente negative e/o potenzialmente positive. (Va ad esempio riconosciuto il merito al M5S di aver portato nel parlamento italiano un dibattito sulla Nato che mancava da troppo tempo). Lo spazio per una reale alternativa dunque ci sarebbe, come dimostrano anche i grandi numeri di coloro che un tempo votavano a sinistra e oggi si rifugiano nell’astensione, per non parlare dei più giovani. Difficilmente questo spazio può però essere coperto da un’indistinta sinistra unita, una sorta di grande Sel che manca degli elementi basilari di cultura politica, di analisi, di progetto e di prospettiva, per essere credibile e funzionale alla bisogna.

Unità o confusione?

L’unità non è un bene a prescindere. Se fosse così il Pci non sarebbe mai nato! Dipende dal terreno e dalla prospettiva su cui questa unità avviene. Percorrere assieme la strada sbagliata, che porta in fondo al burrone, non è utile. Se non a fare le fortune di qualche forza demagogica e qualunquista cui viene lasciato inopportunamente spazio. E’ un dato su cui dovrebbero riflettere compiutamente sia coloro che si accingono ad aderire alla nuova “cosa rosa” sia coloro che vorrebbero farlo (ma alle condizioni loro) sia quanti, sulla base di una tradizione dura a morire, si chiederanno come fare a restare fuori dall’ammucchiata cui tutti gli altri cugini, vicini o lontani, partecipano. L’unità non si fa con la somma di sigle e ceto politico, ma accumulando forze con un’azione politica basata su una lucida visione dei problemi, tenendo conto dei tempi lunghi e fuggendo l’elettoralismo, elaborando una strategia, non vivendo di tattica. La mancanza di convergenze su singole iniziative tra le forze di sinistra e dal basso dovrebbe essere di monito.

In questo contesto ritorna in voga la celebre e riuscita battuta di De Mita a proposito del movimento socialista: “quando sono divisi si vogliono unire e quando sono uniti si vogliono dividere” e tutto il dibattito a sinistra sembra risolversi in questa questione, senza sostanziarsi mai né di uno straccio di analisi, né di una bozza di risposta strategica alle sfide che abbiamo di fronte.

La cosa rosa che sta nascendo a sinistra con Sel, un pezzo del Pd e un pezzo del Prc risente di queste debolezza di fondo. E’ priva di una coesa cultura politica e non si aggrega sulla base di analisi e proposte strategiche ma su concetti un po’ indeterminati. Se fino agli anni ’80 infatti, era chiara ed esauriente la definizione di “sinistra”, ora le cose sono più complicate. Perché su questa parola magica si proiettano ombre e immaginari diversi e confusi. Se i concetti di destra e sinistra restano in campo, contrariamente alle tesi in voga circa il loro dissolvimento, subiscono però ridefinizioni sulla base delle sfide e delle scelte che la realtà concreta pone si fronte. Ha ancora senso vedere con prossimità a soggetti che sono stati di sinistra in un tempo ormai lontano o che hanno attraversato organizzazioni di sinistra come se fossero lontani parenti? A definire sinistra e destra sono i contenuti proposti, non le etichette che lasciano il tempo che trovano. E la cosa rosa sembra una collazione di etichette. Anche quando cerca di dotarsi di un suo spirito (caratterizzandosi sul welfare o sul lavoro o sulla costituzione) resta nel vago. La migliore delle ipotesi è che si attrezzi a combattere una battaglia di retroguardia parlando a un mondo che si autolimita. Come l’impegno di Landini, che non si sa quanto è teso a rispondere alla crisi di rappresentanza della politica e quanto invece cerca la fuga in avanti rispetto alla crisi di rappresentanza del sindacato, pare rivolgersi a una piccola parte del vasto campo che invece sarebbe da chiamare a raccolta.

Infatti la cosa rosa non sembra premiante nemmeno nella cabina elettorale. Stando a un sondaggio Ipsos[8] la “cosa rosa” si attesterebbe sotto il 9%. Ma è un 9% molto ipotetico, perché solo il 2% è sicuramente favorevole all’esperimento, mentre il 7% manifesta la possibilità di appoggiare l’iniziativa. I sondaggi, si sa, vanno presi con le molle, ma dice parecchio il fatto che tale percentuale appaia dimezzata rispetto ai rilevamenti di gennaio e che attorno alla formazione crescano manifestazioni di freddezza. Non è difficile crederci. Come ha notato Pagnoncelli: “se l’insofferenza verso Renzi è molto chiara, non altrettanto sono i programmi politici conseguenti. Il dibattito appare molto chiuso nel ceto politico. E non conquista elettori”[9].

La logica della somma non porta lontano. La politica non si basa su regole matematiche ma su logiche geometriche: quale spazio si occupa?

Occorre tenere presente che oggi si affacciano alla politica generazioni che non hanno il più pallido ricordo del passato, ma che hanno brucianti esigenze nel presente e devono poter avere legittime aspirazioni per il futuro. Non valuteranno sulla base di bandierine che sono l’eco di battaglie ormai lontane ma sulla forza, coerenza ed appetibilità delle proposte e dell’impegno che verranno profusi. Per questo la coerenza è da preferirsi alle ammucchiate giustificabili solo con la visibilità della bandierina.

Se ci si pone il problema di essere un piccolo partito che può esistere solo all’interno di una sinistra radicale ci si pone all’imbocco del tunnel che conduce a divenire una componente culturale, un po’ folkloristica, di una sinistra alternativa generica e confusionaria, perciò stesso non credibile.

Ipotesi

Nella costruzione di un’alternativa credibile bisognerà essere in grado di intercettare quanti, pur venendo da storie diverse o non avendo alle spalle proprio nulla, sulla base delle loro esigenze e delle loro sensibilità potrebbero essere ricettivi nei confronti di proposte che, in fondo, sono autenticamente di sinistra, patriottiche e di classe. Proposte che, per affermarsi, non hanno alcuna necessità di chiudersi in definizioni autorestringenti. Il movimento operaio e il movimento comunista hanno sempre dovuto lottare contro “due demoni”: il settarismo e l’opportunismo. Entrambi sono funesti, anche se è indubbio che in questi ultimi decenni sia stato sicuramente l’opportunismo a fare i danni maggiori. Nel contesto in cui siamo dobbiamo però chiederci: chi è settario? Chi è maggiormente critico verso le formule di unità a sinistra che si stanno discutendo o chi, appunto, autolimita le proprie possibilità all’interno di recinti da cui ormai il bestiame è scappato?

Il boom di nuovi movimenti politici protestatari, con tutti i pesanti limiti di queste varie realtà, dovrebbe suggerire qualcosa alle forze della sinistra radicale residuale. Se la loro ascesa appare facile, e la loro parabola veloce, dimostrano comunque la possibilità di conquistare su determinate parole d’ordine un consenso trasversale, rimescolando le carte e mostrando le potenzialità che ci sono per riconquistare margini al campo progressista. La sfida è riportare alla partecipazione coloro che scelgono l’astensione perché persino il voto di protesta è ormai troppo poco.

Per riuscirci occorrerà rielaborare, alla luce della storia e delle sfide del presente, la propria cultura politica originaria senza accontentarsi della comoda e impraticabile idea che sia possibile in condizioni così diverse riproporre un Pci 2.0. D’altra parte anche Togliatti e Secchia avevano mostrato al loro tempo di saper organizzare i loro principi e declinare le loro strategia con una certa originalità, non limitandosi alla riproposizione di schemi già utilizzati in altri contesti, o no? Occorrerà ripartire da un’analisi e da una formulazione di come costruire un partito all’interno di un fronte che possa dare voce a un nuovo blocco sociale per contendere l’egemonia e la direzione della cosa pubblica. Vale a dire occorrerà impugnare la questione nazionale accanto alla questione sociale e proporre una nuova chiave di letture unificante. Che significa trovare e proporre un’idea avanzata della relazione tra “popolo” e “nazione” sulla base di una loro possibile equivalenza. Il tema è come far nuovamente convivere i concetti di “nazione”, “popolo” e “classe” in condizioni nuove, per promuovere una nuova democrazia.

Purtroppo il dibattito su questo sembra stentare, mentre le ritrosie continuano ad essere molte.



[1]              Della Costituzione come di una “rivoluzione promessa” trattava Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti: profilo storico della democrazia in Italia, 1945-1990; Bologna, Il Mulino 1991

[2]              V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile; Reggio Emilia, Imprimatur 2015

[3]              In questo senso si veda il contributo del collettivo Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi; Lucca, La Casa Usher 2014

[4]              Si vedano in proposito le acute osservazioni di Damiano Palano sulle recenti primarie Usa in merito all’eclissi del centro: http://www.damianopalano.com/2016/03/super-tuesday-leclissi-del-centro-la.html e in merito all’interessante fenomeno rappresentato da Bernie Sanders: : http://www.fondazionefeltrinelli.it/welfare-democrazia-e-inclusione-la-rivoluzione-politica-di-bernie-sanders/

[5]              Rimando a: S. A. Puttini, L’impatto dell’euro sulle economie nazionali; in: https://www.marx21.it/internazionale/europa/23693-limpatto-delleuro-sulle-economie-nazionali.html#

[6]              Si vedano in proposito le analisi di G. Arrighi, Il lungo XX secolo; Milano, Il Saggiatore 2014

[7]              S. Halimi, Il tempo della rabbia: socialdemocrazia, la fine di un ciclo; in: “Le monde diplomatique”, marzo 2016

[9]              Ibidem

La sinistra nel gorgo occidentale

Note dalla crisi

di Spartaco A. Puttini

L’articolo è stato pubblicato nel numero di maggio 2016 della rivista on line “Gramsci oggi” www.gramscioggi.org

Sono in molti coloro che hanno pronosticato un 2016 molto critico per l’economia italiana. La crisi di alcune banche, con il suo strascico doloroso e le prospettive fosche che ne derivano, è un ulteriore passo dell’eurocrisi in cui il nostro paese è ormai avviluppato. Il processo di integrazione europeo (e il processo di integrazione monetaria che ne rappresenta la punta apicale) sono funzionali al tentativo di ridisegnare i nuovi rapporti di forza tra le classi in questa parte del mondo dopo la fine della guerra fredda, cioè dopo la sconfitta del movimento operaio (e non solo dei paesi dell’Est, come qualcuno aveva innocentemente creduto). Il fine è consentire che il vertice della piramide sociale dreni ricchezza dalla base riprendendosi progressivamente quanto concesso nei tre decenni precedenti. Il prefisso “post”, con il quale siamo soliti designare tanti fenomeni che caratterizzano la nostra realtà, a volte, visto da vicino, sembra quasi una foglia di fico sulla macchina del tempo grazie alla quale la reazione ci ha messo in viaggio per quello che, con qualche forzatura, può essere definito un ritorno all’Ottocento.

La ristrutturazione dello spazio socio-economico a uso e profitto delle élites del grande capitale deve necessariamente far pendant con la ridefinizione di uno spazio politico che possa garantirne gli interessi. Il processo complesso e con più cause che ha travolto il vecchio sistema della rappresentanza politica basato sui partiti di massa ha preparato il terreno al “nuovo” Ottocento. La trasformazione dei partiti di massa in partiti-cartello privi di ideologia e caratterizzati dalla vocazione a fare da assi pigliatutto elettorali ha reso più impermeabile il sistema politico alle richieste che potevano venire dalle classi popolari stritolate dalla crisi. Ma ha reso i partiti e le istituzioni, nelle quali ciò che resta dei partiti si è arroccato, molto permeabili alla cattura oligarchica. I cittadini si trovano a così a scegliere chi condurrà l’orchestra ma non quale musica ascoltare, perché questa finisce con l’essere già data ed immutabile. Come la storia ha insegnato, qualche consumato trucco nell’ambito della legge elettorale (vedi alla voce maggioritario) dovrebbe consentire di sbarrare porte e finestre per tenere al sicuro l’argenteria.

In Italia l’ultimo ostacolo al consolidamento di un nuovo equilibrio liberale può essere ravvisato nella Carta Costituzionale, dove sono (erano?) segnate nero su bianco le conquiste più avanzate raggiunte dalla classi popolari sull’onda della vittoriosa Guerra di Liberazione contro il nazifascismo e al tempo stesso era indicata la strada “progressiva” di una “rivoluzione promessa”[1], i cui sviluppi venivano lasciati al gioco democratico delle forze in campo. Purtroppo occorre dirsi con realismo che l’assalto alla Costituzione mira solo a porre fine ad un equivoco che dura da tempo, visto che la Costituzione è già disattesa e manomessa. Se l’evasione degli articoli 1 e 11 grida vendetta ad ogni passo, bisogna anche ammettere che un patto costituzionale vive se resta in piedi un sistema politico articolato per garantirne i principi. Il sistema dei partiti che ne era la traduzione in termini di “sistema politico” non è che un lontano ricordo, sul quale chi si affaccia oggi al limite di età che consente l’accesso al voto svolge sempre più frequentemente le proprie tesi universitarie (quando può permettersi di continuare gli studi). L’inserimento del Fiscal compact in Costituzione ha rappresentato la ciliegina sulla torta di un processo di svuotamento e abdicazione dalla sovranità i cui contorni erano già stati definiti dalle pretese del processo di integrazione europeo che ha posto le sue normative neoliberali al di sopra delle costituzioni nazionali degli stati membri[2], mentre la possibilità di disporre delle proprie risorse in ambito economico era già stata confiscata dall’unione monetaria, con le conseguenze che dovrebbero orami essere visibile a tutti. Per queste ragioni la cruciale battaglia in difesa della Costituzione, per essere davvero efficace e parlare a tutti (e non solamente a coloro che coltivano una residua sensibilità verso determinate tematiche o storie), dovrebbe riuscire a tenere insieme la valorizzazione delle linee ispiratrici fondamentali della Carta e la lotta, da svolgersi sulla base di un sano patriottismo, per la rottura dei tre vincoli che contribuiscono grandemente a svuotarla: Ue, Euro e Nato. Sarebbe questo un lavoro più che meritorio, perché favorirebbe finalmente il dialogo e il confronto anche tra “gruppi” di cittadini politicamente sensibili a questa o all’altra questione, che però faticano ancora a trovare un terreno d’incontro per fare fronte comune.

Già Lipset nel 1960 e successivamente Huntington alla fine degli anni Settanta, epoca alla quale possiamo far risalire molti dei cambiamenti con i quali adesso siamo alle prese, avevano affermato la necessità che la mitica “democrazia liberale” (per essere più liberale che democratica) riuscisse a rifuggire da un “eccesso di domande” provenienti dal basso, cioè che fosse meno partecipata e che, a questo fine, un aumento dell’istruzione e delle mobilitazioni dei cittadini rappresentassero un pericolo da frenare con un tasso adeguato e per loro benefico di apatia. In gran parte la ristrutturazione dello spazio politico nei paesi occidentali si è evoluto in linea con questi desideri. 

Questi processi, interagenti tra loro, non devono essere letti secondo chiavi di letture deterministiche o come il frutto di complotti di piccole cerchie elitarie. Sono più semplicemente politica. Frutto e ricaduta di processi di interazione in una fase storica di transizione e turbolenza derivante dalla crisi di un ciclo di accumulazione sul piano dell’economia-mondo e dallo scontro in atto a livello internazionale per ridisegnare nuovi equilibri.

Le sfide che avvengono a livello mondiale, a livello strategico, attivano e attiveranno processi con ricadute vaste e difficilmente prevedibili. Avranno una loro conseguenza anche nella definizione degli schieramenti politici all’interno dei singoli paesi, anche se non con il grado di corrispondenza che era proprio dell’epoca della guerra fredda.

Sarà prevedibilmente sempre più difficile che forze che guardano alla politica estera in modo antitetico possano governare insieme sulla base di un comune orientamento macroeconomico. Come potrà, per fare un esempio, chi è contro il neoliberismo restare legato al carro della scelta occidentale nel momento in cui questa promuove in automatico l’americanizzazione delle società che sussume? Come potrà chi scorge nel progetto di un nuovo secolo americano il vero pericolo per la pace, la sovranità e la democrazia, accedere al governo con forze che sono improntate ad un approccio liberale e occidentalocentrico?

La conseguenza è che lo spazio di manovra per piccoli tatticismi, in virtù di queste dinamiche e dell’avanzare della crisi economica e sociale, dovrebbe ridursi, punendo sempre più severamente le forze che si mostreranno indulgenti in queste pratiche, come per tanto tempo hanno fatto le componenti della sinistra radicale, a rimorchio di coalizioni che si definivano di centrosinistra solo per il gusto di far rivoltare nella tomba Giovanni Gronchi e Amintore Fanfani.

Il quadro del processo reazionario non sarebbe completo se non si tenesse conto che la “guerra di classe condotta solo dall’alto” va di pari passo con un altro processo: la ri-gerarchizzazione del sistema internazionale tra un centro e una periferia. Come sottolineò Marx, prima ancora di Lenin, “coloro che non riescono a capire in che modo un paese può arricchirsi a spese degli altri, tanto meno sono in grado di capire in che modo all’interno di un singolo paese una classe può arricchirsi a spese di un’altra”. Oggi, al tentativo di egemonia statunitense, punta di lancia dell’imperialismo nella presente epoca storica, si contrappone l’emergere di un mondo multipolare e lo scontro tra queste due tendenze alimenta e spiega le tensioni internazionali sulle principali scacchiere. In subordine a questo processo se ne sviluppa un altro, in virtù del quale i centri di accumulazione imperialisti cercano di disegnare delle periferie su misura, da modellare a proprio piacimento soggiogando i paesi più deboli. Ciò che accade nel processo di integrazione europeo è, in buona sostanza, che il centro tedesco aggrega attorno ai suoi desiderata le periferie e semiperiferie (grazie all’unione valutaria) e le modella sulla base delle sue necessità, innescando processi di mezzogiornificazione crescente. L’Italia ne è l’esempio paradigmatico e rischia in prospettiva di uscire dal novero dei paesi sviluppati con conseguenze sociali e politiche inimmaginabili.

Le regole che Bruxelles si è data in ambito bancario sono l’ennesima dimostrazione della natura dell’Unione europea e della direzione assunta dal processo di integrazione. La crisi bancaria che potrebbe prospettarsi rappresenterebbe un ulteriore, durissimo, colpo approfondendo la crisi italiana e mettendo in forse il futuro dell’Italia come paese moderno e sviluppato. Chi può avanzare al contempo la necessità della rottura con l’eurozona, il tema del riallineamento internazionale del paese, quello della nazionalizzazione del sistema bancario e una proposta coerente e praticabile di nuova politica economica e sociale?

L’anello debole

L’eredità di trent’anni di arretramenti e rotte rappresenta una criticità notevole per la costruzione di un’alternativa politica reale e credibile. Esercita un’influenza negativa dal punto di vista della cultura politica, prima ancora che dal punto di vista organizzativo. Spesso quando si guarda a sinistra ci si lascia scioccare dalla frammentazione pulviscolare che la caratterizza. Questo sguardo però sottace le cause profonde della crisi: quelle inerenti la cultura politica, appunto. Anche nella sua salsa radicale la sinistra continua infatti a subire l’iniziativa ideologica dell’avversario nelle chiavi interpretative della realtà in mutamento che ha attorno e non riesce ad elaborare nulla di efficace e credibile. Continua a subire un processo di “rivoluzione passiva” e di cambiamento di segno di alcune delle sue parole d’ordine e non se ne avvede. Non è questo lo spazio per analizzare estesamente il fenomeno ma il risultato è la sussunzione in politica estera della mentalità occidentalista; in politica economica la sussunzione dei dogmi liberoscambisti e euromonetaristi, nonché la sussunzione dell’allergia per il ruolo dello Stato e del settore pubblico, il cui corollario è incarnato dalla sbornia da beni comuni.

Questa crisi non può essere derubricata alla forza d’urto e alla potenza di fuoco mediatica di coloro che hanno battuto la lingua sul tamburo della “fine della storia” o “delle ideologie”. Ci sono settori della sinistra, anche non moderata, che hanno svolto la loro parte, consciamente o meno. Che in tutti questi anni non hanno fatto altro che stigmatizzare o sottacere il peso, il ruolo e i processi storici che si svolgevano in gran parte del mondo in contraddizione con l’imperialismo. Lo dimostrano l’introiezione (imbarazzante) di certa russofobia; i peana sulla presunta omologazione della Cina ai dogmi neoliberali; lo schierarsi con i ribelli jihadisti durante la sporca guerra alla Libia nel 2011; il sostenere la tesi delle primavere arabe in relazione alla guerra per procura ingaggiata contro la Siria (anche a posteriori e nonostante certe narrazioni siano state smentite dai fatti sul campo); il presentare Putin come padrino della destra europea mentre i neonazisti sostenuti dall’Occidente prendevano il potere a Kiev e, infine, il continuare a delimitare il campo dell’alternativa oggi praticabile in questa parte di mondo all’alter-europeismo.

Nel caos sistemico nel quale siamo immersi, contrariamente a quanto credono alcuni, destra e sinistra sono parole che hanno ancora un senso. Vanno però messe in relazione a visioni e proposte politiche inserite in un contesto storico concreto e quindi vanno necessariamente ridefinite per essere ben comprese. Su qualsiasi questione cardinale e di rilevanza dell’agenda politica ormai (dall’imperialismo al terrorismo, dall’islamismo all’europeismo, etc…)  non è raro notare che vecchie appartenenze, spesso riproclamate solennemente a parole, non corrispondono ai fatti. 

Ma ci sono al contempo, oltre le criticità, anche ampie opportunità per la definizione e l’accumulazione di forze per costruire una reale alternativa. Perché la crisi ha colpito l’intera fascia medio-bassa della società: proletariato tradizionale, proletariato precario, buona parte del lavoro indipendente (che è ormai in larga parte poco più di un proletariato mascherato) e altre figure sociali che al proletariato sono ormai assimilabili. Si tratterebbe di riuscire a capire dove sono i “nostri”[3] e come porsi il problema di ricomporre un blocco sociale. Il guaio è che, in un mondo frammentato a partire dai luoghi di lavoro e pervaso dall’individualismo, ciascuno si pensa come una monade o, al più, riconosca sulla stessa barca solo i propri diretti simili e che tali sbarramenti impediscano che il lamento un po’ piagnucoloso e livoroso dell’”io” diventi la voce del “noi”, di un’identità collettiva che chiede spazio e giustizia sulla base di un progetto condiviso, con tutte le conseguenza del caso.

Allora si tratta di riuscire ad impossessarsi di una lettura della società da affiancare a quella della realtà internazionale per offrire una proposta strategica e un’identità che riporti ad unità la frammentazione. Cosa per la quale serve rigore e chiarezza. Elementi che possono derivare solo da un intellettuale collettivo omogeneo dal punto di vista della cultura politica e ben orientato. In epoca di crisi non bisogna temere di formulare ipotesi radicali o di assumere toni radicali, perché nella crisi anche i ceti medi in via di proletarizzazione sono inclini a prendere in considerazione le proposte radicali, come stanno ampiamente dimostrando anche le primarie americane, peraltro su entrambi i versanti e specie in ambito giovanile[4].

Le condizioni delle giovani generazioni oggi rappresentano in effetti una vera e propria gigantesca questione. Spesso si tratta di uomini e donne qualificati che però non trovano una posizione nella società adeguata alla loro professione e spesso nemmeno un’occupazione. Condizioni che innescano una “bomba a orologeria” per ora inesplosa che potrà deflagrare a destra come a sinistra dello spettro politico con conseguenze ovviamente diverse. E’ certo che questa “bomba” avrà un effetto determinante sugli scenari politici italiani del prossimo futuro ma quale effetto avrà resta un incognita aperta che solo l’attività politica delle forze in campo potrà chiarire. E’ questo però un punto dirimente, se si vuole guardare al futuro senza preoccuparsi troppo, se possibile, della raccolta dei naufraghi di precedenti e non proprio esaltanti esperienze.

La nostra penisola è nel ciclo storico in corso l’anello debole della catena occidentale. Perché in un’Italia destinata ad occupare le fasce basse nella divisione internazionale del lavoro non può che esistere una situazione di miseria crescente e disperante. L’Italia è oggi un osservatorio privilegiato per accorgersi che la questione sociale e la questione nazionale stanno insieme.

Questione sociale e questione nazionale

In questo contesto l’uscita dalla triade che tiene inchiodata l’Italia e la spinge ad affogare (Euro, Ue e Nato) è necessaria. Ovviamente nessuna delle tre rotture (nemmeno se attuate simultaneamente) sarebbero sufficienti a risolvere i principali problemi del paese. Ma potrebbero aprire potenzialmente una prospettiva.

Non torno su quanto scritto in altre sedi[5]. Mi pare assodato che a sinistra la questione dell’euro e dell’integrazione europea, almeno nei settori più coscienti e meno subalterni, cominci ad essere vista e percepita nella sua vera luce. Tuttavia permangono delle ritrosie che sono di impaccio alla costruzione di una reale alternativa patriottica e di classe. L’unica necessaria. Come da manuale in un’unione monetaria il paese che si trova in deficit ha solo due scelte: o attuare una drastica politica di deflazione salariale, o accettare l’emigrazione massiccia della propria popolazione nel paese in surplus. Punto. Quindi chi accetta la moneta unica e si rifiuta di metterla in discussione può scrivere bellissime poesie ma, di fatto, DEVE tenersi anche la deflazione, la precarizzazione e l’impoverimento della propria popolazione. Battersi contro l’austerità ma non contro l’euro non significa assolutamente niente. Perché nella cornice di questa unione valutaria non ci sono margini negoziabili per politiche redistributive o anche solo riformistiche, che del resto hanno fatto il loro tempo. Coloro che sostengono ancora i metodi correttivi all’interno del campo di gioco dato non si rendono conto che il processo di finanziarizzazione dell’economia non è dovuto semplicemente al complotto di qualche avido e cattivo speculatore di borsa a spese del capitale produttivo ma che rappresenta un normale processo del capitalismo in una fase concreta del suo ciclo sistemico di accumulazione. La finanziarizzazione che si è imposta dal Nixon shock in poi rappresenta semplicemente una fase del ciclo di accumulazione intervenuta quando il capitale non poteva trovare altre forme di remunerazione. Un fenomeno che nella storia del capitalismo si è manifestato più volte[6]. Lo stesso margine per le politiche riformiste di piccolo cabotaggio è dunque venuto meno perché l’equilibrio dell’epoca fordista è oggi per il grande capitale “sovrabbondante” e inutile, se non insostenibile, mentre i rapporti di forze giocano a sfavore di un ipotetico compromesso tra capitale-lavoro, così come era venuto a determinarsi durante i “trenta gloriosi”.  Il che suggerisce che la speranza di resuscitare centrosinistra futuri è destinata a restare delusa o a non incontrare i favori del pubblico, di cui non potrebbe soddisfare le necessità. Una questione che va dunque molto al di là della leadership di Matteo Renzi. Uomo politico che, in fondo, è giunto solo alla fine di un processo a raccogliere i frutti seminati da altri, al momento giusto. Cosa deve fare ancora il politico fiorentino per dimostrare che in fondo è figlio legittimo di Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo? E’ l’intera galassia social-liberista ad essere in crisi, in tutti i quadranti della politica internazionale[7]. Questo dovrebbe suggerire qualcosa.

Le forze per un’alternativa andrebbero raccolte nella proposta, già avanzata nel dibattito economico giustamente da Emiliano Brancaccio e, con maggior decisione, da Sergio Cesaratto, di ripristino della sovranità e arresto della libera circolazione dei capitali. Una tesi che viene ormai affacciata nel dibattito pubblico negli stessi Stati Uniti, dove viene fatta propria dall’interessante fenomeno politico rappresentato da Bernie Sanders (fenomeno ben diverso dalla farlocca Obama-mania che aveva impazzato qualche anno fa). Restare nell’eurozona significa condannare il nostro paese e il nostro popolo a subire un impoverimento di dimensioni colossali per un periodo misurabile solo in tempi storici. Lo si può tranquillamente prevedere senza bisogno di nessuna sfera di cristallo, per una semplice ragione: perché era già previsto! In mancanza dell’intervento dell’operatore pubblico, inviso alle teorie neoliberiste, l’aggiustamento tra i vari paesi dell’area valutaria veniva a dipendere dall’azione delle spontanee forze del mercato, con la conseguenza che si sarebbero rafforzati in modo cumulativo determinate tendenze a scapito dei paesi più deboli, sino al punto in cui questi avrebbero dovuto uscire dall’unione oppure accettare un declino senza prospettive. L’Unione europea e l’euro hanno contribuito al trasferimento di ricchezza dalle classi popolari e lavoratrici alle oligarchie alto borghesi e dagli Stati periferici e semiperiferici dell’unione al centro tedesco secondo un copione classico dell’imperialismo.

I ragionamenti di chi teme che su queste tematiche vi sia già un’egemonia di destra in realtà sono destinate ad evocare il fantasma che vorrebbero esorcizzare. Sappiamo bene come senza sovranità sia impossibile compiere qualsiasi passo in direzione dell’adozione di politiche popolari e progressiste. Ovviamente la sovranità pur essendo elemento indispensabile, non è elemento sufficiente per garantire lo sviluppo della democrazia e l’adozione di politiche “di sinistra”. Però, il fatto che di per sé non sia sufficiente non ha mai spinto le forze di emancipazione a rinunciare a questa determinante, giusta, fondamentale ed irrinunciabile battaglia. La battaglie indispensabili si combattono. Una sinistra patriottica e di classe può ritrovare un proprio ruolo e una propria legittimazione solo se si butta a capofitto nella battaglia necessaria a salvare il paese, cioè le masse popolari dalla crisi, dando a questa battaglia il giusto segno politico. Cioè accettando di lottare sul campo di battaglia disegnato dai processi storici concreti per l’egemonia. Non era stato questo, in fondo, il senso della scommessa (perché di scommessa si trattò) della svolta di Salerno e dell’impegno in prima fila nella guerra di Liberazione? Passaggio storico troppo spesso incompreso e piegato in modo deprecabile al suo aspetto di “compromesso” e a tal fine utilizzato in seguito più volte per giustificare l’ingiustificabile sulla base di un presunto “tardo togliattismo”, che di Togliatti aveva poco, ma che di tardo aveva molto.

In Italia vi è l’obiettivo vantaggio che non c’è a contendere il terreno un Front national in mutazione verso uno statalismo e un repubblicanesimo che gli erano fino a poco tempo fa completamente estranei ed allergici e che oggi favoriscono la sua dédiabolisation. Né il M5S, né tantomeno la Lega sono credibili in questo ruolo, perché neanche minimamente conseguenti con le conclusioni che pur deriverebbero dalle battaglie che dicono di voler fare (quando lo dicono). Grillo sull’euro balbetta di referendum incomprensibili mentre la Lega resta ancorata alla sua visione liberista dello Stato minimo. Certamente vanno tenuti nella giusta considerazione le evoluzioni che possono verificarsi all’interno del M5S, movimento che oscilla ancora tra il polo negativo rappresentato da una sorta di qualunquismo digitale e il polo sicuramente più positivo rappresentato da un certo populismo democratico. La visione del populismo come fenomeno intrinsecamente reazionario, xenofobo e di estrema destra è in realtà una forzatura, è la favola del babau che si racconta ai bambini per farli dormire. Ora dovremmo svegliarci e comprendere che di fronte alla acquisizione di fette di mercato politico da parte della reazione liberale favorevole alle oligarchie, in mancanza di una alternativa sistemica, è inevitabile che il favore di parte rilevante delle classi popolari vada a fenomeni populisti; fenomeni molto vari tra loro, con loro funzioni potenzialmente negative e/o potenzialmente positive. (Va ad esempio riconosciuto il merito al M5S di aver portato nel parlamento italiano un dibattito sulla Nato che mancava da troppo tempo). Lo spazio per una reale alternativa dunque ci sarebbe, come dimostrano anche i grandi numeri di coloro che un tempo votavano a sinistra e oggi si rifugiano nell’astensione, per non parlare dei più giovani. Difficilmente questo spazio può però essere coperto da un’indistinta sinistra unita, una sorta di grande Sel che manca degli elementi basilari di cultura politica, di analisi, di progetto e di prospettiva, per essere credibile e funzionale alla bisogna.

Unità o confusione?

L’unità non è un bene a prescindere. Se fosse così il Pci non sarebbe mai nato! Dipende dal terreno e dalla prospettiva su cui questa unità avviene. Percorrere assieme la strada sbagliata, che porta in fondo al burrone, non è utile. Se non a fare le fortune di qualche forza demagogica e qualunquista cui viene lasciato inopportunamente spazio. E’ un dato su cui dovrebbero riflettere compiutamente sia coloro che si accingono ad aderire alla nuova “cosa rosa” sia coloro che vorrebbero farlo (ma alle condizioni loro) sia quanti, sulla base di una tradizione dura a morire, si chiederanno come fare a restare fuori dall’ammucchiata cui tutti gli altri cugini, vicini o lontani, partecipano. L’unità non si fa con la somma di sigle e ceto politico, ma accumulando forze con un’azione politica basata su una lucida visione dei problemi, tenendo conto dei tempi lunghi e fuggendo l’elettoralismo, elaborando una strategia, non vivendo di tattica. La mancanza di convergenze su singole iniziative tra le forze di sinistra e dal basso dovrebbe essere di monito.

In questo contesto ritorna in voga la celebre e riuscita battuta di De Mita a proposito del movimento socialista: “quando sono divisi si vogliono unire e quando sono uniti si vogliono dividere” e tutto il dibattito a sinistra sembra risolversi in questa questione, senza sostanziarsi mai né di uno straccio di analisi, né di una bozza di risposta strategica alle sfide che abbiamo di fronte.

La cosa rosa che sta nascendo a sinistra con Sel, un pezzo del Pd e un pezzo del Prc risente di queste debolezza di fondo. E’ priva di una coesa cultura politica e non si aggrega sulla base di analisi e proposte strategiche ma su concetti un po’ indeterminati. Se fino agli anni ’80 infatti, era chiara ed esauriente la definizione di “sinistra”, ora le cose sono più complicate. Perché su questa parola magica si proiettano ombre e immaginari diversi e confusi. Se i concetti di destra e sinistra restano in campo, contrariamente alle tesi in voga circa il loro dissolvimento, subiscono però ridefinizioni sulla base delle sfide e delle scelte che la realtà concreta pone si fronte. Ha ancora senso vedere con prossimità a soggetti che sono stati di sinistra in un tempo ormai lontano o che hanno attraversato organizzazioni di sinistra come se fossero lontani parenti? A definire sinistra e destra sono i contenuti proposti, non le etichette che lasciano il tempo che trovano. E la cosa rosa sembra una collazione di etichette. Anche quando cerca di dotarsi di un suo spirito (caratterizzandosi sul welfare o sul lavoro o sulla costituzione) resta nel vago. La migliore delle ipotesi è che si attrezzi a combattere una battaglia di retroguardia parlando a un mondo che si autolimita. Come l’impegno di Landini, che non si sa quanto è teso a rispondere alla crisi di rappresentanza della politica e quanto invece cerca la fuga in avanti rispetto alla crisi di rappresentanza del sindacato, pare rivolgersi a una piccola parte del vasto campo che invece sarebbe da chiamare a raccolta.

Infatti la cosa rosa non sembra premiante nemmeno nella cabina elettorale. Stando a un sondaggio Ipsos[8] la “cosa rosa” si attesterebbe sotto il 9%. Ma è un 9% molto ipotetico, perché solo il 2% è sicuramente favorevole all’esperimento, mentre il 7% manifesta la possibilità di appoggiare l’iniziativa. I sondaggi, si sa, vanno presi con le molle, ma dice parecchio il fatto che tale percentuale appaia dimezzata rispetto ai rilevamenti di gennaio e che attorno alla formazione crescano manifestazioni di freddezza. Non è difficile crederci. Come ha notato Pagnoncelli: “se l’insofferenza verso Renzi è molto chiara, non altrettanto sono i programmi politici conseguenti. Il dibattito appare molto chiuso nel ceto politico. E non conquista elettori”[9].

La logica della somma non porta lontano. La politica non si basa su regole matematiche ma su logiche geometriche: quale spazio si occupa?

Occorre tenere presente che oggi si affacciano alla politica generazioni che non hanno il più pallido ricordo del passato, ma che hanno brucianti esigenze nel presente e devono poter avere legittime aspirazioni per il futuro. Non valuteranno sulla base di bandierine che sono l’eco di battaglie ormai lontane ma sulla forza, coerenza ed appetibilità delle proposte e dell’impegno che verranno profusi. Per questo la coerenza è da preferirsi alle ammucchiate giustificabili solo con la visibilità della bandierina.

Se ci si pone il problema di essere un piccolo partito che può esistere solo all’interno di una sinistra radicale ci si pone all’imbocco del tunnel che conduce a divenire una componente culturale, un po’ folkloristica, di una sinistra alternativa generica e confusionaria, perciò stesso non credibile.

Ipotesi

Nella costruzione di un’alternativa credibile bisognerà essere in grado di intercettare quanti, pur venendo da storie diverse o non avendo alle spalle proprio nulla, sulla base delle loro esigenze e delle loro sensibilità potrebbero essere ricettivi nei confronti di proposte che, in fondo, sono autenticamente di sinistra, patriottiche e di classe. Proposte che, per affermarsi, non hanno alcuna necessità di chiudersi in definizioni autorestringenti. Il movimento operaio e il movimento comunista hanno sempre dovuto lottare contro “due demoni”: il settarismo e l’opportunismo. Entrambi sono funesti, anche se è indubbio che in questi ultimi decenni sia stato sicuramente l’opportunismo a fare i danni maggiori. Nel contesto in cui siamo dobbiamo però chiederci: chi è settario? Chi è maggiormente critico verso le formule di unità a sinistra che si stanno discutendo o chi, appunto, autolimita le proprie possibilità all’interno di recinti da cui ormai il bestiame è scappato?

Il boom di nuovi movimenti politici protestatari, con tutti i pesanti limiti di queste varie realtà, dovrebbe suggerire qualcosa alle forze della sinistra radicale residuale. Se la loro ascesa appare facile, e la loro parabola veloce, dimostrano comunque la possibilità di conquistare su determinate parole d’ordine un consenso trasversale, rimescolando le carte e mostrando le potenzialità che ci sono per riconquistare margini al campo progressista. La sfida è riportare alla partecipazione coloro che scelgono l’astensione perché persino il voto di protesta è ormai troppo poco.

Per riuscirci occorrerà rielaborare, alla luce della storia e delle sfide del presente, la propria cultura politica originaria senza accontentarsi della comoda e impraticabile idea che sia possibile in condizioni così diverse riproporre un Pci 2.0. D’altra parte anche Togliatti e Secchia avevano mostrato al loro tempo di saper organizzare i loro principi e declinare le loro strategia con una certa originalità, non limitandosi alla riproposizione di schemi già utilizzati in altri contesti, o no? Occorrerà ripartire da un’analisi e da una formulazione di come costruire un partito all’interno di un fronte che possa dare voce a un nuovo blocco sociale per contendere l’egemonia e la direzione della cosa pubblica. Vale a dire occorrerà impugnare la questione nazionale accanto alla questione sociale e proporre una nuova chiave di letture unificante. Che significa trovare e proporre un’idea avanzata della relazione tra “popolo” e “nazione” sulla base di una loro possibile equivalenza. Il tema è come far nuovamente convivere i concetti di “nazione”, “popolo” e “classe” in condizioni nuove, per promuovere una nuova democrazia.

Purtroppo il dibattito su questo sembra stentare, mentre le ritrosie continuano ad essere molte.



[1]              Della Costituzione come di una “rivoluzione promessa” trattava Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti: profilo storico della democrazia in Italia, 1945-1990; Bologna, Il Mulino 1991

[2]              V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile; Reggio Emilia, Imprimatur 2015

[3]              In questo senso si veda il contributo del collettivo Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi; Lucca, La Casa Usher 2014

[4]              Si vedano in proposito le acute osservazioni di Damiano Palano sulle recenti primarie Usa in merito all’eclissi del centro: http://www.damianopalano.com/2016/03/super-tuesday-leclissi-del-centro-la.html e in merito all’interessante fenomeno rappresentato da Bernie Sanders: : http://www.fondazionefeltrinelli.it/welfare-democrazia-e-inclusione-la-rivoluzione-politica-di-bernie-sanders/

[5]              Rimando a: S. A. Puttini, L’impatto dell’euro sulle economie nazionali; in: https://www.marx21.it/internazionale/europa/23693-limpatto-delleuro-sulle-economie-nazionali.html#

[6]              Si vedano in proposito le analisi di G. Arrighi, Il lungo XX secolo; Milano, Il Saggiatore 2014

[7]              S. Halimi, Il tempo della rabbia: socialdemocrazia, la fine di un ciclo; in: “Le monde diplomatique”, marzo 2016

[9]              Ibidem