Il PdCI di Fermo per i 91 anni del Partito Comunista Italiano

di Federico Quondamatteo – PdCI Fermo

 

tessera pciRiaprire la ricerca storica. Ridefinire un profilo politico e teorico comunista all’altezza dei tempi. Confrontarsi, studiare: cronaca di un seminario ben riuscito.

 

“91 anni dalla parte dei lavoratori”: questo il titolo dell’iniziativa semiariale della Federazione provinciale di Fermo del PdCI che, il 28 gennaio, ha ripercorso nella Sala dei Ritratti di Fermo la storia del più grande partito comunista d’occidente, dai dirigenti locali alle relazioni internazionali che il partito aveva con paesi e partiti fratelli.

 

Presieduto dal segretario provinciale Renzo Interlenghi, l’incontro è iniziato col ricordo di due storiche figure del PCI fermano, Carlo e Gianfilippo Benedetti, da parte di Alessandro Volponi.

Negli anni giovanili i due fratelli svilupparono le loro idee antifasciste nella tipografia fermana Bonassi, vera e propria sezione socialcomunista dove “tra la carta stampata e l’inchiostro si respirava aria di Antifascismo, Democrazia e Socialismo”.

Studioso infaticabile e famoso penalista, dal 1970 al 1973 Gianfilippo fu deputato alla Camera,dove lasciò il suo contributo in varie commissioni, carica che non gli impedì mai di essere presente a livello territoriale, dove spesso la metà del consiglio comunale della Fermo di quegli anni (composto al 50% da eletti del PCI)  gli chiedeva suggerimenti su come agire nelle questioni locali.

Dopo la Bolognina entrò subito nel PRC e, rieletto deputato, fu tra i più autorevoli e lucidi combattenti contro l’ascesa del berlusconismo e gli attacchi ai diritti dei lavoratori durante la Seconda Repubblica.

Il fratello Carlo, straordinario esempio di giornalista militante, fu, prima, caporedattore dell’Unità in Ungheria e poi, dal 1970, corrispondente da Mosca per l’Unità.

 

Conosceva bene l’URSS e il Blocco Socialista, che descriveva sempre in modo sincero e autentico, con la schiettezza che contraddistingueva questo intellettuale coltissimo e ironico.

 

Poi è stata la volta di Alessandro Hobel, che ha rimarcato il solido collegamento del PCI col proletariato, perfino negli anni bui della repressione fascista, quando il PCd’I, con le sue cellule clandestine, continuava ad organizzare la classe operaia, riuscendo anche a penetrare nelle organizzazioni di massa fasciste per risvegliare da lì la coscienza di classe, mantenendo quell’organizzazione capillare che permetterà il successo delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza.

Nel dopoguerra, il PCI manterrà quell’organizzazione che permetterà di raggiungere i 2 milioni di tesserati e di dialogare con le masse, divenendo a tutti gli effetti un partito di quadri e di massa.

Questo lavoro tra le masse permetterà al partito di influire pesantemente sulle condizioni di vita dei lavoratori italiani durante gli anni ’60 e ’70 con misure come l’Equo Canone e il Servizio Sanitario Nazionale.

Una lezione che deve far riflettere i comunisti italiani sull’importanza, in una fase di attacco selvaggio al mondo del lavoro, di mettere in campo proposte alternative e credibili alle logiche del Neoliberismo, mantenendo in esse le centralità della questione del lavoro.

 

Fosco Giannini, partendo dalle origini illuministe del cosmopolitismo,  ha parlato del grande impegno internazionalista del PCI nella lotta dei popoli contro il capitalismo mondiale.

Internazionalismo presente persino nel nome del PCd’I, che era “Sezione Italiana dell’Internazionale Comunista”, impegnato già dalla fondazione nella lotta (seguendo i principi del Komintern) contro il colonialismo e l’invio di uomini e armamenti alle truppe bianche da parte dei paesi capitalisti per abbattere la nascente Unione Sovietica.

Anche nella lotta contro il nazifascismo, della quale esempio furono Stalin e la resistenza di Stalingrado, il PCd’I non si esentò dal suo impegno a fianco dei popoli in lotta, inviando 3.000 dei suoi militanti a difendere la Repubblica Spagnola nel ’36.

Nel dopoguerra il Blocco Socialista era in continua espansione e il PCI non rinunciò mai a dare il proprio contributo alla lotta per il socialismo e l’indipendenza dei popoli e nelle questioni tra paesi comunisti (nel ’48 si oppose alla scissione di Tito dal Komintern, dopo il ’56 cercò sempre di ricucire i rapporti tra la Cina Popolare e l’URSS, anche se Togliatti giudicò estremiste alcune posizioni di Mao, fu sempre in contatto con l’Indocina e la Rivoluzione Cubana).

Nel ’68, mentre dava pieno appoggio alle lotte operaie e studentesche, il PCI di Longo fu critico nei riguardi dell’intervento sovietico a Praga, anche se comprendeva che dietro le manovre di Dubcek vi erano chiari intenti anticomunisti.

La parabola internazionalista del PCI inizia a declinare con l’Eurocomunismo che, anche se Berlinguer l’aveva teorizzato assieme al compromesso storico per poter avere l’egemonia in un Italia dove gli Usa mai avrebbero permesso al PCI di governare da solo, portò il partito ad accettare quell’Europa nata in funzione antisovietica che dal ’56 in avanti aveva aspramente criticato, ponendo già le basi per la trasformazione in PDS.

 

Luigi Marino ha parlato poi dell’impegno del PCI nelle lotte per le conquiste dei lavoratori,portandone avanti la lotta, unico strumento che permette di creare una legislazione sociale, fino ad ottenere conquiste come lo Statuto dei Lavoratori, la Scala Mobile e l’Equo Canone,  e sostenendo l’importante ruolo che aveva lo stato nella gestione dell’economia e del servizio pubblico. Ruolo venuto meno con l’ondata neoliberista degli anni ’90 e la privatizzazione del 92% delle banche nazionali da parte del Governo Amato, che sottrasse dal controllo statale l’economia finanziaria e pose le basi, a livello nazionale, per il ricatto che l’UE, l’FMI e la BCE stanno perpetrando a danno dei popoli europei.

Un UE in cui, per evitare l’inflazione e la svalutazione (che Amendola chiamava “tasse sui poveri”), con conseguenti nuove misure antipopolari avvallate dal padronato, conseguenti da un’ uscita dall’Euro bisogna però restare, rafforzandone il tessuto democratico mediante la presenza di un partito comunista forte che, guida del movimento operaio, sia capace di frenare sia gli attacchi reazionari che stanno mettendo in pericolo le conquiste del Ventesimo Secolo, sia le pulsioni corporativistiche e localistiche di un ceto medio impoverito che tenta di ribellarsi ma viene subito riassorbito nell’alveo delle forze reazionarie, senza aver alcuna vocazione al progresso sociale.

Ciò infatti può essere portato avanti solo da un partito che, seppur ancora piccolo, abbia idee che possano influenzare le masse lavoratrici, come ad esempio il finanziamento all’istruzione e all’impresa pubblica per far ripartire l’economia togliendone grandi fette dalle fauci del mercato.

 

Vi è stata poi un’analisi, da parte di Paola Pellegrini, del grande ruolo del PCI nella lotta per l’egemonia culturale, ruolo che ebbe come risultato la grande partecipazione delle masse alla vita politica della repubblica.

In un’Italia povera, clericale, ignorante e vittima del nazionalismo fascista, Togliatti rese le masse protagoniste della lotta contro il Fascismo e nella vita della Repubblica, alfabetizzandole sia dal punto di vista letterale che da quello politico, così da allontanarle da posizioni puramente ribelliste, minoritarie e di distacco dalle istituzioni, facendole prendere coscienza delle origini della loro condizione e rafforzandone le posizioni grazie al Fronte Popolare col PSI.

Il PCI fu sempre attivo dal punto di vista culturale e teorico, combattendo l’anticomunismo clericale dei democristiani e coniungando ricerca teorica e prassi nella lotta di classe e nel lavoro di massa.

Marx XXI è nato infatti come strumento di confronto intellettuale per recuperare questo metodo di ricerca nel marxismo per legarlo alle masse e alla lotta per l’uguaglianza sostanziale.

 

Nelle conclusioni ai lavori Francesco Francescaglia ha ribadito la necessità, dopo la fine delle concessioni al movimento operaio alla caduta dell’URSS, di ricostruire un partito con vocazione di massa e di governo, che dialoghi col socialismo europeo (critico nei confronti della destrutturazione delle forze produttive portata avanti dalla Troika) e i Brics, governati da coalizioni comprendenti i partiti comunisti nazionali e con un modello economico alternativo al neoliberismo selvaggio, un partito che torni a farsi sentire sui media dai lavoratori.

Insomma oggi come non mai c’è bisogno di riflettere sull’esperienza del PCI, non per fare mera testimonianza delle “glorie passate”, bensì per trarre da essa degli insegnamenti utili a cambiare il mondo nel XXI secolo.