di Alessia Franco (Costituente Comunista Giovani Calabria) e Francesco Stilo (Responsabile settore organizzazione PRC Fed. Reggio Calabria)
Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dei comunisti in Italia
Introduzione
Il presente testo non è una guida schematica sul come i comunisti debbano comportarsi di fronte al meccanismo elettorale dei moderni stati capitalistici europei, piuttosto ci si approccerà al problema utilizzando delle linee guida e dei principi a prima vista astratti (che quindi sarebbero applicabili, con i dovuti distinguo, a qualsiasi situazione o paese in condizioni simili) che saranno accostati ad esempi concreti, così da contestualizzare la questione all’Italia e all’oggi.
Tenuta ferma la prospettiva rivoluzionaria e quindi la netta alternatività ai sistemi istituzionali vigenti, occorre considerare come i comunisti debbano misurarsi all’interno del meccanismo elettorale “borghese”, così da accrescere le proprie forze e così da ricostruire quel potente contrappeso che in Italia fu rappresentato dal PCI; senza perdere però di vista la prospettiva di un rovesciamento definitivo del “tavolo”.
Avvertenza: il termine potere, da intendersi nel suo significato più arcaico di “poter fare qualcosa”, nel nostro caso rappresenta la possibilità concreta di modificare i rapporti di forza che plasmano il sistema sociale.
“Vi sono compromessi e compromessi. Si deve essere capaci di analizzare le circostanze e le condizioni concrete di ogni compromesso”. V. I. Lenin
1 – Il governo o il potere?
La motivazione con la quale in molti sostengono spesso l’alleanza dei comunisti con i soggetti moderati della “finta sinistra”, risiede nell’errata convinzione che la conquista del potere necessario alla modificazione dei rapporti di forza coincida con la partecipazione dei comunisti nei diversi organi di governo. Tale convinzione superficiale risulta “smontabile” in pochi passaggi.
Il PCI, che accrebbe la propria influenza attraverso la guerra di resistenza partigiana in un periodo straordinario (caratterizzato appunto dalla dittatura fascista, dalla guerra e dall’occupazione straniera), seppe mantenere l’ingente potere accumulato (negli anni cruciali della “ricostruzione”, e poi in fase discendente fino al suo scioglimento), attraverso il proprio ruolo di opposizione esplicita e netta nei confronti del “sistema”. Senza entrare nel merito di tutte quelle implicazioni che tale ruolo favorirono, o che da tale ruolo scaturirono (rapporto con i sindacati, legami e contatti con il movimento degli anni ’60 e ’70, contiguità con l’esperienza ed il mondo sovietico, ecc.), dai fatti è possibile trarre un insegnamento di carattere generale: Il “potere” non coincide con il governo.
Le grandi conquiste sociali che l’Italia del secondo ‘900 conobbe, sono da ricondurre, oltre che alle contingenze di carattere internazionale, allo straordinario ruolo di contrappeso che il PCI seppe, fino ad un certo punto, svolgere.
Se ciò non bastasse potremmo passare ad analizzare brevemente quella che è stata l’esperienza altalenante dei partiti comunisti post PCI.
Cosa ha prodotto la partecipazione dei comunisti ai governi di centro sinistra degli anni ’90 e 2000? Quali sono stati i miglioramenti che il popolo italiano ha potuto ricevere da queste esperienze?
Senza alcun dubbio possiamo affermare che la partecipazione a tali governi non abbia prodotto nessun avanzamento in termini di diritti sociali e di “progresso generale” per la società italiana. Al contrario queste esperienze hanno finito per trasformarsi in una sorta di boomerang che ha visto i comunisti (nelle loro rappresentanze istituzionali più forti) avallare il processo di “smantellamento” dei diritti e delle conquiste voluto tanto dai socialdemocratici (PDS, DS, PD) che dalla “nuova destra” Berlusconiana. Tale complicità o ingenuità (intesa come incapacità soggettiva di saper e voler interpretare con una visione autonoma e chiara i fatti in divenire) ha comportato una conseguente erosione di credibilità dei partiti comunisti agli occhi del popolo.
Di fronte a tali considerazioni, i comunisti sono chiamati ad interrogarsi sulla natura del loro obiettivo tattico: cosa vogliono ottenere i comunisti dalla propria partecipazione al meccanismo elettorale degli stati capitalistici? Vogliono ottenere qualche effimera partecipazione a dei governi per forza di cose antipopolari, oppure vogliono utilizzare a proprio vantaggio il meccanismo per rafforzare la propria credibilità ed il proprio peso politico?
2 – Consenso è potere
Il PCI, notoriamente il maggior partito comunista dell’Occidente, raggiunge il suo massimo storico negli anni ’40 e ’50, raccogliendo i frutti del duro lavoro in clandestinità e durante la guerra e godendo del nuovo e mutato clima politico. Supera in questi anni i due milioni di iscritti, apice mai più eguagliato in seguito: la cifra scende fino al milione e mezzo per poi risalire a oltre il milione e ottocentomila tesserati a metà degli anni ’70, sotto la guida del compianto Berlinguer. Anche questo secondo picco di consensi non sarà eguagliato negli anni a venire: il numero degli iscritti decresce dolcemente dopo la morte di Berlinguer e cala bruscamente con la caduta del Muro. Nel suo ultimo anno di vita, il PCI conta un milione e duecentomila tesserati: cifra più bassa era stata raggiunta solo negli anni cupi del fascismo e della guerra.
Con la trasformazione in PDS prima e DS poi, il figlio naturale del PCI non rientra più nelle nostre considerazioni. L’eredità spirituale del Partito Comunista Italiano ricade principalmente su PRC e, tempo dopo, sul più giovane PdCI, partiti che nonostante l’alta ispirazione ideologica affrontano il meccanismo elettorale con una strategia mai accolta dal PCI (solo sfiorata con il mai realizzato compromesso storico): quella delle alleanze con i partiti della sinistra moderata. Ciò che il PCI non era mai riuscito a fare mantenendosi caparbiamente “isolato” sulle proprie posizioni, i giovani partiti comunisti ottengono presto ma a caro prezzo: far parte del governo grazie a compromessi più costosi che utili. La strategia ha un ritorno sotto forma di prestigio istituzionale: diversi seggi alla Camera e al Senato nel ’96, ancora più numerosi nel 2006 (rispettivamente 31 e 11, 41 e 27). Decisamente inferiore è il risultato il termini di consenso: subito dopo l’apice del 1997 (circa 130.000 tesserati, cifra mai più raggiunta), il numero dei tesserati PRC scende di circa 40.000 unità senza più risalire in modo significativo. Non solo: la seconda presenza al governo, invece di provocare una nuova ondata di consensi simile a quella (molto breve) del 1996/1997, lascia invariato il numero dei tesserati che (al contrario) inizia dall’anno seguente a scendere bruscamente per dimezzarsi in tre anni, ridursi a un terzo in sei, fino a scendere al di sotto dei 20.000 attuali.
3 – Il dissenso pilotato
In un periodo di crisi economica e sociale, caratterizzato da insicurezza e disillusione, appare evidente come ampi strati della società guardino con favore a formazioni che si presentano come alternative, nuove, e di rottura. Qui sta ad esempio il successo del M5S che, grazie alla grande spinta mediatica offerta dai mezzi stampa e alla maschera del “nuovismo”, si è imposto agli occhi del paese quale “soluzione di rottura”. Agli osservatori più attenti, però, risulta chiaro come tale intento di rottura sia solo di natura apparente.
La natura ingannevole e “pubblicitaria” di certa propaganda mediatica si serve in particolare di un infantile populismo, spesso basato su formule superficiali e giudizi qualunquistici, proprio per questo incapaci di “rompere” veramente con la (mala)politica a cui fanno riferimenti grossolani se non caricaturali. Non a caso lo stesso premier Renzi ha iniziato, allora sindaco di Firenze, a diventare un personaggio di dimensioni nazionali grazie alle sue sceneggiate da “rottamatore”. Buona parte del suo linguaggio sembrava acquisito dall’allora nascente M5S, o piuttosto entrambi i codici linguistici si basavano su un comune vizio: quello di rispondere alla crisi con slogan d’effetto e poco contenuto reale, innanzitutto dal punto di vista dell’analisi del problema. Difatti, quanto poi Renzi si sia dimostrato capace o desideroso di rompere con il sistema si è visto.
Il potere persuasivo della propaganda populistica si spiega, in buona misura, sulla conoscenza non approfondita, poco attenta o poco scientifica dei problemi in questione. Di fronte ad una informazione parziale o grossolana, le finte soluzioni proposte appaiono di grande effetto e riscuotono un ampio consenso, quando non fanno che gettare fuori bordo secchiate d’acqua mentre la nave affonda per falle strutturali. La volontà di riparare le falle strutturali del sistema, raddrizzandone i meccanismi perversi, è in gran parte o del tutto estranea ad iniziative di grande impatto mediatico e apparentemente sconvolgenti come allestire in piazza un palco da cui inveire al microfono contro “i politici” (operazione che resta emblematica).
Come possa certa propaganda fare presa su buona parte degli italiani è una questione di natura culturale, prima che politica in senso stretto. Ma il problema più grave risiede proprio negli esiti politici del consenso che molti elettori affidano a questi distributori di slogan. La loro capacità di essere una reale alternativa è poca o nulla, non per inettitudine o malafede ma per la semplice mancata volontà reale. Un partito o un movimento che spende buona parte dei propri sforzi per la causa dei piccoli-medi imprenditori, avrà poco interesse a scardinare un sistema basato sullo sfruttamento dei lavoratori, ad esempio. E un partito come la Lega, che ultimamente ha abbandonato le torce e i forconi e piuttosto che gridare “A morte il terùn!” preferisce riciclare il linguaggio del M5S e prendersela un po’ con tutti. Salvini è un anti-Renzi che si esprime con il linguaggio di Renzi con intenti non troppo diversi dai suoi (solo più razzisti). Insomma, i maggiori partiti/movimenti che oggi ostentino un anticonformismo ribelle, un’identità inconfondibile e un’integrità incontaminabile, sono nei fatti perfettamente integrati nel sistema contro cui assurdamente si scagliano per guadagnare popolarità. Può esserne una prova, forse, la seguente: il M5S e gli altri movimenti “di opposizione”, “di alternativa”, denunciano la dittatura dei media, il servilismo delle reti televisive pubbliche, la manipolazione che passa attraverso quelle private, “la stampa di regime”, eppure… eppure attraverso tali mezzi hanno enorme visibilità, saltellano da un salotto televisivo all’altro, lanciano le loro catilinarie dalle più diverse tribune e hanno ogni possibilità di diffondere la propria propaganda e il proprio punto di vista. Se fossero così dannosi, forse, lo spazio loro concesso nei mass media sarebbe stato ridimensionato dal regime che clamorosamente vogliono abbattere. O il “sistema” è autolesionista e imbecille?
Tali considerazioni, però, contengono una interessante evidenza molto utile ai comunisti: nella società italiana è presente una consistente porzione di dissenso rispetto alle politiche ed alle strutture dell’odierno sistema sociale.
4 – Costruire l’opposizione, ricostruire il partito
Come premesso nel paragrafo precedente, esistono quindi in Italia (e non solo) le condizioni necessarie al radicamento di un partito realmente “di rottura”, che sappia cioè fornire delle risposte chiare ed immediatamente applicabili rispetto alla crisi del nostro sistema. Affrontando le questioni da un punto di vista scientifico e globale, i comunisti devono avere perfetta cognizione del contesto internazionale e delle continue contraddizioni generate dal capitalismo. Queste peculiarità fanno del partito comunista “il movimento dei movimenti”, ovvero lo strumento di lotta essenziale attraverso il quale obbligatoriamente passa il successo o l’insuccesso di tutte le “lotte di base” (movimento per l’acqua ed i servizi pubblici, No Tav, No NATO, ecc.);
Senza rincorrere inutilmente postazioni di governo che comprometterebbero la credibilità delle proprie posizioni, e non genererebbero nessuna conquista sociale, i comunisti dovrebbero:
- Saper raccogliere le istanze di cambiamento che provengono spontaneamente dal “comune senso sociale” e dal mondo giovanile, che ad oggi si manifestano nel dissenso pilotato, nel non voto e nel “disinteresse”;
- Escludere la possibilità di stringere alleanze con tutte quelle forze riconosciute come organiche al sistema;
- Convergere verso l’unità e promuovere la formazione di un’aggregazione più ampia nell’ambito della sinistra e delle istanze di base;
- Costruire l’opposizione reale ricostruendo il partito, strumento essenziale del “poter fare qualcosa”.
Avanti dunque!
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