Il Centenario è l’occasione per discutere e riflettere, solo così può riprendere il cammino

bandiererosse quadrodi Francesco Maringiò

Il Centenario della fondazione della nascita del Partito Comunista è diventata l’occasione propizia per una operazione egemonica di larga scala che vede la pubblicistica dominante dare ancora prova di un forte anticomunismo, sebbene non più ammantato da quell’atteggiamento trionfale che aveva caratterizzato la fase post’89. La sezione saggistica delle librerie è già oggi colma di imprese editoriali che, per la maggior parte, sono i prodromi di questa complessa operazione politico-culturale.

Tuttavia sarebbe sbagliato, in risposta a questa campagna, presentarsi spogli e disarmati sul piano intellettuale e culturale o, ancora peggio, provare a ribattere a questa grande fanfara mediatica con una lettura agiografica di quella storia. Se in altri paesi il Centenario della fondazione del partito comunista è l’occasione per festeggiare i 100 anni di un partito tutt’oggi esistente, in Italia non possiamo certo rimuovere il fatto che il PCI nato dopo il fascismo non esiste più per scelta consapevole dei suoi iscritti e dirigenti e che le esperienze nate successivamente versino oggi in una condizione di estrema difficoltà e debolezza. È necessaria quindi una lettura obbiettiva, che accompagni la presa d’atto che la storia del Partito Comunista è intimamente connessa con la storia migliore di questo Paese, assieme però alla necessaria critica capace di mettere a fuoco i nodi problematici che hanno portato alle debolezze ed alle criticità del presente. «Io ritengo – affermava Togliatti – sia un grave errore (…) sostenere e sforzarsi di dimostrare che questo partito e la sua direzione si siano sempre mossi bene, nel migliore dei modi possibili. Si finisce, in questo modo, con la rappresentazione di una interrotta processione trionfale. Ed è una rappresentazione falsa, lontana dalla realtà e da essa contraddetta» (1). Lo sforzo, sicuramente non semplice, è proprio quello di dare corso alle celebrazioni, senza però indulgere nella “processione trionfale” che Togliatti, secondo la migliore tradizione, aborriva. 

La riflessione non può che partire dalle ragioni per le quali il partito comunista, che pure si era nutrito degli ideali della Rivoluzione d’Ottobre e del pensiero di Gramsci e Togliatti e che nel corso degli anni era diventato il partito di riferimento delle grandi organizzazioni sociali operaie e della più vasta e raffinata intellettualità del Paese, abbia scelto non solo l’harakiri politico-organizzativo con lo scioglimento ed il cambio del nome e del simbolo, ma abbia addirittura accompagnato la fase storica della ristrutturazione capitalistica avviata a fine anni ’80, della controffensiva contro i Paesi dell’Est e delle politiche neoliberiste e guerrafondaie. Una ristrutturazione capitalistica che proprio il partito comunista, invece, avrebbe dovuto contrastare.  

La celebrazione del Centenario è anche l’occasione per indagare come si è potuti passare dal partito di Gramsci e della Via Italiana al Socialismo, a collocarsi come componente di sinistra all’interno dello schieramento borghese e atlantico, conformandosi così alla medesima scelta di campo delle socialdemocrazie europee. 

Sinteticamente possiamo dire che la ragione fondamentale sta nella progressiva perdita della capacità di costruzione di strutture ed attività autonome di quel partito, sia sul piano politico ed organizzativo, che sul piano dei riferimenti ideologici e del legame col movimento comunista internazionale. O, ancora meglio, alle scelte politiche che proprio quell’autonomia conquistata con il sangue e con la lotta, hanno messo in discussione. Eppure proprio i primi anni di costruzione del partito avrebbero dovuto essere d’insegnamento. Nel 1921 viene eletto un CC che nella sua stragrande maggioranza era costituito da intellettuali (80%), in un paese attraversato da grandi sacche di analfabetismo, «potremmo quindi parlare di un quadro perlopiù di origine piccolo-borghese, provvisto di una formazione intellettuale non sottovalutabile» (2), tuttavia «due dei tre operai presenti nel CC sono anche nell’organo più ristretto: a questi vengono affidate la sezione sindacale e la sezione “illegale”, mentre agli intellettuali toccano la propaganda e l’organizzazione. È un primo tentativo di “proletarizzare” il quadro dirigente del PCI». Nel 1926 invece, abbiamo una situazione rovesciata: «gli intellettuali sono 11 (52,4%), gli operai 10 (47,6%). Questa maggiore presenza di lavoratori manuali riflette indubbiamente le tendenze connesse alla “bolscevizzazione” – una trasformazione complessiva del partito, rivolta tra l’altro a “proletarizzare” i quadri dirigenti, sulla base di una ristrutturazione organizzativa imperniata sulla cellula di fabbrica come forma peculiare, leninista, del partito rivoluzionario – (…)». Nell’organo più ristretto la proporzione si inverte: «gli intellettuali prevalgono però adesso nettamente sugli operai: sono loro a costituire, in effetti, il gruppo dirigente del PCI e la loro formazione risulta fortemente influenzata dall’esperienza dell’”Ordine Nuovo”». 

Il partito uscito dalla Resistenza è insieme un partito che ha i caratteri di una organizzazione rivoluzionaria e di combattimento e al tempo stesso è capace di intessere uno schieramento di forze democratiche progressiste anche molto ampio ed eterogeneo. Un partito, come si diceva all’epoca, di quadri e di massa: due caratteristiche che mai sono state vissute in maniera antitetica nel “partito nuovo” imperniato sulla triade Togliatti, Secchia e Longo, che costruì il capolavoro organizzativo di un partito all’apice nella sua capacità di penetrazione nei luoghi del conflitto con la costruzione di oltre 50.000 cellule. L’estromissione di Secchia dal gruppo dirigente del partito dopo il “caso Seniga”, affrontato in via amministrativa e burocratica anziché politica, poterà anche ad una successiva trasformazione del partito: progressivamente, infatti, si smantella l’apparato semi-legale, si liquida assieme a Secchia anche la guardia partigiana e si supera l’organizzazione per cellule, prediligendo quella di stampo esclusivamente territoriale che ha portato, al di là delle intenzioni, ad una forma organizzativa e politica orientata alla lotta sul terreno elettorale e riorientando i quadri in funzione di un partito teso ad agire prevalentemente sul terreno istituzionale e parlamentare. Un aspetto ed un rischio di trasformazione molecolare del corpo del partito e della sua linea politica che non a caso viene colta dai comunisti cinesi nel famoso editoriale del Quotidiano del Popolo sulle “divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, quando mettevano in guardia i compagni italiani dal rischio di giungere a considerare la via pacifica e parlamentare come l’unica forma possibile di transizione al socialismo in Occidente. Ed è bene ricordare che tutto questo avveniva in un contesto nel quale erano ancora forti i rischi di una messa fuori legge del PCI, l’arresto dei suoi dirigenti ed erano ben presenti tentativi di colpi di stato e di sovvertimento dell’ordine democratico.

Un altro aspetto peculiare della nascita del PCd’I era l’impegno per la cura della formazione dei quadri e della costruzione del gruppo dirigente, per dar vita ad una “centrale” – come si diceva all’epoca – unita e capace di dare un orientamento univoco. La stessa tensione e lo stesso impegno si rileva nella fase di costruzione del “partito nuovo” quando, di fronte ad iscrizioni in massa della popolazione italiana, ci si pose il problema della formazione di leve di quadri: «il PCI, che era già un partito di massa – si scriveva nei documenti ufficiali –, doveva acquistare anche le principali qualità di un partito di quadri, il che significava aumentare decisamente il numero di quadri del partito, migliorare il loro lavoro e realizzare in pieno la parola d’ordine che tutti i comunisti debbano avere un compito ed adempierlo scrupolosamente» (3). Data l’organizzazione con il baricentro nelle cellule e nel conflitto operaio, la formazione dei quadri era congiunta con la proletarizzazione del partito e del suo gruppo dirigente. Ma col cambio di linea che viene impressa, e con una trasformazione della struttura organizzativa, le cose prendono via via una piega nuova. Il mutamento graduale della composizione di classe degli organismi dirigenti del partito a tutti i livelli e dei gruppi parlamentari, trasforma il PCI sempre più in partito elettorale e la sezione territoriale sempre più in comitato elettorale. La crescita della presenza dei ceti medi (piccola e media borghesia) nella composizione dei direttivi di sezione, federazione, CC, che portano nel partito ideologie progressiste ma non marxiste e leniniste, si accompagna al graduale superamento della formazione politico-ideologica dei quadri su basi leniniste. Fu Amendola a coniare la definizione di “partito laico” e non ideologico, poi rilanciata da Berlinguer. La combinazione di questi due elementi (mutamento della composizione sociale e de-ideologizzazione) produce – nell’arco di un ventennio – una miscela devastante della natura del partito. Per cui si giunge ad un paradosso: più andavano avanti i processi sopra descritti e più il PCI allargava il suo consenso ed accresceva il suo peso elettorale, ma contemporaneamente perdeva sempre più la sua natura di classe e la sua organizzazione rivoluzionaria e di combattimento. Un aspetto che era ben presente ad Aldo Moro quando lavorò per il “compromesso storico”, conscio che i fatti del Cile e questa prospettiva politica avrebbero messo il PCI di fronte ad una contraddizione che, a quel punto, era insanabile: perché se avesse recuperato una prospettiva anti-sistemica, il PCI avrebbe perso l’appoggio delle classi medie e dilapidato i suoi voti e, se avesse invece voluto accrescerli per giungere infine all’agognato sorpasso sulla DC, sarebbe stato costretto ad accentuare ancora di più gli elementi di mutazione, sia sulla natura del partito che in ambito internazionale. Non è un caso che proprio durante la prima fase della segreteria Berlinguer si registra una marcia forzata del PCI dentro il quadro di compatibilità del sistema capitalistico, con l’accettazione della politica di “austerità” e compressione salariale, l’accettazione dell’integrazione europea (che fino ad allora era stata combattuta strenuamente) e l’accettazione dell’”ombrello della Nato”. Questo si accompagna ad una promozione dei quadri (la gran parte dei quali furono i protagonisti della Bolognina) e di predilezione del “partito laico” e non “ideologico”, in cui si attenua il ruolo di una teoria rivoluzionaria come fondamento della cultura politica del partito. Giungendo infine a teorizzare che sarebbe stato il movimento operaio dell’Europa occidentale, e non più l’esperienza sovietica, a svolgere il ruolo di soggetto rivoluzionario fondamentale (XV Congresso), e che anzi ci si trovava di fronte alla fine della “spinta propulsiva”. Sono gli anni della rinuncia del partito al “superamento del capitalismo” e alla abdicazione stessa della parola d’ordine dell’uscita dell’Italia dalla Nato. Senza queste premesse, l’esito della Bolognina sarebbe stato impensabile e la storia dei comunisti in Italia avrebbe avuto tutto un altro corso.

Questi nodi, che certo non sono gli unici ma sono quelli permessi dall’economia di questo articolo, esercitarono un’influenza determinante anche sulle esperienze successive al 1991, dove però – è bene sottolinearlo – i gruppi dirigenti dell’epoca puntarono alla rimozione totale delle ragioni di fondo della sconfitta, non sviluppando alcun dibattito reale ed incubando così limiti e responsabilità anche maggiori di quelle dei protagonisti di cui abbiamo finora parlato. 

Chi sente l’orgoglio di appartenere a questa storia ha il dovere di custodirne la memoria ed imparare dagli errori commessi; e chi è figlio di questa storia, ha cucito addosso la responsabilità dell’assenza di una iniziativa unitaria capace di vivere le celebrazioni del Centenario come occasione di ripartenza e ritessitura di un percorso comune, piuttosto che la pretesa di ciascuno di presentarsi come l’unico ed autentico erede di quella grande storia. Una celebrazione unitaria che rovesci il vecchio modo di agire e che affronti innanzi tutto una discussione sui punti problematici, anzi: soprattutto partendo da essi. Perché darebbe così finalmente prova di avere imparato la lezione. E perché toglierebbe la storia del PCI dalla teca della memoria e del ricordo, per riconsegnarla alla temperie dei giorni moderni.

Note: 

1. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano nel 1923-1924, p. 31, Editori Riuniti, Roma, 1962.

2. Renzo Martinelli, Il gruppo dirigente nazionale 1921/1943, in: Il Partito Comunista Italiano struttura e storia dell’organizzazione 1921/1979, pp. 365-369, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1982.

3. PCI, Due anni di lotta dei comunisti italiani. Relazione sull’attività del PCI dal V al Vi congresso, Roma, PCI.