di Sergio Ricaldone, Comitato Centrale PdCI
Pubblichiamo volentieri come utile contributo alla discussione
Dopo altri “memorial day” è arrivato anche quello che celebra la figura di Enrico Berlinguer. Molti i commenti e gli articoli. A Milano una piazza è stata intitolata al prestigioso dirigente comunista. Non si tratta, questa volta, di un banale episodio della serie “a volte ritornano”. Se ne riparla ricordando il posto di grande rilievo che Berlinguer ha occupato per 40 anni nella vita politica italiana e in quella del PCI in particolare. Il rispetto e l’ammirazione per il personaggio sono autentici e, pur nelle loro non piccole diversità, sono pressoché unanimi.
Capo indiscusso della gioventù comunista negli anni ’50.
Per non essere frainteso riconosco che la mia generazione deve molto a Enrico Berlinguer. Anni importanti della mia formazione politica di giovane comunista li ho trascorsi sotto la sua direzione : prima nel Fronte della Gioventù del dopoguerra, poi nelle commissioni giovanili di partito e dal ‘49 al ’55 come segretario di Milano della ricostituita FGCI.
E’ nato un sincero rapporto di fiducia reciproca sanzionato, da parte sua, nella delega a rappresentarlo in alcuni incontri internazionali dopo che gli era stato ritirato il passaporto dalla polizia di Scelba. Un rapporto politico consolidato da una visione comune sul ruolo del PCI e del movimento giovanile internazionale (FMGD) di cui Berlinguer è stato per quasi un decennio il leader indiscusso. La sua statura di dirigente politico, di educatore marxista e di capo prestigioso e carismatico della gioventù comunista nella lotta per la pace nei roventi anni 50 è perciò fuori discussione. E tanto basta per respingere l’idea di degradarlo al livello dei camaleonti che, fiutato il vento del dopo ’89 e liquidato il PCI, hanno rinnegato i loro trascorsi comunisti con la disinvoltura di sciacalli, riciclandosi, non importa dove e con chi, purché fossero carriere ben remunerate.
L’onestà politica del personaggio non mi ha comunque impedito di impegnarmi criticamente contro, quando negli anni 70, diventato segretario del PCI, ha finito per assecondare la deriva a destra del partito, anziché combatterla, appiattendosi di fatto sulla linea della minoranza di destra “migliorista” guidata da G. Amendola e G. Napolitano. La nozione di socialismo viene sottratta alle radici storiche del marxismo-leninismo e ridotta alle microdimensioni del modello emiliano (quello di allora, non quello di oggi…).
La “via italiana al socialismo” cede il posto al “compromesso storico”.
Ho letto con molto interesse, ma anche con qualche riserva, sul sito di Marx 21, alcuni pregevoli saggi sulle vicende controverse che hanno accompagnato il PCI negli anni in cui – da Togliatti a Berlinguer – la sua enorme dimensione di forza politica organizzata gli hanno consentito di reggere le prove elettorali, anche nei momenti più difficili e con risultati eccezionali, fino al sorprendente 34,4 % ottenuto nel 1976. La stagione delle grandi lotte operaie e delle conquiste sociali si era conclusa e il PCI ne riscuote giustamente il premio.
Ma, paradossalmente, la sua potente egemonia culturale e politica nell’epicentro del conflitto di classe, la fabbrica, si sta indebolendo.
Appare evidente che la linea del “compromesso storico” si pone l’obbiettivo di depotenziare e poi di superare la strategia messa a punto da Togliatti all’8° congresso del PCI. La coppia riforme/rivoluzione, asse centrale della strategica “via italiana a socialismo”, appare in fase di dissoluzione. La diversità di ruoli tra il partito e il sindacato in fabbrica, sta scomparendo ed è il secondo ad assumere la titolarità del confronto di classe col padronato. Con i limiti del “laburismo” che questa scelta comporta. L’epicentro della forza organizzata del partito si sposta invece dalla fabbrica al territorio. La presenza dei quadri operai negli organismi dirigenti del partito diventa sempre più esigua. Si materializza sempre più la nuova forma di partito elettorale che considera la presenza nelle istituzioni centrali e periferiche la sua priorità strategica.
A scanso di equivoci, la versione anglo americana del “compromesso storico” è documentata da Enrico Franceschini sul Venerdì di Repubblica del 1/6/12 : “Nel settembre 1977 l’ambasciata americana a Londra rivela agli alleati britannici che i diplomatici USA in Italia mantengono da anni “contatti di lavoro” con il PCI, in maniera “più o meno regolare”, riferendosi ai colloqui segreti intercorsi tra l’ambasciatore Richard Gardner e Giorgio Napolitano (all’epoca responsabile esteri del PCI ndr). E proprio da Napolitano, nel corso di un colloquio con l’ambasciatore britannico a Roma nell’aprile 1978, giunge a Londra questa opinione riguardo alla politica del compromesso storico : “Il PCI sostiene che il compromesso storico sarebbe solo una fase transitoria, nel corso della quale verrebbero stabilite le condizioni per una successiva fase di alternanza al potere, secondo il modello britannico.”
Unità dei comunisti o ritorno all’ultimo Berlinguer ?
Se ne è parlato molto di quel periodo, il 19 maggio scorso, al Centro Culturale Concetto Marchesi di Milano, insieme a una trentina di compagni di diverse collocazioni (PRC, PdCI, indipendenti, riviste on-line, ecc) invitati per discutere, in un pre-dibattito, il tema dell’unità dei comunisti. L’incontro è stato molto interessante ma la distanza da colmare per approdare a un’intesa comune è ancora lontana e i promotori ne sono pienamente coscienti.
La tendenza di alcuni compagni ad assumere acriticamente l’ultimo Berlinguer ha fatto emergere due opzioni distinte, separate (ahimè!) da una linea di demarcazione, trasversale alle varie collocazioni, (e ovviamente flessibile e superabile da entrambi i versanti), ma al momento poco compatibili (le due opzioni).
La prima ritiene che l’unità dei comunisti sia necessaria e possibile come premessa alla ricostruzione del partito e debba essere compiuta mantenendo e incentivando le aperture unitarie e le alleanze possibili nella presente congiuntura politica italiana.
La seconda ritiene al contrario che, anziché l’unità dei comunisti, sia l’unità della sinistra (estesa dai settori più radicali al PD di Bersani), la priorità assoluta per ricostruire sul piano elettorale una soggetto genericamente di sinistra con una forte presenza istituzionale nel quale possa coesistere anche una minoranza “comunista”.
Alcuni interventi, incuranti delle nostre modeste dimensioni, si sono richiamati al partito di Berlinguer del 34% per proporre come sbocco possibile, non un piccolo partito di quadri e di militanti con una linea di massa, ma addirittura il grande partito “togliattiano (?) di massa”. Una innocua furbizia per gonfiare al massimo la posta e banalizzare il minimo compatibile con le nostre forze, qui e subito. Sorvolando che quel PCI del 34% era ormai diventato un pachiderma privo di agilità rivoluzionaria e non faceva più paura a nessuno. Lo stesso Aldo Moro lo considera un soggetto “normalizzato” ormai maturo come forza di governo (1).
L’esperienza fallimentare del PRC e la regressione ideologica.
Credo che una parte della nostra discussione abbia mostrato sottotraccia il clima politico e le contraddizioni che tutti noi (incluso chi scrive) abbiamo vissuto e interiorizzato per due decenni, orfani del PCI, nella vana ricerca di un comunismo rifondato conclusasi con ripetute scissioni e i risultati fallimentari che tutti conosciamo. Siamo restati immersi per vent’anni nelle acque torbide di un partito guidato da una eclettica leadership (Garavini, Cossutta, Bertinotti) che ha scientemente distrutto il patrimonio ideale sul quale ci siamo formati e spezzato il filo conduttore che ha tenuto unita la storia del comunismo italiano con il movimento internazionale. I risultati di questa rottura sono stati devastanti : le grandi rivoluzioni che hanno cambiato il mondo, sono diventate dei romanzi criminali e la stessa Resistenza ha finito per essere intaccata e demonizzata come scuola di violenza, il PCI di Gramsci e Togliatti archiviato nel museo degli orrori novecenteschi. E noi a credere ostinatamente di poter invertire, con quattro emendamenti congressuali, il corso politico di una rissosa armata Brancaleone pilotata verso la sua distruzione. Ottimismo della volontà o sindrome da assuefazione ?
La teoria del “meno peggio” incoraggia l’opportunismo di destra.
Ho l’impressione, nonostante la parola comunismo venga ancora pronunciata tra di noi con molto rispetto, che l’idea di ricostruire un partito che la rappresenti sia relegata da alcuni compagni in un limbo evanescente e irraggiungibile. La regola che il meno peggio e sempre meglio del peggio ha convinto alcuni che le tattiche ribassiste sono oggi le uniche perseguibili. La Federazione della Sinistra (modello Linke, Syrisa, Gauche Unit, IU) e le competizioni elettorali con fini istituzionali (ovviamente necessarie) sarebbero perciò l’unico terreno su cui vale la pena di impegnarsi.
Questo superamento della nozione leninista, di partito di classe organizzato e radicato nei luoghi di lavoro tra i salariati, spiega, almeno in parte, il tentativo di alcuni compagni di aggrapparsi agli ultimi anni di storia del PCI (una storia sicuramente più seria ma segnata da scontri interni e conflitti molto aspri) e di riguardare, con occhio benevolo e molta indulgenza, al gruppo dirigente del PCI, guidato da Enrico Berlinguer, che ha preceduto (ma di poco) il collasso finale del partito. Contro la cui deriva a destra – va ricordato – abbiamo combattuto duramente, proprio dentro i locali del Centro C. Marchesi di Milano, dalla fine degli anni settanta, nella vana speranza di preservarne l’identità e di evitarne la sua mutazione genetica, in gran parte già compiuta.
Le ultime sfide politiche e ideali di Berlinguer.
Nulla da eccepire, ovviamente, sui passaggi tattici positivi compiuti contro corrente da Berlinguer, sfidando le tendenze craxiane presenti in quegli anni nello stesso PCI e nella CGIL : la questione morale, il referendum sulla scala mobile, il comizio a Mirafiori, il discorso alla festa dell’Unità a Genova, ecc. Tutte scelte che se confrontate con la mercanzia spacciata oggi dai suoi ex allievi farebbero arrossire di vergogna anche il più cinico dei maghi della pioggia. Ma la caduta verso il fondo di tanti grandi e piccoli camaleonti è stata così totale che rileggendo persino i moderati saggi scritti da Giorgio Amendola, e confrontandoli con quelli di oggi dei suoi ex compagni di cordata miglioristi, lo stesso Amendola appare un pericoloso bolscevico.
Unità dei comunisti e ricostruzione di un partito comunista sono due temi connessi e nel nostro caso sovrapposti, ma richiedono tempi e percorsi distinti, ossia un prima e un dopo. Non basta rimettere insieme quel che resta di Rifondazione e dei Comunisti italiani. Molti sono i nodi politici e storici che devono essere sciolti nella fase di deframmentazione, prima che arrivi quella della ricomposizione e ricostruzione.
Mi sembra tuttavia molto azzardato circoscrivere quello che di buono è stato creato dai comunisti in una lunga epoca storica, nel breve spazio visivo concesso da una specchietto retrovisore. Lo sguardo e la ricerca vanno proiettati in uno spazio temporale molto più ampio. Il giudizio su Enrico Berlinguer non può limitarsi a certi passaggi tattici, nella fattispecie apprezzabili.
Il PCI di Berlinguer prende le distanze da Mosca e dal modello sovietico.
I rapporti internazionali del PCI dopo gli anni 70 rappresentano forse il punto di passaggio dello spartiacque tra la rigida collocazione terzinternazionalista del partito, (e di Berlinguer), subalterna alla politica di Mosca, e il suo crescente interesse a interloquire con i partiti dell’Internazionale Socialista. L’insofferenza del PCI verso il rigido centralismo autoritario del gruppo dirigente brezneviano, ancorché addolcite da canoniche espressioni di fedeltà all’URSS, si manifesta ormai pubblicamente. Le motivazioni non mancano. L’occupazione militare di Praga, nel 1968, apparsa come una repressiva operazione di gendarmeria internazionale, non poteva che essere deplorata.
Tuttavia, benché Berlinguer, leader di grande esperienza internazionale e di grande spessore culturale, abbia continuato fino alla sua morte ad esprimere posizioni critiche verso l’URSS, in gran parte fondate, non è difficile osservare che, col passare degli anni, queste critiche, anziché l’uscita a sinistra dal breznevismo, si andavano collocando dentro una visione strategica sempre più eurocentrica che, escludendo ormai la prospettiva di una rivoluzione socialista in Occidente, puntava ad aprire un processo di ricomposizione su basi interclassiste tra le due esperienze del movimento operaio europeo : quella comunista e quella socialdemocratica. Non era sicuramente questo il significato del riconoscimento delle “diversità” auspicata da Togliatti nel memoriale di Yalta.
La lunga marcia di avvicinamento all’Internazionale Socialista.
La crescente sfiducia nel modello sovietico, che mostrava i segni preoccupanti della stagnazione economica e della sclerosi politica e ideologica, aveva aperto la strada alla convinzione che le conquiste sociali acquisite (costate lacrime e sangue al movimento operaio e contadino) rendessero il riformismo e non più la rivoluzione la sola opzione praticabile in Occidente, complice un capitalismo “moderno” e “illuminato” che, superata la mentalità da “padrone delle ferriere” si mostrava disponibile allo schema keynesiano di sviluppo e sensibile alle politiche redistributive.
Gli anni 70 sono stati un decennio di grande attività internazionale del PCI di Berlinguer verso le componenti progressiste della politica mondiale e di relazioni bilaterali con alcuni partiti comunisti. Ma non con tutti.
Un deplorevole attacco venne condotto contro il leader del PC portoghese Alvaro Cunhal, nel pieno della “rivoluzione dei garofani”. Nell’aprile 1980 il viaggio di Berlinguer a Pechino sanziona la ripresa dei rapporti con la Cina ma anche il tacito raffreddamento delle relazioni con il Vietnam che, devastato dalla guerra e da un embargo micidiale, era costretto a consolidare i suoi legami con Mosca per evidenti ragioni di sopravvivenza e di autodifesa.
La “terza via” nuovo asse strategico berlingueriano.
I passaggi della deriva a destra del PCI, rimasti a lungo impercettibili, assumono maggiore visibilità nei primi anni 80 : aperta e chiusa senza esiti la breve stagione dell’eurocomunismo ecco arrivare “l’esaurimento della spinta propulsiva” e lo “strappo” dall’URSS, poi la politica di equidistanza USA-URSS e infine il riconoscimento del ruolo difensivo della Nato.
Il tutto accompagnato da incontri sempre più carichi di significato con Francois Mitterand, Willy Brandt, Olaf Palme, Andreas Papandreu, Felipe Gonzales. Incontri, che benché presentati come tentativi di ricerca di una ipotetica quanto nebulosa “terza via”, non lasciavano dubbi sullo scopo finale. La deriva interclassista, l’accettazione del mercato e delle compatibilità capitalistiche completano la nuova identità ideologica della carta d’imbarco del PCI nel suo viaggio senza ritorno sfociato nel suo sciagurato scioglimento.
La sconfitta del modello sociale scandinavo.
Fallita anche la “terza via”, riappare, tra gli estimatori dell’ultimo Berlinguer, la stravagante ipotesi di ricavarsi comunque, anche oggi, quale “forza antagonista”, uno spazio protetto che ci salvi lo scalpo come liberi pensatori dentro l’Internazionale Socialista.
Cedendo al vizio di sorvolare sui fatti per non disturbare le opinioni, qualcuno pensa che l’IS sia ancora un soggetto socialdemocratico riformatore, custode dei diritti sociali, modello scandinavo, e non invece un cumulo di macerie che di quel modello non conserva nemmeno il più pallido ricordo.
I nomi e le qualità di coloro che hanno assunto le redini della socialdemocrazia, dopo la scomparsa dei loro nobili padri, sui quali Berlinguer ha riposto tanta fiducia, li conosciamo : sono i Blair, Schroeder, Jospin, D’Alema, Gonzales, Perez, ossia personaggi che evocano il loro totale riciclaggio al neoliberismo più sfrenato e, quel che è peggio, il pieno appoggio in sede Nato alle 8 guerre imperialiste decise dagli USA dopo la scomparsa dell’URSS. Ovvero cani al guinzaglio di un sistema di potere imperialista dominato dalle banche e dalla finanza. Nel momento in cui la crisi più devastante sta spazzando via nei paesi della Triade imperialista le effimere conquiste sociali dei tempi d’oro il massimo dell’offerta socialdemocratica al mondo dei salariati, dei precari e dei disoccupati è quella di un malconcio parapendio che consenta loro un impatto morbido sul fondo dell’abisso manchesteriano raccontatoci da Engels.
Questo disastroso finale cala il sipario sul clamoroso fallimento delle speranze di Enrico Berlinguer che la socialdemocrazia potesse salvarci dal tracollo sovietico, dalle future crisi economiche e dalle guerre. Restano ovviamente aperti altri interrogativi sul personaggio sui quali nei prossimi mesi continueremo a discutere.
Il ruolo dei partiti comunisti contro l’imperialismo, la crisi e la guerra.
Per contro i partiti comunisti, al potere e non, dati per morti e seppelliti da un ventennio, stanno rinascendo e affermandosi ovunque come forza di progresso e dei governo, di sviluppo economico e di rinnovamento sociale e di difensori della pace usando con molta lungimiranza creativa la stessa arma analitica di sempre, il marxismo leninismo. Il che non lascia molti dubbi su chi stia vincendo le sfide politiche e sociali del mondo di domani.
Il recente incontro al Centro C: Marchesi di Milano è stato un primo, positivo confronto tra i compagni del PRC, PdCI, Fiom, circoli on-line, ecc. sul tema dell’unità dei comunisti e della ricostruzione del partito. Su Berlinguer e il nostro passato prossimo abbiamo indugiato non poco. Ma la materia su cui riflettere è molto più ampia e l’orizzonte temporale della nostra ricerca va allargato : dalla Comune di Parigi, alla Rivoluzione d’ottobre, dalla sconfitta del nazifascismo alle grandi rivoluzioni asiatiche, ai movimenti antimperialisti che stanno cambiando, non solo la geopolitica dell’Africa e dell’America Latina, ma anche i rapporti di forza planetari tra imperialismo e forze di progresso. Sono soprattutto questi i passaggi d’epoca e i soggetti dai quali trarre insegnamenti utili e le chiavi di lettura del nostro futuro.