Campagna elettorale, tesseramento e costruzione del partito comunista

di Fosco Giannini, segreteria nazionale PdCI – Candidato alla Camera dei deputati in Emilia – Romagna

pdci bandiere simboloSpesso, nelle “piccole” cose, si nasconde il tutto. Spesso, nell’apparente ovvietà della “consuetudine”, corre il flusso vitale. Il “tutto” e la “consuetudine vitale” segnano l’importante lettera che lo scorso 7 febbraio i compagni Francesco Francescaglia e Vincenzo Calò hanno inviato ai segretari regionali e ai responsabili dell’Organizzazione del nostro Partito. 

Perché questa lettera dei compagni è così importante? Perché essa apre, in modo determinato, la campagna di Tesseramento del Partito; l’ apre tre settimane prima delle elezioni nazionali, indipendentemente, dunque, dall’esito del voto. Indipendentemente dalla possibilità, o meno, che Rivoluzione Civile superi lo sbarramento del 4%. Indipendentemente dal fatto (che naturalmente non consideriamo neutro, ma importantissimo) che il PdCI conquisti senatori e deputati. 


Le compagne e i compagni del Partito, i nostri tanti giovani, stanno conducendo, in tutto il Paese, una grande campagna elettorale. Sui territori, i nostri militanti, i nostri quadri, sono spesso alla testa dell’iniziativa di Rivoluzione Civile; esprimono, com’è nelle corde culturali dei comunisti e delle comuniste, una forte e necessaria tensione unitaria; lavorano assieme alle altre forze, agli altri soggetti della Lista e, dove le altre forze languono – casi non rari – i compagni e le compagne del PdCI si assumono l’onere intero della campagna elettorale.

La lettera che apre il Tesseramento del Partito, in relazione alla fatica e ai sacrifici che sul campo dispiegano i nostri militanti, è una vera e propria boccata d’ossigeno: vuol dire che il lavoro non sarà, comunque vadano le cose, vano; che, persino al di là dell’esito elettorale, il progetto della ricostruzione di un Partito Comunista all’altezza dei tempi e dello scontro di classe – così come ha affermato all’unanimità il nostro ultimo Congresso Nazionale – sarà portato avanti. Nella cattiva e nella buona sorte. Perché il senso e la necessità sociale e storica del Partito comunista vanno ben al di là d’una tornata elettorale. Certo, noi sappiamo bene quanto, specie in questa fase difficilissima, sia importante la presenza al Parlamento dei comunisti. E per questa forte necessità, per la vittoria dei comunisti e di tutta Rivoluzione Civile, tutti noi, nessuno escluso, si deve battere, si sta battendo e si batterà sino all’ultimo giorno, all’ultimo minuto della campagna elettorale. Tuttavia, il messaggio della lettera di Francescaglia e Calò, il messaggio intrinseco al lancio del Tesseramento all’interno della stessa campagna elettorale, è tanto chiaro quanto vitale: la presenza organizzata e di lotta del Partito Comunista prescinde dall’avere o non avere compagni eletti. E’ del tutto evidente che un prolungamento dell’assenza del Partito dal Parlamento aumenterebbe le già grandi difficoltà di “manovra” dei comunisti in questa fase segnata da una vastissima e capillare egemonia della classe dominante; ma è proprio in virtù di questo profondo dominio padronale che i comunisti sono chiamati a rilanciare il loro ruolo e la loro strategia sociale e culturale, antitetica a quella capitalistica. Dunque, c’è un punto fermo: il ruolo del Partito Comunista in ogni modo dovrà proseguire e proseguirà, pur nelle inasprite difficoltà che un’eventuale assenza dal Parlamento (assenza che non contempliamo e comunque da scongiurare attraverso l’accentuazione del nostro lavoro quotidiano) recherebbe alla loro causa. 

Ma perché tanta ostinazione nel rilanciare la nostra causa, il progetto comunista, il Partito Comunista? Lo facciamo perché siamo, sul piano ideologico e su quello esistenziale, segnati da una sorta di coazione a ripetere? Perché “siamo comunisti solo perché siamo, siamo stati, comunisti”? No: ciò non sarebbe sufficiente, ciò non basterebbe. Alcuni anni fa, Fausto Bertinotti, tradendo la propria inclinazione idealistica ed esistenzialista, che l’avrebbe portato fuori dal comunismo, dalla teoria e dalla prassi del comunismo, affermò di essere un comunista “per tigna”. Quando la tigna in lui si esaurì, e non ci mise molto tempo, il suo (transitorio) essere comunista senza basi materiali e teoriche lo portò a cercare continuamente, febbrilmente, “nuovi soggetti politici”, tutti al di là ( meglio: al di qua) del comunismo; lo portò a rompere recisamente con la nostra causa; lo portò a definire “gli intellettuali e i dirigenti comunisti del ‘900 tutti morti, non solo fisicamente”. E lui era il solo vivo. Lo portò a definire, ad archiviare il comunismo (in una celebre, quanto nefasta, intervista televisiva, di fronte a 12 milioni di telespettatori, un’intervista che fece tanto male all’Arcobaleno ), solo “una tendenza culturale”.

Ma quali sono le basi materiali che impongono ai comunisti, di là dalle grandi difficoltà di fase, e forse per una non breve fase, a resistere, sorreggere e rilanciare l’opzione comunista? Esse vanno fatte emergere dalla decodificazione profonda del periodo che viviamo e che vivremo. Gli ultimi decenni che abbiamo attraversato, e che dovremo ancora attraversare, sono caratterizzati da almeno cinque grandi questioni sovra ordinatrici. Dalle quali sorge l’esigenza oggettiva del nostro ruolo anticapitalista, comunista.

La prima risiede nel contesto internazionale: l’ultimo trentennio è stato caratterizzato da un “moto” complessivo che possiamo definire di competizione globale ( “categoria” ben diversa e ben più pregnante delle cosiddetta “globalizzazione”). Il passaggio, dalla fine della Seconda Guerra mondiale in poi, dal dominio, su scala planetaria, di un unico polo imperialista (gli USA) al costituirsi di un polimperialismo (altroché l’Impero di Toni Negri!) ha scatenato di nuovo una lotta, una competizione durissima tra poli imperialisti e capitalisti sul piano internazionale per la conquista dei mercati. Una lotta (che Lenin avrebbe chiamato, con chiarezza scientifica, “acutizzazione delle contraddizioni interimperialistiche”) che – anche e soprattutto in virtù dell’improvvisa assenza, nel quadro mondiale, dell’argine rappresentato dall’Unione Sovietica – ha liberato ovunque gli spiriti animali del capitalismo; ha reso egemoniche – nel fronte imperialista e capitalista – le frazioni più duramente liberiste e predatorie, imponendo una linea generale del capitale volta alla negazione di ogni compromesso col mondo del lavoro, ogni, seppur lieve, scelta keynesiana o neo keynesiana. Le nuove contraddizioni interimperialistiche, la lotta senza esclusione di colpi per la conquista dei mercati mondiali ha inciso sulle bandiere del capitale un motto: “ per conquistare i mercati occorre abbattere il costo delle merci; per abbattere il costo delle merci occorre abbattere i salari, i diritti e lo stato sociale”. Sta in questo proposito, semplice e feroce insieme, uno dei motivi di fondo dell’attacco durissimo del capitale, sul piano internazionale, di questa fase storica. In ogni Paese in cui ha potuto, in ogni area mondiale ove non ha trovato resistenza, il capitale ha imposto questa sua legge. Compresa l’Italia, che specularmente alla scomparsa della diga sovietica sul piano mondiale, ha perso la sua diga nazionale rappresentata sia dal grande PCI che da una CGIL di classe e di massa.

Una seconda questione scaturisce dall’interno stesso delle contraddizioni capitalistiche di fase: lo sviluppo esponenziale delle capacità produttive del sistema macchinico capitalista – in grado di produrre un’immensa quantità di merci, invendibili in relazione all’impoverimento progressivo di una forza lavoro depredata a livello di massa – ha creato una lunga fase di crisi da sovrapproduzione. Una contraddizione generale del capitale – questa della sua crisi, ciclica, di sovrapproduzione – che rimanda all’esigenza storica della fine dell’anarchia economica e al dominio del mercato; rimanda all’esigenza, altrettanto storica, della razionalizzazione dell’economia, al socialismo.

Una terza questione che sta alla base dell’attuale crisi del capitalismo – una crisi che, per i motivi che stiamo per esporre, può già assumere i caratteri della “krisis” in senso greco, cioè del cambiamento positivo – è data dalla costituzione, nel quadro mondiale, di un’ormai vastissima area di paesi non più genuflessi all’ordine capitalista, in grado, anzi, di proporsi come antagonisti all’egemonia imperialista e capitalista, in grado – come è già avvenuto – di cambiare i rapporti di forza a livello mondiale tra paesi ed aree continentali dal carattere antimperialista, progressista e socialista e aree mondiali imperialiste. La Cina, la Russia, il Brasile, l’India, il Sud Africa (i paesi del Brics), rappresentano quest’area del cambiamento. Paesi del Brics ai quali vanno affiancandosi altre aree e paesi del mondo, come “ i nuovi sette” paesi dell’Africa che, in connessione positiva con lo stesso Brics, iniziano un loro autonomo sviluppo economico aprendosi la strada della libertà dal dominio imperialista. Questo nuovo quadro internazionale, se da una parte accentua la crisi del capitalismo ( acutizzandone la spinta spoliatrice, neo colonialista e imperialista sul fronte esterno e lo sfruttamento liberista nei fronti interni), d’altra parte crea le basi materiali per un allargamento, di tipo planetario, del fronte di liberazione dall’egemonia imperialista, rilanciando con forza il progetto – su scala mondiale – delle ragioni progressiste, democratiche e socialiste. Un punto, questo, decisivo, poiché dice ai popoli ancora soggiogati, alle forze antiliberiste, alle forze rivoluzionarie e comuniste, che il loro progetto è razionale, è tutto dentro la storia attuale e in divenire. Un punto, questo, che dice chiaramente anche a noi, comunisti italiani, che difendere e rilanciare il nostro progetto non è idealista, non si basa né su di una “coazione a ripetere”(siamo,tautologicamente,comunisti perché siamo comunisti”), né, tantomeno sulla nostalgia. No: la fase, la storia che viviamo, si offre a noi come base materiale per la nostra lotta, per la nostra resistenza, per la nostra strategia. Ed è anche da questo punto di vista che dobbiamo vivere la fase italiana, sì, come difficilissima (cioè, quella che è) ma non in grado di cancellare le nostre ragioni, il nostro ruolo storico. Ed è anche da questo punto di vista – che prende luce da orizzonti ben più vasti del ristretto orizzonte italiano – che deve prendere forza, sprovincializzandosi, il senso della nostra lotta, della nostra resistenza, del nostro sacrificio. D’altra parte, i comunisti di Livorno, i comunisti di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, i comunisti e le comuniste che costruiscono il Partito comunista d’Italia nella fase di costituzione, in Italia, del fascismo, non prendono forza, senso profondo del loro difficile agire, dalla vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, dal ‘17, dalla costruzione, per la prima volta nella storia dell’umanità, del socialismo? Anche ora, rispetto a un mondo che cambia, che costruisce ed evoca nuove e titaniche forze politiche, sociali e statuali anticapitaliste e socialiste nell’intero quadro planetario, il messaggio, per noi che agiamo in un quadro conservatore e reazionario, non è quello di una “speranza autorizzata”? Non ci dice, questo immenso processo di liberazione umana che cammina con i paesi del Brics, con “ i sette paesi” dell’Africa, con i popoli in lotta, che noi non siamo soli, che il nostro progetto non è velleitario, che non è da nostalgici o da dogmatici, ma che trova le sue basi nella concreta realtà in movimento, nella Storia che viviamo? Se questo è, e questo è, sappiamo, come i comunisti di Livorno, che possiamo resistere nelle difficoltà di fase. E, anche, che tra un’eventuale nostra assenza dal Parlamento ( evento che eviteremo attraverso uno strenuo impegno), un eventuale scoramento di alcuni di noi e la fase storica rivoluzionaria che viviamo, si aprirebbe uno scarto enorme. Sarebbe come se, a fronte della vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, Gramsci, nella fase italiana fascista, avesse desistito. Non lo fece. Non lo faremmo noi.

Una quarta questione, alla base della crisi sociale e dell’odierna natura iperliberista del capitalismo europeo, delle involuzioni liberiste delle “socialdemocrazie” europee, dei partiti socialisti o “democratici” europei, compreso il PD italiano, e delle nostre stesse difficoltà, è quella relativa all’Unione europea. Non abbiamo più difficoltà o reticenze ad affermarlo: siamo di fronte ad un processo di costituzione di un nuovo polo imperialista mondiale: quello, appunto, dell’Unione europea. Il capitale transnazionale dell’Ue si unisce, trascurando, evitando accuratamente, l’unità democratica dei popoli europei, per partecipare, con intenti vincenti, alla conquista dei mercati mondiali. Per quest’obiettivo, per abbattere il costo delle merci europee, non tentenna nell’imporre un ordine, che l’Europa del welfare non conosceva più, di tipo iperliberista, antioperaio e antidemocratico. Nel prescrivere quest’ordine non rinuncia nemmeno ad imporre agli Stati, ai popoli, la dura legge della Banca centrale europea, a collocare forzatamente, alla guida dei governi e dei popoli dell’Ue, i propri uomini, i propri agenti. Come Monti in Italia. Ma la costruzione di un ordine liberista in tutte le zone, in tutti i Paesi dell’Ue; la costituzione del nuovo polo imperialista europeo, non sarà un progetto dai tempi brevi. Questo doloroso processo sarà temporalmente lungo e sincopato; molto sangue sociale dovrà essere ancora versato. E per contrastarlo, per cambiare il corso delle cose, è più necessario che mai il ruolo delle forze comuniste, antiliberiste, anticapitaliste. Che hanno anche un compito nuovo: costruire un fronte antiliberista, anticapitalista sovranazionale, in grado di lottare sullo stesso terreno sovranazionale costituito dall’unità del capitale transnazionale dell’Unione europea. Come dire: oggi, proprio oggi che siamo in difficoltà, la fase ci chiede di non demordere, di non ammainare le bandiere, di tenere duro, di organizzarci e lottare. Consegnandoci, peraltro, un ruolo storico che la cultura dominante vorrebbe, per ovvie ragioni, sottrarci.

Una quinta questione, questa volta precipuamente italiana, sta alla base delle contraddizioni di fase. Nel nostro Paese agisce un capitalismo ancora straccione, un “nanocapitalsimo”. Gruppi e famiglie capitalistiche, che detengono, peraltro, gran parte della ricchezza nazionale, rinunciano a priori, per subalternità culturale, alla competizione internazionale con le altre forze capitalistiche. Non investono sulla ricerca tecnologica e sullo studio e scartano di lato, rispetto all’esigenza di immettere sul mercato, per battere la concorrenza, merci “alte” e sofisticate. Scegliendo di conseguenza, per garantirsi ancora il loro profitto, la strada breve, ottusa e socialmente crudele, dell’inasprimento dello sfruttamento sulla forza lavoro. Scegliendo la strategia dell’evasione fiscale, della contiguità col profitto “nero” e mafioso, della delocalizzazione selvaggia e impunita, del trasferimento nei paradisi fiscali dei profitti non reinvestiti, della distruzione del welfare, in perfetta sintonia con quello spirito dei tempi espirato dal neo imperialismo dell’Ue.

Anche la natura particolarmente conservatrice, predatrice e speculativa del capitalismo italiano chiede oggettivamente che i comunisti, le forze di sinistra e antiliberiste rilancino il loro ruolo di lotta. E vi è certo una relazione tra questa esigenza oggettiva e la demonizzazione, il tentativo di liquidazione – anche sul piano istituzionale, anche attraverso leggi antidemocratiche come quella dell’abolizione del proporzionale – delle forze comuniste e anticapitaliste. Vi è certo una relazione tra l’esigenza oggettiva che ha il capitale di azzerare ogni pensiero critico, innanzitutto quello comunista, e il tradimento e la resa che salgono a volte dalle stesse fila del movimento comunista, di sinistra e sindacale. Ed è anche per questo che i comunisti non possono e non debbono cedere, seppur stretti nelle difficoltà.

Vi è un punto generale, in sintesi, che emerge con tutta la sua forza, dalla fase storica, dalla fase europea e italiana: il progetto del socialismo, del comunismo, seppur lontano nel nostro Paese – anche se vivo più che mai a livello mondiale – è l’unica risposta razionale alla crisi del capitalismo, alla sua volontà distruttrice che si alimenta sempre più di sfruttamento, di dolore sociale e pulsione al riarmo e alla guerra.

Queste elezioni dobbiamo vincerle; Rivoluzione Civile deve vincere. I comunisti debbono vincere. Il PdCI deve portare i suoi candidati in Parlamento. Dall’esperienza di Rivoluzione Civile dovrà nascere un fronte vasto di sinistra antiliberista e pacifista. Dovrà nascere un popolo unito della Resistenza del quale il PdCI dovrà essere una colonna unitaria. E più sarà capace, il PdCI, di essere soggetto costruttore dell’unità; più s’ immergerà nel movimento di massa, più – dialetticamente – costruirà e organizzerà se stesso, il suo progetto autonomo volto alla ricostruzione, in Italia, di un Partito Comunista di quadri con una linea di massa.

Dobbiamo cercare la vittoria elettorale giorno per giorno, sulla scorta del grande impegno che abbiamo già profuso in questa campagna elettorale. Scrivo tra un’iniziativa e l’altra della campagna elettorale in Emilia-Romagna, dove i compagni e le compagne del PdCI portano avanti, quotidianamente, senza trascurare nessun territorio, un grande lavoro politico, segnato da una forte spinta unitaria. Da questo lavoro può nascere la vittoria. Una vittoria che potrà essere il viatico per un rilancio, politico, teorico e organizzativo del nostro Partito, dei comunisti. Ce la mettiamo, ce la metteremo tutta. Tuttavia, se la vittoria non arrivasse, se dovremo aspettarla ancora, a tutti coloro che bramano e brigano da decenni, in Italia ( da D’Alema a Bertinotti; dalla cultura dominante alle forze democratiche ma moderatissime) sia chiaro una cosa: la storia dei comunisti, in Italia, non si arresterà. I nostri ideali, la nostra lotta, il nostro progetto strategico, che nel mondo sta ripartendo sulle ali dei popoli, non si misurano col numero di qualche eletto. Abbiamo un compito più grande. Che ci ha sempre dato e ci darà la forza per ripartire.

Resistere, riorganizzarci, lottare: dobbiamo farlo per ragioni oggettive, per rispondere agli attacchi del capitale, per far vivere nelle lotte la nostra idea di socialismo. Ma non solo per queste ragioni “superiori” dobbiamo stringere i denti e andare avanti. Resistere, lottare: lo dobbiamo ai tanti giovani che militano nel nostro Partito, alle loro speranze che non possono essere tradite. Lo dobbiamo ai nostri militanti, ai nostri iscritti, ai quadri, giovani e anziani, che vogliano continuare la più bella delle battaglie, quella per il cambiamento dello stato presente delle cose, per gli ideali del socialismo. Lo dobbiamo a chi prosegue la lotta sulla scorta della grande esperienza vissuta nel PCI e nel movimento comunista italiano. Lo dobbiamo a chi inizia la lotta, i più giovani, che degli ideali più grandi vogliono nutrire la loro vita. Sia per noi che per loro andremo avanti. Indipendentemente dagli eventi contingenti. Col senso di sacrificio e dell’appartenenza alla Storia che sempre ha caratterizzato i comunisti. Lottiamo ancora in questa campagna elettorale così importante per noi e per l’intera sinistra italiana. E al più presto stampiamo le nuove tessere del Partito, poiché sin dai prossimi giorni dobbiamo iscriverci, iscrivere tante altre e tanti altri, nuovi, compagni!