di Ezio Grosso, segreteria Federazione PCdI Torino
Per la nostra “tribuna” sul ruolo e le prospettive dei comunisti in Italia, il contributo del compagno Ezio Grosso
A premessa, un sincero e sentito ringraziamento alle compagne ed ai compagni che hanno duramente lavorato alla stesura di questo documento congressuale, per la chiarezza del linguaggio, l’esposizione puntuale e sintetica, ed inoltre la felice scelta metodologica di sviluppare per tesi un discorso che, dovendo necessariamente spaziare dalla storia mondiale dell’ultimo cinquantennio alla contemporaneità della società italiana, in altra stesura avrebbe dovuto essere sviluppato in modo più complesso, dispersivo e di meno agevole lettura.
Però il fine dell’analisi di un documento politico, specie se preparato per un congresso fondativo, non può certo limitarsi a valutazioni estetico-semantiche, ma deve necessariamente assumersi responsabilità critiche e, questo, nel solco della nostra miglior tradizione storica di confronto dialettico.
Proprio in base a questa considerazione, ritengo limitante il rinchiudere, tanto più alla luce della sua finalità, l’analisi storica tra quelle solide mura della tradizione PCI che abbiamo presentato praticamente a tutti i congressi passati, evitando, forse per il timore di aggiungere qualche pagina ad un documento già prolisso, di sottolineare e contestualizzare le logiche geostrategiche che hanno indirizzato, e continuano ad indirizzare, l’evoluzione mondiale.
Forse, sarebbe stato meglio evidenziare la vera ragione delle spinte belliciste (in assoluta controtendenza rispetto all’opinione pubblica USA) di Roosevelt in politica estera negli anni ’40, proprio nel momento in cui il new deal stava cominciando a mostrare i suoi limiti nel rilancio dell’economia, nella consapevolezza che il ricorso ad un economia di guerra, tanto più in un paese autosufficiente, sia dal punto di vista industriale sia alimentare, praticamente irraggiungibile per i mezzi bellici dell’epoca e quindi immune da danni, avrebbe consentito la definitiva uscita dalla crisi e innescato una crescita economica di tale entità da porre le premesse per la creazione di un nuovo ordine mondiale.
D’altra parte non dobbiamo trascurare, al di là di qualunque suggestione di derivazione attuale, che la scuola keynesiana si è sempre e solo proposta di indirizzare il capitalismo (al contrario delle scuole liberiste) ad una visione razionale e guidata dell’economia, ma certo non al suo superamento. In effetti, che il new deal fosse ormai obsoleto ed in via di progressivo abbandono perché non più necessario all’economia statunitense, lo dimostra abbastanza chiaramente la scelta dollarocentrica, in netta contrapposizione alle proposte di Keynes volte a creare una valuta di scambio condivisa a livello mondiale, uscita dalla conferenza di Bretton Woods.
Da sottolineare che tale conferenza si è tenuta nel luglio del 1944, ovviamente senza sapere con certezza che la guerra si sarebbe conclusa all’incirca un anno dopo.
Eventi storici successivi, a partire dalla conferenza di Jalta, dovrebbero essere ricondotti alle logiche politiche e diplomatiche che hanno precorso questo punto di svolta cruciale.
Quindi, al di là delle nebbie propagandistiche e dei possibili errori di valutazione (che sempre ci sono, e ci sono stati, pensiamo solo alla fallita scommessa su Ciang Kai-scek in Cina), nessuno sano di mente potrà mai affermare che gli analisti (anche solo) dei governi alleati non sapessero quali scenari avrebbero dovuto affrontare nel loro futuro prossimo.
Non era un mistero per nessuno che l’Europa e l’Unione Sovietica sarebbero uscite più o meno distrutte e, comunque, in ogni caso da ricostruire, dopo quasi sei anni di guerra combattuta sul loro territorio, come non era un mistero che il contributo anglo-americano era stato molto meno determinante, su questo fronte, di quanto poi propagandisticamente divulgato, e che l’economia statunitense, una volta finita la produzione bellica, si sarebbe trovata in una condizione di enorme sovrapproduzione.
Perciò, il piano Marshall è da leggere quale investimento necessario alla riconversione civile dell’industria USA ed alla creazione di un grande mercato di sbocco per le merci, in sintesi, l’adozione di una politica neocoloniale, da armonizzare, paradossalmente, nel processo di decolonizzazione, a sua volta necessario per sottrarre il mondo emergente e delle materie prime al controllo dei vecchi imperi coloniali.
Ed in linea con quest’impostazione mercantilistica anche la repentina spinta alla reindustrializzazione tedesca (in un primo tempo aborrita e poi giustificata con la guerra fredda), la costituzione di un’area di libero scambio per le materie prime nell’Europa continentale e tutti quei passaggi ben conosciuti che hanno condotto alla NATO, al MEC ecc. e ritengo inutile, in questa sede, esporre in dettaglio.
Ma da non trascurare il significato della plateale, spregiudicata e intimidatoria esibizione dell’arma atomica a Hiroshima e Nagasaki, e le “capriole” diplomatiche alla conferenza di pace, forse più a beneficio degli alleati anglo-francesi che non all’URSS; la sostituzione per le elezioni del ’45 del candidato alla vicepresidenza Wallace, l’unico dell’amministrazione che forse credeva veramente nel new deal, con un Truman oscuro, ma forse proprio per questa ragione, molto più gradito alle lobbies economiche; la genesi delle costituzioni europee dei paesi più importanti, in particolare di quella tedesca che, a differenza di quella francese ed italiana, è stata completata (sotto tutela) solo negli anni ’50, e rappresenta l’esempio più marcato dall’imposizione del modello liberistico, anzi, di quella particolare visione liberista (ordoliberismo, ossia liberismo ordinato) riesumata dalle ceneri della scuola euleniana di Friburgo.
Il caso della Germania merita un’attenzione particolare perché, distrutta ed occupata, ha rappresentato il laboratorio economico ideale per sperimentare un’ipotesi liberista non ortodossa (rispetto a quella anglosassone), che poneva al centro la funzione dello stato (inteso in senso hegeliano, ossia basato su valori fondanti quali famiglia, comunità, religione, tradizione, ecc.) quale agente attivo nel privilegiare l’impresa privata a discapito del pubblico e salvaguardare la concorrenza. Quest’impostazione è stata la bibbia economica della Repubblica Federale ed è tuttora il modello imposto alla UE.
Nemmeno da trascurare il dettaglio che l’angelo tentatore del piano Marshall, magari senza grosse speranze di successo, è stato reiteratamente proposto anche all’Unione Sovietica.
Ipotizzare un’onda lunga anche più di mezzo secolo, considerando il tempo necessario per la ricostruzione, lo sviluppo economico e culturale del mercato, con la creazione in contemporanea di un’alleanza militare soffocante, non credo si possa giudicarla poi tanto sproporzionata in una logica di assestamento coloniale. All’incirca settant’anni separano il piano Marshall dal TTIP, ma sono pochi più di quelli occorsi al Regno Unito per India e dintorni.
In fondo il capitalismo, per sua intrinseca natura non ha mai smesso di privilegiare l’aspetto finanziario a discapito dell’economia produttiva, se non per brevi momenti storici caratterizzati da effettiva necessità manifatturiera e, di conseguenza, a portare avanti la sua interpretazione di lotta di classe. Già questa semplice constatazione potrebbe essere sufficiente a postulare la contraddittorietà di una mai verificata terza via socialriformista e, nel contempo, la necessità di un partito comunista che si ponga l’obiettivo, anche a lunghissima scadenza, del superamento della stessa concezione capitalista.
Conseguentemente naturale quindi, la necessità di un Partito Comunista, in Italia, in Europa, nel mondo. Ma quale forma partito? Quali prospettive? In quali tempi? Quali obiettivi a medio e/o breve termine?
L’esperienza storica evidenzia una tendenza alla ciclicità, a percorsi che ne richiamano alla memoria altri in un balletto di similitudini apparenti, ma certo non sovrapponibili, perché la freccia del tempo è unidirezionale e l’analisi storica, per quanto fondamentale, non è una scienza esatta, e la riproducibilità di un risultato solo probabile ed ipotetica.
Il Partito, in Italia (e non solo) è sicuramente da ricostruire ma, se è possibile individuare un modello storico a cui far riferimento, o se è meglio ignorare il passato e ripartire da zero, sarà, anzi è, il punto focale della discussione in atto nel processo costituente.
Un progetto di ricostruzione e/o ricomposizione che, per quanto aggiornato negli intenti e nell’aspetto formale, abbiamo già presentato sostanzialmente immutato o quasi, nella sua visione strategica, a vari congressi ed occasioni titolate nell’ultimo decennio, ottenendo, forse, e nemmeno sempre, quel minimo di riscontro necessario a giustificare tale dispendio di energie. Ora siamo, e dobbiamo essere consapevoli, che questa Costituente rappresenta, molto probabilmente, l’ultima opportunità per ri-costruire un Partito e non una banale associazione culturale o di reduci, ragion per cui, non possiamo permetterci di sprecarla dilaniandoci in scontri tra particolarismi che, per quanto importanti in sé, non lo sono quanto l’intero edificio.
Oggettivamente qualche faticoso passo avanti, nonostante tutto e magari in ritardo, in questi ultimi anni l’abbiamo fatto. Forse esisteranno ancora momenti di forte incomprensione su come interpretare l’imperialismo ed il grado di autonomia (irrilevante) di quello europeo, differenti letture di eventi storici importanti più o meno vicini e/o contemporanei, analisi di fase, di scelte tattiche e strategiche, ma tutto ciò, non rientra forse nel consueto, naturale e, magari, anche acceso confronto dialettico? Io propenderei per il sì.
Una gradita sorpresa lo sviluppo della tesi 7, un confronto tanto atteso quanto invocato, pur con varianti formali, in tutti i congressi a cui ho partecipato: finalmente un documento che analizza in modo chiaro ed esplicito le politiche monetarie europee e, finalmente, avanza proposte politiche ufficiali nell’unica sede legittima, quella del Congresso!
Non che il tema fosse considerato dai Compagni marginale (basterebbe al riguardo citare i libri di Giacché) e/o non meritorio di essere posto al centro dell’attenzione ma, molto più semplicemente, forse il timore di rendere irreversibile la scelta di schierare il Partito su posizioni di netta contrapposizione al liberismo euro-mascherato del PD (e dei suoi precursori) e, di conseguenza, dichiarare l’assoluta indisponibilità ad accettarne le proposte socio-economiche eliminando definitivamente ogni nostalgia residua di centrosinistra, ha fatto sì che finora, questo tema, fondamentale per un Partito Comunista, venisse tatticamente espunto o messo ai margini delle agende congressuali.
Purtroppo, questa non scelta ci ha impedito di far nostra, come sarebbe stato naturale, ed in assoluta continuità con la nostra storia (ricordo a titolo d’esempio, l’intervento con cui Napolitano, all’epoca capogruppo alla Camera, stigmatizzava l’ingresso dell’Italia nello SME), la battaglia contro la UE, lasciando che se ne appropriasse la destra più becera e populista (che utilizza per lo più spezzoni di argomenti culturalmente “nostri” riadattati ad hoc), così adesso, siamo costretti a fare perifrastici distinguo tipo “uscita da sinistra” molto meno impattanti di quanto sarebbe invece necessario.
Rimangono invece, al di là di ogni intento polemico, e della stanchezza per l’utilizzo rituale delle solite formule, irrimediabilmente comuni a tutti gli enunciati congressuali, alcune perplessità di fondo in relazione alle proposte di forma partito.
Se si debba preferire il modello organizzativo gramsciano o, in prospettiva, quello di massa, resta un bellissimo argomento da dibattito, ma puramente teorico.
E sarebbe pura ipocrisia, costringersi a ignorare che la contrapposizione tra due visioni parzialmente antitetiche della funzione e della pratica politica del Partito, non siano riuscite a raggiungere una ragionevole e condivisa sintesi dialettica superando le reciproche e legittime ragioni del contendere, nel contempo sarebbe un’inqualificabile sciatteria metodologica l’accettazione supina di un gioco al massacro, il cui unico scopo apparente sembra essere quello della distruzione reciproca delle intelligenze.
Immaginare un partito in cui tutti o quasi gli iscritti siano militanti, credo sia il sogno di ogni dirigente ma, se questo è stato vero, lo è stato solo nel periodo, purtroppo non breve e tragico, della clandestinità e, forse, fino ai primi anni ’50. Un modello che non è assolutamente traslabile nell’Italia odierna, dove non abbiamo più nemmeno la “fortuna” di essere considerati un pericoloso nemico da far tacere, perché ora basta far finta che i comunisti non esistano.
D’altra parte, una procedura d’iscrizione certificata da vecchi iscritti, non potrà mai essere confrontabile con un’iscrizione territoriale di massa o addirittura con quella praticata on line, ragion per cui, presupporre una sovrapponibilità tra iscritto e militante deve necessariamente essere considerata una fuorviante distorsione della realtà
In ogni caso, la rete ci permette ancora di essere presenti sui media e, sapendone utilizzare bene le risorse, anche di conquistarci una certa visibilità, ma anche la rete sta cambiando, anzi, è già cambiata, nell’arco di pochi anni siamo passati dal formato sito/blog a quello dei social con il risultato di avere, da una parte l’ampliamento delle possibilità relazionali ma, dall’altra una progressiva limitazione dialettica, cosa che aiuta solo quelle forze politiche che prediligono le semplificazioni sloganistiche.
Sappiamo che l’evoluzione mediatica c’impone di trovare, e subito, risposte efficaci all’ottundimento derivante dall’adozione generalizzata di questa neolingua, ma sappiamo anche che il vecchio volantino, il giornalino autoprodotto ed il lavoro porta a porta non potranno mai essere abbandonati, e di questo credo ne sia perfettamente conscio chiunque abbia alle spalle qualche anno di esperienza politica e, proprio in virtù di questa, è poco propenso a lasciarsi tentare da suggestioni che non mostrino di essere saldamente ancorate a terra, tanto più ora, nel momento in cui le risorse umane e finanziarie del Partito sono talmente esigue da rendere surreale, anche solo l’ipotesi, di una capacità organizzativa avvicinabile a quella che fu del PCI.
Da ora in poi tutto quello che verrà, sarà futuro, per noi e per il Partito Comunista Italiano.