Il ruolo dei comunisti italiani

antonio Gramsciriceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione

di Roberto Gabriele

In un periodo drammatico come questo di scombussolamento economico, sanitario e di equilibri politici nazionali e internazionali, sarebbe importante che da parte dei comunisti italiani si ponesse di nuovo il problema concreto di come affrontare le prospettive.

Sicuramente quelli che si ritengono comunisti pensano di avere un’opinione sulle cose che stanno avvenendo e gli interventi su Marx XXI lo dimostrano, ma il loro pensiero non si è trasformato ancora in un progetto politico che sia collegato alla situazione. Si rischia così di rimanere legati a una concezione di nicchia dell’impegno politico e di esprimere solo esigenze di analisi dei problemi senza trasformare questa analisi in un’ipotesi di lavoro e verificarla nella realtà.


I comunisti possono fare in Italia solo questo oppure si può (e si deve) fare un passo avanti? E’ su questo che si dovrebbe aprire la discussione.

Certamente le sconfitte subite a partire dagli anni ’90 del secolo scorso hanno lasciato il segno e molti compagni sono cauti e, giustamente, evitano di ricorrere a formazioni partitiche virtuali che possono soddisfare solo le manie di protagonismo di qualche cattivo maestro. Ma allora domandiamoci: qual è il ruolo oggi dei comunisti italiani? Sono destinati solo a mantenere viva una tradizione storica, oppure affinchè questa tradizione abbia un’incidenza reale, devono saper coniugare il loro punto di vista col corso degli avvenimenti?

Noi siamo ovviamente per la seconda ipotesi. La condizione però è che si mettano in chiaro alcuni punti essenziali su cui una nuova prospettiva si può aprire, il primo dei quali riguarda proprio il modello delle relazioni tra comunisti, cioè la forma in cui rapportarsi per superare la sconfitta e riprendere un cammino che non sia di pura testimonianza. Scegliere di agire da comunisti comporta in primo luogo la riconquista di una legittimazione politica e di classe, evitando le autoproclamazioni, la tendenza ai cenacoli e i richiami all’unità generica che lasciano il tempo che trovano e semmai servono spesso non a unire ma a dividere. I comunisti oggi non devono unirsi ‘a prescindere’, ma impegnarsi in una discussione e in un lavoro su come affrontare la situazione e quale ruolo svolgere, con modestia e con la consapevolezza dei problemi che abbiamo di fronte.

Ma allora, domandiamoci, come possono i comunisti concepire un lavoro collettivo che abbia la capacità anche di agire politicamente? Sembra il solito dilemma dell’uovo e della gallina.

Se vogliamo capirci qualcosa, e sciogliere il dilemma, partiamo dai fatti storici di questi decenni i quali ci dicono che il fallimento della rifondazione comunista promossa da Cossutta e Bertinotti è stata la conferma che senza un pensiero scientifico e una strategia non si va da nessuna parte. Non solo, ma questo fallimento ha dimostrato che, dopo la fase emotiva della Bolognina, quella che è rimasta sul campo non era la tradizione comunista ereditata dal PCI, il suo storico radicamento di classe e la sua migliore elaborazione teorica, bensì una miscela di nuova sinistra, di trotskismo e di movimentismo, che ha galleggiato finchè i risultati elettorali ne hanno giustificato l’esistenza. Questa responsabilità non si può però attribuire solo ai comunisti dell’ultimo momento, perchè le difficoltà avevano carattere oggettivo in rapporto alla degenerazione più che decennale che il partito comunista aveva subito e alla crisi del movimento comunista internazionale, soprattutto in Europa.

Sicchè, dopo le euforie del primo momento e il grande agitare di bandiere rosse, con i contorcimenti tattici, lo sfrenato elettoralismo, il trasformismo dei dirigenti, si è tornati inevitabilmente alle questioni di partenza. Che sono poi quelle che i comunisti italiani avrebbero dovuto porsi fin dall’inizio della liquidazione del PCI. La questione del resto non era solo italiana, come si è detto, ma riguardava anche la crisi epocale del movimento comunista internazionale, che rendeva la situazione molto più complessa e abbisognava di un’interpretazione corretta che non poteva essere improvvisata o sostituita solo da dichiarazioni di fedeltà al marxismo leninismo.

Perchè le questioni teoriche e strategiche non sono state poste allora?

In realtà perchè non erano maturate effettivamente tra coloro che si riproponevano di dare continuità al movimento comunista in Italia, i quali si riducevano di fatto a porre la questione in termini sostanzialmente nominalistici. 

E’ a questo punto che la situazione dei comunisti in Italia si è avvitata su se stessa e ha continuato a produrre solo caricature di riorganizzazioni partitiche.

Se vogliamo perciò fare passi avanti dobbiamo rompere con questa tradizione e ricongiungerci a un pensiero e un metodo comunista che affrontino i nodi sostanziali, che riassumiamo sinteticamente in tre punti che sono altrettante domande a cui bisognerebbe rispondere:

1) a quale tradizione deve connettersi la riorganizzazione del movimento comunista in Italia e con quale interpretazione della crisi che esso ha attraversato?

2) in che modo va impostato il rapporto tra il pensiero comunista italiano e quello della sinistra alternativa e dei ‘comunismi’ esistenti oggi in Italia? 

3) quali nodi devono sciogliere i comunisti per poter svolgere di nuovo un ruolo politico effettivo e non di pura testimonianza?

Se invece di preoccuparci dunque di ricostituire qui e subito improbabili partiti comunisti – magari nell’illusione di appropriarsi furbescamente di un’eredità che i fatti hanno dimostrato ormai dispersa – avessimo lavorato nella direzione giusta, forse saremmo adesso a un punto più avanzato. Ma questo lavoro non è stato fatto e la sua necessità si ripropone oggi interamente per chi voglia ritentare la risalita e uscire dall’irrilevanza.

Eppure, aldilà della negatività di queste esperienze, i comunisti in Italia esistono. Nonostante le sconfitte e le appropriazioni indebite, esiste un pensiero comunista variamente articolato e diffuso, ed esiste soprattutto la necessità oggettiva che nelle contraddizioni che si stanno evidenziando in Italia e nel mondo ci sia un pensiero comunista che le sappia esprimere nel modo giusto. Soprattutto, seppure non esiste oggi un’organizzazione comunista degna di questo nome, esiste invece la necessità che il punto di vista comunista e il metodo comunista riemergano come forza viva dentro le contraddizioni sociali e politiche e siano capaci di orientare lo scontro

E’ da questo uovo che potrà nascere la gallina, sciogliendo le contraddizioni che sinora si sono presentate? Su questo non possiamo certo essere categorici però, riferendoci alle tre questioni che sopra abbiamo delineato, si possono enucleare i punti di partenza di un lavoro collegiale che vada nella direzione giustae ci faccia fare dei passi avanti e contestualmente ci faccia crescere e insieme unire.

Partiamo dalla tradizione comunista. Quando in Italia si è posta drammaticamente la questione comunista dopo lo scioglimeno del PCI, in nome di un generico massimalismo (e antirevisionismo) si è gettato, come si suol dire, il bambino con l’acqua sporca. Invece di indagare sulle questioni che hanno reso il PCI il più grande partito comunista dell’occidente e su come si è arrivati invece alla sua crisi terminale, si è parlato solo di un PCI sostanzialmente irriconoscibile che andava verso la dissoluzione stretto dalle contraddizioni sorte dopo il 1956 e dalla controrivoluzione interna che esse avevano generato.

Questo modo di procedere ha legittimato successivamente un pensiero politico che con la storia dei comunisti italiani e del loro rapporto con la società e con le masse popolari aveva ben poco a che fare. L’opportunismo e il capitolazionismo degli epigoni non poteva e non doveva invece annullare la memoria dei passaggi storici e dell’elaborazione politica di un partito comunista che, è bene ricordare, aveva avuto dal 1926 (e non dal 1944!) la direzione di Togliatti.

Invece a queste cose si è sostituito il concetto di una rifondazione, variamente interpretata, che non definiva concretamente gli obiettivi storici e strategici della riorganizzazione comunista. Il risultato è stato l’irrilevanza politica dei neocomunisti e questo ha pesato ovviamente molto nello sviluppo delle vicende italiane. Non dimentichiamoci che quando si parla dei comunisti italiani si fa riferimento a fatti epocali come la lotta antifascista, la Resistenza, la fondazione della Repubblica, la Costituzione e di un partito di massa con milioni di iscritti e di elettori che aveva fatto fronte a un attacco reazionario durissimo a partire dal 1948 riconfermando una vasta presenza comunista in Italia.

Il secondo punto su cui discutere per una possibile ripresa di una cultura e di un’influenza politica riguarda la necessità di fare i conti con una subcultura che si definisce comunista e col radicalismo movimentista che tiene la scena da decenni. Su questo bisogna sciogliere gli equivoci in cui la discussione si è impantanata in questi anni.

La crisi del PCI, oltre a provocare la scomparsa di un partito di classe con un peso enorme nel paese, ha provocato anche la distruzione di una ragione politica che aveva permesso di sviluppare le lotte politiche collegandole a una visione generale della situazione, tanto a livello internazionale che in politica interna. Tutto questo è scomparso dalle vicende italiane e quello che è rimasto sono esperienze identitarie irrilevanti e un trotsko-movimentismo che spesso sconfina con gli arancioni sorosiani.

Questo è avvenuto a partire dalle questioni relative alla politica internazionale che è stato il banco di prova (negativo) di parecchi comunisti ‘rifondati’. Ricordiamoci che la crisi del movimento comunista ha coinciso, e non poteva essere altrimenti, con il rilancio dell’iniziativa imperialista e della ‘guerra infinita’. E qui abbiamo dovuto assistere ai tentennamenti, ai né…né sulla Jugoslavia, sull’Iraq, sull’Afganistan, e via via sulla Libia e la Siria da parte di una sinistra che accettava la demonizzazione degli obiettivi nel mirino degli imperialisti.

La linea concreta con cui si andava dipanando lo scontro imperialista scatenato dall’occidente capitalistico dopo il crollo dell’URSS e l’opposizione dei popoli aggrediti, l’emergere di Russia e Cina come forti antagonisti del fronte imperialista e causa della sua attuale crisi, sono rimasti sostanzialmente estranei a quella sinistra radicale italiana che, nei fatti, andava configurandosi come una sinistra che subiva l’influenza delle posizioni geopolitiche dell’imperialismo, al punto da portare alla ribalta e sostenere i mercenari curdi in Siria armati dagli americani.

Alla prova dei fatti l’area comunista, quella che si presume condivida l’analisi leninista sull’imperialismo, si è dimostrata incapace di affrontare in modo unitario e determinato il lavoro politico su questo aspetto decisivo che deve caratterizzare i comunisti e la loro possibilità di ripresa nella fase storica attuale. Certo, ci sono siti web, come Marx XXI, il centro Verità e Giustizia di Torino, l’Antidiplomatico e alcuni altri che conducono un’informazione corretta sugli avvenimenti internazionali, ma dietro questo non si é sentita una vera spinta dei comunisti che rimangono impegnati a fare un lavoro di nicchia o di costruzione di partiti virtuali. Ciò che è mancato, insomma, è un ampio lavoro di massa che sull’imperialismo e la sua dinamica reale ricreasse l’ossatura di una ripresa concreta delle posizioni leniniste e marcasse su questo terreno la presenza comunista in Italia.

Soprattutto non si é fatta la grande battaglia contro la sinistra imperialista che è ai confini tra il trotskismo e le tendenze arancioni del movimentismo e che è un freno pesante che impedisce una vera lotta antimperialista nel nostro paese. 

La la terza questione che va posta riguarda il rapporto tra ipotesi di ripresa comunista e situazione italiana. La questione è stata affrontata, a nostro avviso, in questi anni in maniera identitaria e soprattutto non dialettica rispetto ai compiti concreti.

Come si deve porre invece la questione dal nostro punto di vista? 

Riorganizzarsi significa innanzitutto capire come collocarsi rispetto alle contraddizioni sociali (e politiche) e saperle agganciare in un progetto di trasformazione dell’esistente. Senza questa capacità di analisi e di applicazione di un metodo comunista di azione (che non è mera propaganda, ma tattica) non si può fare nessun passo avanti. Un partito dei comunisti non si ricostruisce assemblando i cocci dei fallimenti precedenti, né si realizza in astratto, ma capendo i passaggi storici e indicando, non agli addetti ai lavori, ma a milioni di persone, il percorso concreto da seguire.

Quando abbiamo richiamato, su questo, la tradizione del PCI come base per una cultura delle trasformazioni sociali non l’abbiamo fatto a caso o tanto per esaltare il passato ma per far capire, sulla base dell’esperienza storica, come i comunisti italiani sono riusciti a diventare un grande partito.

Prendiamo, ad esempio, tre importanti fatti storici: il delitto Matteotti e l’Aventino, la svolta di Salerno e come è stata impostata la resistenza all’attacco reazionario scatenato nel 1948 dalla DC e che è naufragato con la sconfitta della legge truffa nel 1953. Se analizziamo questi passaggi storici si vedrà che il PCI ha messo al centro della sua strategia le questioni reali che emergevano in quelle circostanze e ha saputo dare la giusta direzione al suo lavoro politico. Per far questo però il PCI ha dovuto sbarazzarsi del bordighismo (Aventino), impedire che dopo il crollo del fascismo il partito diventasse solo un centro di propaganda comunista e basta (Salerno), fare fronte senza avventurismo all’attacco reazionario scatenato dalla DC, dal Vaticano e dagli USA, valutando opportunamente i rapporti di forza.

Lo sconquasso degli anni ’60 del secolo scorso ha interrotto la continuità di questa linea politica. Confrontandoci oggi tra comunisti bisogna saper riannodare le fila di un discorso che viene da lontano e si propone di andare lontano.

In che modo si può fare un’operazione di questo tipo?

Noi indichiamo due questioni sulle quali dovremmo provare a riconquistare l’egemonia comunista nella situazione italiana e su cui si deve riaprire il confronto tra coloro che vivono la contraddizione di essere comunisti ma insieme impotenti, in mancanza di strumenti idonei, ad agire politicamente.

In primo luogo una visione leninista dell’azione dell’imperialismo in questa fase storica, sottraendola alle suggestioni trotsko-movimentiste e sorosiane.

In secondo luogo, avere una capacità di interagire con la situazione politica nazionale dove, ad opera dei 5 Stelle, si è aperta una crepa nella linea liberista dentro cui vanno consolidati alcuni risultati e portata avanti con coerenza la lotta contro le forze che vogliono riportare indietro le cose.

Se, come comunisti, discutessimo di queste cose e riuscissimo a capire le forme e i modi per portarle avanti, usciremmo finalmente dalle nicchie ed eviteremmo anche che qualche compagno si faccia attrarre, in mancanza di alternative, dalle sirene dei cattivi maestri che tentano, per qualche voto, di raschiare il fondo del barile.