di Aginform
Il compagno Maringiò, col suo articolo su Marx XXI, (Il centenario è l’occasione per riflettere – solo così si può riprendere il cammino) ha finalmente fatto uscire il centenario della fondazione del PCI (PCd’I) dalla retorica celebrativa per riportarlo sul terreno delle questioni che coloro che in Italia si considerano comunisti dovrebbero affrontare da tempo. Su questo abbiamo sempre sollecitato Marx XXI a svolgere una funzione di raccordo della discussione che, a scanso di equivoci, non riguarda in particolare ministrutture che pensano per autoproclamazione di aver raggiunto l’obiettivo di fondare un improbabile partito dei comunisti italiani, bensì quelle migliaia di compagni che, nonostante tutte le vicende di questi decenni, ritengono ancora di essere comunisti. Questi compagni aspettano da almeno un trentennio che si vada al fondo delle questioni e non solo si esca dalla retorica celebrativa, ma anche si evitino le appropriazioni indebite e gli equivoci.
Per inquadrare i problemi che abbiamo di fronte bisogna necessariamente partire dalle vicende del movimento comunista internazionale, che sono alla base della crisi del PCI. Se non facciamo questo rimane inspiegabile come un partito comunista come quello italiano, diretto da figure del calibro di Gramsci e di Togliatti e che aveva milioni di iscritti e di voti rappresentando la parte essenziale dei lavoratori italiani e del popolo progressista potesse essere messo in liquidazione da un personaggio come Occhetto.
Dalle vicende internazionali bisogna partire per capire i meccanismi che si sono messi in moto nel PCI portandolo alla dissoluzione. Questo deve essere chiaro a tutti i compagni che ancora si interrogano su quello che è accaduto e cercano una via d’uscita. Dopo il XX congresso del PCUS, il PCI è stato costretto ad affrontare le questioni poste da Kruscev e a prendere posizione. Anche se Togliatti, come è dato sapere, non gradì la volgarità del linguaggio kruscioviano, ne accettò sostanzialmente le tesi proponendole come linea da seguire, scambiando l’apertura di una fase controrivoluzionaria in URSS e nei paesi socialisti dell’Europa orientale per rinnovamento del socialismo. Quella scelta produceva necessariamente conseguenze interne al partito comunista italiano, mettendo in moto un processo di mutazione genetica sotto la pressione della borghesia e dei suoi strumenti culturali affinati nel lavoro di disgregazione ideologica e dell’immagine storica delle forze comuniste. Certamente quest’opera di distruzione della ragione non si è compiuta in poco tempo, dal 1956 alla Bolognina sono passati ben 35 anni, ma il lavorio interno al PCI per la sua mutazione genetica si è manifestato in molti modi fino ad arrivare alle conclusioni che conosciamo.
Dire questo non significa accettare la vulgata trotsko-emmellista di un Togliatti traditore, magari da contrapporre a un Gramsci rivoluzionario, ma capire da che cosa è nato un processo degenerativo che ha poi finito per travolgere anche i protagonisti delle varie svolte interne al partito comunista consegnando a Occhetto la possibilità di proporne lo scioglimento.
Sul concetto di controrivoluzione e sul punto di partenza della trasformazione genetica del partito comunista, coloro che si considerano comunisti devono avere le idee chiare. Si tratta di un passaggio essenziale per chi si ripropone di riorganizzare una forza comunista. Questo però non significa andare in giro con le icone di Stalin e cancellare la memoria storica del PCI, come sembra sia avvenuto tra i ricostruttori di esperienze partitiche ambigue. Per fare un esempio, il sito ‘Resistenze’ ha pubblicato un documento del KKE greco sulle vicende storiche del movimento comunista in cui si sostiene che la politica dell’Unione Sovietica nel periodo di Stalin, era basata in sostanza sulla subordinazione dei vari partiti comunisti. Una tesi chiaramente trotskista che viene contrabbandata in settori di compagni che pure si richiamano ad una comune storia che fa della difesa del patrimonio dell’esperienza comunista un suo cardine. Come si vede dunque la confusione è grande sotto il cielo e c’è chi invece di discutere inserisce elementi di identitarismo a prescindere che portano fuori strada.
Passando alle questioni interne italiane riteniamo che per parlare di riorganizzazione dei comunisti e dei problemi che un progetto di questo genere comporta dobbiamo analizzare le questioni legate alla dissoluzione del PCI e di quello che da questa dissoluzione è scaturito. C’è un dato oggettivo, da questo punto di vista, che va preliminarmente esaminato: alla dissoluzione del PCI non ha corrisposto la formazione di un partito comunista che raccogliesse la migliore tradizione dei comunisti italiani e il collegamento con la sua storia e con l’approccio internazionalista che ne ha contraddistinto la linea politica. Questo rappresenta il peccato di origine che dimostra che, nonostante l’esigenza di riprendere il cammino nella prospettiva del socialismo, ridando ai lavoratori e ai ceti progressisti uno strumento di difesa e un futuro, coloro che si sono appropriati dell’eredità del PCI andavano in tutt’altra direzione. Questo ha inciso ovviamente anche a livello popolare, portando discredito a ogni progetto di ripresa.
In questo contesto qualcuno ha creduto bene di rubare il pallone per andare in porta senza giocare la partita, in una miserevole pantomima fatta di illusioni elettoralistiche e di discussioni tra improvvisati generali senza esercito. Non va dimenticato peraltro che gli attori di questa recita sono il residuo della vicenda fallimentare, e sostanzialmente anticomunista, di Rifondazione e di esperienze parallele basate sulla partecipazione al governo D’Alema che bombardava la Jugoslavia.
Per concludere questa breve nota, vogliamo sottolineare che oggi, invece di schierarsi nella affollata ma inerte moltitudine dei ‘livornisti’, bisogna riportare il ragionamento su questioni di sostanza storico-teorica e di ruolo programmatico, che devono essere alla base di una formazione comunista degna di questo nome. Senza riproporre ovviamente il solito alibi di chi è comunista e di chi non lo è per dividere e portare confusione. La domanda è: perchè finora non si è proceduto in questa direzione a trent’anni dalla dissoluzione del PCI? Questo la dice lunga sullo stato dell’arte.
Questa assenza di ‘comunismo’ nell’agire politico ha comportato che in questi decenni si è lasciato campo libero al movimentismo, alle tendenze troskoidi, all’anarco sindacalismo e sopratutto non ha portato coloro che si definiscono comunisti ad essere interni ai conflitti politici e di classe che in questi decenni pure si sono manifestati con grande evidenza.
Dunque, facciamola finita con le caricature di partito e con la costruzione di nicchie che non producono azione politica e riorganizzazione di classe, ma perpetuano solo un metodo che non ci fa fare un passo avanti.
Se vogliamo sintetizzare le questioni sul tappeto in una parola d’ordine dobbiamo indicare, a nostro parere, l’obiettivo di un’assemblea permanente di quei comunisti che si riconoscono nella tradizione iniziata con la Rivoluzione d’ottobre e con l’esperienza di Stalin e della storia migliore del PCI, dando a questo un significato non agiografico, ma scientificamente motivato e aprire un capitolo nuovo. Si tratta di una proposta che era già stata fatta, ma fu poi lasciata cadere per far posto a nuove autoproclamazioni partitiche. Bisogna invece lasciare da parte le appropriazioni indebite e avere coscienza dei limiti di ciascuno e dei compiti che spettano ai comunisti per costruire strumenti adeguati e uscire dalla retorica.