Testo di Amar Bellal in preparazione del prossimo Congresso del PCF
da lepcf.fr
Traduzione di Lorenzo Battisti per marx21.it
Un tema centrale
L’industria è il cuore della produzione di ricchezza di un paese: possiamo tirare qualsiasi filo dell’attività umana, l’istruzione, il settore sanitario, i trasporti, alla fine ci sarà inevitabilmente un processo di produzione, una fabbrica, per dirla in parole semplici. Il settore dei servizi è spesso solo al servizio di un processo industriale o è strettamente dipendente da esso: senza un settore industriale forte, che si aggira intorno al 10-15%, un paese è condannato, a più o meno lungo termine, perché costretto ad importare massicciamente i prodotti che consuma, con conseguente squilibrio nella bilancia commerciale e impoverimento. Un paese che vivesse solo con un settore primario e un settore terziario non potrebbe sopravvivere a lungo. Questa deve essere una parte importante della nostra riflessione.
Una grave mancanza di cultura industriale nel partito
Tuttavia, vi è una difficoltà. La sociologia del partito è molto cambiata, soprattutto tra coloro che animano i collettivi di idee e coloro che hanno il compito di raccogliere la nostra riflessione su questo tema: molti insegnanti, compagni di scienze umane, che non sempre hanno molta esperienza in questi settori. Non si tratta qui di incolparli, naturalmente, l’autore di queste righe ne fa parte. Ma siamo d’accordo: questo spesso si traduce in una mancanza di interesse e di competenza su questi temi nel partito. Questa perdita di competenze è drammatica perché apre la strada a utopie di ogni tipo, facilmente accessibili, che danno l’impressione di fornire una cultura in questo campo a costi contenuti. Questa cultura, spesso, si limita a leggere l’ultimo libro di moda che evidenzia una visione utopica di quello che sarebbe l’industria di domani, per esempio. E quindi il fascino per le stampanti 3D, il Fablab, la società dei “tutti i produttori”, certe visioni prodhoniane dell’economia, le gravi sottovalutazioni delle sfide energetiche… Va detto che i filosofi e i sociologi, specializzati nella narrazione di certe utopie tecnologiche, non mancano di: Besnier, Rifkin, Morin, Stiegler… pseudo-visionari che hanno in comune il fatto di non capire molto le realtà industriali e il mondo della ricerca, per non essersi mai veramente sporcati le mani, e per dirla senza mezzi termini, di non avere mai lavorato e di non aver mai realizzato alcun progetto concreto. E questi sono, purtroppo, i libri dei comodini di molti leader della sinistra, che si immaginano in prima linea con questo tipo di idee.
Tuttavia, è sufficiente uno scambio con alcuni ingegneri o ricercatori di scuole di ingegneria, istituti di tecnologia, processi produttivi e ingegneria di produzione per capire che queste visioni sono soprattutto ideologiche e non si basano su nulla di veramente credibile. L’evoluzione dell’ industria e i suoi sconvolgimenti sono altrove, ciò che è incluso nel generico termine “fabbrica del futuro”, molto più difficile da cogliere, ma i cui semi sono già presenti, con conseguenze indiscutibili sulle condizioni di lavoro, quando ci si prende la briga di discutere con i dipendenti o gli attivisti sindacali del settore.
Ecco un elenco dei ” malintesi ” più frequenti in materia: un primo passo sarebbe infatti quello di destrutturare le visioni semplicistiche ed erronee della produzione e dell’industria.
Il banco del laboratorio e la grande scala
Ciò che funziona su un banco da laboratorio non funziona necessariamente su larga scala. È il caso, ad esempio, delle utopie sulla “società dell’idrogeno” e sulla produzione decentrata di energia che, secondo alcuni, ci permetterebbero di fare a meno di grandi unità produttive. La cella a combustibile esiste, l’automobile a idrogeno esiste e esiste da diversi decenni, ma se non è diffusa, non è perché vi sia un complotto contro questa tecnologia promossa dalle case automobilistiche, per esempio, ma semplicemente perché è molto costosa e inefficiente, e perché i ricercatori di tutto il mondo semplicemente non riescono a trovare una soluzione per farla funzionare diversamente. Il settore energetico è uno dei settori più favorevoli a queste visioni, che ignorano gli ordini di grandezza e lo stato reale della tecnologia a più o meno lungo termine. letto l’ultimo libro di Rifkin, non promette altro, e si immagina così un avanguardista visionario portatore di queste idee, di fronte a scienziati che, secondo lui, sono antiquati e timidi e spiegano il contrario? È molto difficile… (un’esperienza di vita vissuta).
La nostra propensione per la fantascienza e il sensazionale
Si potrebbe anche citare il delirio intorno uomo aumentato e transumanesimo. Questa è la prima cosa che mi viene in mente quando parliamo dei progressi della robotica applicata all’uomo sotto forma di protesi avanzate. Ma la stragrande maggioranza dei ricercatori di robotica in questo particolare campo sta semplicemente cercando di migliorare la vita quotidiana delle persone che hanno perso un arto e sono gravemente disabili, o stanno cercando, ad esempio, di rendere il cuore artificiale più affidabile possibile: non per creare nuove emozioni artificiali, in un delirio puerile da film di fantascienza, ma più prosaicamente per allungare la vita di migliaia di persone. E perdiamo un’intera filiera, concentrandoci sull’accessorio, aiutando a trasmettere le fantasie di alcuni filosofi che vedono arrivare la fine dell’umanità o una minaccia alla specie umana. Perché sia altrimenti sarebbe necessario frequentare davvero i ricercatori di questa disciplina ed essere sinceramente interessati ad essa, a confrontarsi con loro, anche se ciò significa scrivere libri meno sensazionali. Forse anche fare un corso di ricerca per immergersi nel mondo della ricerca e dell’industria: non c’è nessuna vergogna, e si eviterebbe di scrivere e professare falsità.
Potremmo citare decine di esempi di questo tipo in cui, anche nel PCF, si naviga tra una totale assenza di analisi e analisi completamente errate che si concentrano su aspetti periferici ma che perdono di vista l’essenziale.
Un’utopia tecnologica emblematica: il Fablab
Il futuro sarebbe del Fablab e per le associazioni di quartiere del tipo “fai da te”, il tutto sotto la copertura di un desiderio di emancipazione di tutti, finalmente liberi di produrre la maniglia frangibile della propria casa nel proprio Fablab di quartiere, piuttosto che andare a Castorama per comprarla, va da sé, un atto molto alienante, e secondo il proprio desiderio, naturalmente e per l’uso desiderato: questo per la componente “emancipazione”… Questo significherebbe la fine degli stabilimenti così come li conosciamo, la fine dei grandi centri di produzione: questo permetterà a chiunque di produrre ciò che vuole improvvisandosi ingegnere, tecnico e operaio specializzato, nel ramo che vuole, a seconda del pezzo o dell’oggetto che vuole produrre da solo, e scaricando il piano di produzione su internet su piattaforme collaborative etc (in questo caso non dovrete avere paura di sacrificare le vostre vacanze natalizie, se i freni delle vostre bici si rompono e non volete andare a Decathlon…).
È ovviamente una visione ingenua del mondo che ci circonda, perché sottovaluta l’alto livello di tecnicità degli oggetti più banali che ci circondano e i difficili problemi che i nostri ingegneri e tecnici hanno dovuto risolvere per produrre oggetti con specifiche sempre più esigenti. Sicurezza e la necessità di produrle in centinaia di migliaia di copie con lo stesso livello di qualità: non esattamente alla portata di un tuttofare domenicale, fosse anche per fare una “semplice” guarnitura da bicicletta, un portapenne o anche una pentola di yogurt… Bisogna ricordare che la divisione del lavoro è stata inventata proprio per questo, norme, professioni molto precise, che proibiscono qualsiasi utopia di questo tipo se non si accetta un declino senza precedenti della civiltà con un ritorno all’artigianato. Naturalmente, possiamo replicare che la NASA ha una stampante 3D a bordo della ISS, che la medicina produce protesi da stampanti 3D, che anche Airbus produce pezzi con questo tipo di processi, e immaginare di essere all’avanguardia vedendo lì le premesse di una nuova rivoluzione nei metodi di produzione. Ma proprio perché questi casi sono molto precisi e specifici, ha un interesse reale, è quello che noi chiamiamo “nicchie”, nulla a che vedere con uno sconvolgimento generale (figuriamoci con una “rivoluzione”). Pertanto, per la NASA, l’isolamento della ISS richiede che un pezzo, per quanto specifico, possa essere prodotto immediatamente come un servizio di intervento di emergenza a bordo: infatti, a 400 km di altitudine, le officine sono rare. In medicina, una protesi è unica, per un essere umano, egualmente unico, che la riceverà. Infine, Airbus ha i mezzi per permettersi una stampante ad altissime prestazioni, molto costosa e molto specifica per le parti che produrrà, e che sarà utilizzata solo in questo caso. Inoltre, affinché i centri Fablab siano veramente efficienti, sarebbe necessario avere macchine e stampanti 3D molto costose e potenti, specializzarsi nella produzione di alcuni oggetti precisi per ottimizzare il materiale e produrne molti, e poi che queste costosissime macchine si riuniscano nello stesso luogo con personale qualificato sapendo come controllare questi apparecchi e assemblare le parti del prodotto finito (per realizzare una sola bicicletta sarebbero necessarie decine di stampanti 3D viste le varie parti e materiali necessari). Che cosa chiameremo questi luoghi? …semplicemente fabbriche!… Torniamo così al punto di partenza e con l’interrogazione del Fablab riproponiamo il dibattito sul passaggio dall’artigianato all’era moderna dell’efficienza industriale, da tempo risolta. Ci divertiamo con un po’ di vernice di tipo alternativa ribelle/contestataria. Inutile dire che davanti a queste idee, i finanzieri stanno proprio tremando… L’illusione qui viene dal fatto che si confondono la stampante 3D del liceo del docente di tecnologia, ansioso di far realizzare “attività” agli studenti, e la stampante 3D del laboratorio PSA o Airbus, che non è altro che un’evoluzione delle macchine a controllo numerico già esistenti. Ma per comprenderlo è necessario un minimo di cultura tecnologica e un’idea dei vincoli posti da una linea di produzione. Per non confondere progresso, nicchie e rivoluzione tecnologica.
Capire il “tempo industriale”
I tempi industriali sono lunghi: utilizzare una tecnologia, sviluppare uno stampo, rendere affidabile un prodotto, dall’Airbus A380, al motore EPR, passando per il TGV, o l’ultimo motore a combustione che sarà prodotto in milioni di esemplari, sono lunghi e spesso non compatibili con certi incantesimi e impazienze espresse da ideologi che propongono di sostituire interi settori con stampi non maturi e che non vanno nemmeno oltre lo stadio del banco di laboratorio o del prototipo. Questi discorsi “di tabula rasa” hanno effetti catastrofici perché mettono sotto pressione intere industrie costantemente chiamate a giustificare la propria utilità, costrette a scusarsi per la propria esistenza, provocando così gravi crisi vocazionali (il modo migliore per uccidere un settore: inviate il segnale che non investiremo più in questo campo, svuoterete così le facoltà di ingegneria). Non c’è da meravigliarsi che le facoltà di scienze si stiano svuotando in modo così drammatico? È necessario ricordare che ci vogliono 5-6 generazioni di sforzi, di lavoro, per sviluppare un settore industriale di eccellenza in un paese, ma solo 5-10 anni per distruggerlo? Per questo motivo dobbiamo stare attenti a non fare facili discorsi di anticipazione sulla fine di questa o quella tecnologia. Non è all’avanguardia difendere sistematicamente il “nuovo” e voler sostituire ogni cosa con una nuova idea ogni 2 anni: non è serio. Diventiamo gli idioti utili del sistema perché sono questi discorsi che innescano silenziosamente la scomparsa della piccola industria che ancora resta: la favola di “Perrette et le pot au lait” viene riproposta in una versione moderna, perdendo quello che già sappiamo fare con la promessa di nuovi settori che non vedranno la luce del giorno perché non sono fattibili. E la finanza, sempre meno interessata alle fabbriche, alla redditività mediocre rispetto alla speculazione, si sta sfregando le mani.
Un’omissione frequente: il supporto materiale della “rivoluzione digitale
Questo è sintomatico di un partito che non ha più i mezzi per cogliere il cuore di profondi cambiamenti in interi settori dell’economia per mancanza di lavoratori, ma ancora più grave, per mancanza di una reale volontà di capire la posta in gioco. E’ infatti alla portata di chiunque, anche di chi non ha mai lavorato in questi settori, avere la presenza di spirito di invitare un ingegnere di questo settore a parlarci del supporto di questa rivoluzione digitale: la produzione di server, reti, fibre ottiche, componenti elettronici, senza i quali Internet e tutto il resto non esisterebbero. Un’azienda come Alcatel è già stata acquistata tre volte, forse è ora di interessarsi e capire che i “dati” e la loro elaborazione sono una dimensione essenziale, ma che i “tubi” che li trasportano e quelli che li producono sono altrettanto importanti. Nel mondo spietato del capitalismo si stanno compiendo grandi passi avanti per recuperare da questo settore brevetti e know-how di valore. In assenza di capacità/volontà di affrontare questi temi, di lavorare sinceramente e collettivamente su di essi, ci limitiamo al massimo alla riflessione di uno o due compagni, e ci accontentiamo degli aspetti periferici alla nostra portata, e lusingando ciò che già crediamo di sapere, ciò che abbiamo sentito mille volte qua e là nei media. E non nascondiamo questa propensione: queste sono le idee più compatibili con una cultura cyber-punk, vicina all’universo anarchico “hacker” della costa occidentale statunitense, che noi promuoviamo e valorizziamo, quelli che sono alla portata degli utopisti che contemplano il mondo dall’alto del loro ufficio, ma che non hanno mai realmente lavorato in questi settori.
L’economia immateriale è sempre più… materiale.
Colpisce sempre vedere persone con forti propensioni alla decrescita esporre le proprie tesi sui social network, via email, via blog, spiegando che l’economia è sempre più immateriale e che possiamo risparmiare molta energia e materie prime grazie alle nuove tecnologie.
Tuttavia, è proprio il contrario, queste tecnologie per esistere richiedono molta materia prima ed energia. Dietro le ore trascorse sui social network, c’è un consumo energetico fenomenale per far funzionare server e data center. D’altra parte, la richiesta di miniaturizzazione, paradossalmente, è un fattore aggravante dal punto di vista ambientale: ci impone di cercare materiali sempre più rari, e dietro l’aspetto “innocuo” di uno smartphone, questo accesso a Internet tascabile, ci sono tutte le miniere in Africa, in Cina, sempre più immense proprio per estinguere la nostra sete di “economia immateriale”: Internet, smartphone, schermi piatti… Certo, se un giorno avessimo l’idea di aprire queste miniere in Francia: avremmo sicuramente ZAD ovunque e milioni di internauti si mobiliterebbero per dire “no”, con strumenti quindi che richiedono massicciamente questi metalli rari: prendiamo atto di questa assurdità. Ma fintanto che le miniere non sono in Francia …
Il ” petrolio di domani ” sarà… il petrolio!
Questa è l’espressione più fastidiosa che sentiamo qua e là nei media ma anche nei nostri circoli militanti: “i dati dei computer sono il petrolio di domani”, per sensibilizzare sulle questioni relative ai “grandi dati”. È possibile affrontare un problema serio (elaborazione dati) senza dover essere sensazionali. No, il petrolio di domani rimarrà il petrolio… e per molto tempo! Infatti, come detto sopra, per mantenere in funzione tutte queste tecnologie, saranno soprattutto le materie prime e l’energia a mancare crudelmente all’umanità domani. Le guerre saranno combattute sempre più duramente per acquisire le ultime risorse petrolifere, perché questa risorsa rimarrà indispensabile in alcune applicazioni. E lo stesso vale per tutte le materie prime: tra cui un minerale comune come il rame!
La materia resta essenziale
Sì, la rivoluzione digitale ha un impatto praticamente in ogni azienda, permette un lavoro collaborativo più importante, una migliore reattività, progetti concepiti a monte con una precisione sempre più fine, i software sono sempre più ergonomici e capaci di reali capacità di calcolo. Siamo lontani dal momento in cui, 40-50 anni fa, interi team di tecnici e ingegneri degli uffici di progettazione facevano e rifacevano i calcoli a mano, e dietro di loro, controllandoli ancora una volta, e questo per settimane. Oggi questo passaggio può essere fatto in poche ore e da una sola persona, grazie ad un software dedicato. Si tratta di un progresso spettacolare, ma non deve illuderci neppure su cosa sia “digitale” e su cosa sia “l’uso della materia”, che rimane tuttavia essenziale per il valore aggiunto: condiziona addirittura l’intera catena di produzione. Prendiamo un esempio: per realizzare un reattore EPR, ci sono anni di calcolo, progettazione, test, prototipazione, con software potente, lavoro che coinvolge decine di team, migliaia di ingegneri e ricercatori, dove il digitale giocherà un ruolo davvero importante. Ma una volta realizzato il progetto, esso deve essere realizzato concretamente, implica saper versare calcestruzzo di qualità, produrre e saldare acciaio di alta qualità, sul posto garantire la qualità della realizzazione in conformità con i piani, affinare gli impianti elettromeccanici, e saper far lavorare decine di aziende contemporaneamente, effettuare tutti i controlli… e tutto questo dovrà ripetersi per decine di reattori (se ipotizziamo un rinnovo del parco nucleare in Francia), e anche su centinaia di esemplari, se puntiamo a un dispiegamento mondiale. Ci rendiamo poi conto che la parte progettuale resterà minore rispetto alla realizzazione concreta di questi esemplari (anche se la parte digitale non scompare completamente). L’esempio dell’EPR rimane valido per i grandi progetti industriali. E questo è il grosso problema in Francia: perdiamo questo “know-how” di implementazione, basta vedere i ritardi dell’EPR con un’intera generazione che deve imparare di nuovo a gestire questo tipo di lavoro, i ritardi di siti diversi e i molteplici errori e bug del settore. C’è una carenza di manodopera qualificata nel senso ampio del termine di ingegneri sul campo, il “know-how francese” è in pericolo. Questo è dovuto in parte al fatto che per molto tempo si è creduto che “tutto fosse digitale” e che fosse la posta in gioco essenziale, che fosse sufficiente avere un bel disegno tecnico sul proprio schermo in 3 D con dettagli e un’anticipazione molto avanzata di tutti i parametri, frutto di anni di studi e ricerche da parte di team di ingegneri, per illudersi che si fosse fatto il massimo. L’esempio dell’EPR rimane valido per i grandi progetti industriali. E questo è il grosso problema in Francia: perdiamo questo “know-how” di implementazione, basta vedere i ritardi dell’EPR con un’intera generazione che deve imparare di nuovo a gestire questo tipo di lavoro, i ritardi di siti diversi e i molteplici errori e bug del settore. C’è una carenza di manodopera qualificata nel senso ampio del termine di ingegneri sul campo, il “know-how francese” è in pericolo. Questo è dovuto in parte al fatto che per molto tempo si è creduto che “tutto fosse digitale” e che fosse la posta in gioco essenziale, che fosse sufficiente avere un bel disegno tecnico sul proprio schermo in 3 D con dettagli e un’anticipazione molto avanzata di tutti i parametri, frutto di anni di studi e ricerche da parte di team di ingegneri, per illudersi che si fosse fatto il massimo. No, è anche necessario che segua la realizzazione sul posto, e richiede forse abilità ancora più avanzate: la natura, il terreno, che non perdona, e che non è completamente ricostruito attraverso il software.
Il PCF deve riavvicinarsi al mondo del lavoro, lontano dalle illusioni dei tecnologi
L’industria è il grande problema, la grande sfida che il nostro paese deve affrontare.
La Francia è condannata a essere un paese punteggiato di rotatorie e centri commerciali senza fabbrica con “lavori stupidi” (posti di lavoro che si trovano in questi stessi centri commerciali)?
Dobbiamo condannare un’intera generazione a lavori assurdi e svalutanti e diventare, come prevedeva Condoleezza Rice, un grande parco divertimenti del Dysneyland per ricchi turisti di tutto il mondo?
Dobbiamo segnalare il problema della deindustrializzazione, proprio durante le analisi del giorno dopo le elezioni, per deplorare il massiccio voto per la FN nei territori periferici, quelli più duramente colpiti dalla deindustrializzazione, e dimenticarlo qualche settimana dopo, fino alle prossime elezioni?
Un partito comunista degno di questo nome deve avere questo tema come una delle sue preoccupazioni centrali, al centro del suo progetto.
Questa questione viene spesso dimenticata nei nostri testi congressuali. Una volta ogni 2-3 anni gli viene dedicata una conferenza durante un WE presso la sede del PCF, e ci lasciamo promettendo di continuare il lavoro e di dedicare lunghe campagne ad esso. Eppure non è così. Ci sono molte iniziative come quella della Commissione economica e tutto il lavoro intorno ad Alstom e ora intorno alla SNCF e alla ripresa del suo debito, con petizioni e iniziative che mettono insieme le persone: ma queste iniziative vanno moltiplicate e con risorse e sostegno politico su una scala completamente diversa.
Dobbiamo cambiare mentalità, rinunciare a facili utopie, tecnologi, e trovare la strada del dialogo con sindacalisti, professionisti, anche osare una “parola sporca”: con esperti in questi campi. E’ una strada più difficile, ma è l’unica valida se vogliamo che la sinistra, il nostro partito in particolare, riprenda forza e credibilità.