di Aginform
Bisogna mettere in chiaro, in premessa, che quando parliamo di riorganizzazione di un movimento politico legato alle possibilità e alle necessità attuali, non intendiamo un’avventura elettoralistica né una formazione che potremmo definire terzaforzista.
Riorganizzare un movimento politico che affronti, dopo la liquidazione del PCI, la questione della ripresa di un processo di trasformazione sociale e di rappresentanza dei lavoratori e delle forze popolari in Italia, dal nostro punto di vista significa partire dai dati oggettivi e dalle condizioni storiche concrete e porre problemi del tipo di quelli affrontati da Togliatti e dal PCI nel dopoguerra.
Per affrontare correttamente questo tema bisogna però sgomberare il campo dalle ritualità e dalle mistificazioni che hanno sempre accompagnato i tentativi di uscire dal tunnel in cui la liquidazione del partito comunista aveva cacciato coloro che non hanno voluto arrendersi.
Come abbiamo più volte scritto, i due poli che riteniamo negativi sono stati da un lato la decisione di rifondare ripetutamente partiti comunisti che cercavano di sfruttare, inutilmente peraltro, una presunta rendita di posizione, dall’altro la creazione di gruppi antagonisti che si attribuiscono il nome di comunista senza riferimenti storici e alimentando un romanticismo politico di tendenza anarco-movimentista. Su queste due ipotesi sono naufragati in questi decenni, come è noto, i tentativi di riorganizzazione.
Il dibattito sul motivo di questi fallimenti non si è mai aperto in quanto ci si è limitati a scambi di invettive e diatribe che non hanno però sciolto i nodi. La ragione di questo fallimento è legata soprattutto al fatto che si sono mantenute separate le due opzioni, riorganizzazione politica da una parte, cioè il partito dei principi, e movimento reale dall’altra, movimento peraltro mistificato da un’ideologia movimentista che altera valutazioni e prospettive.
Questo problema lo avevamo evidenziato già nella nostra esperienza politica degli anni ’70-’80 (quella della Organizzazione Proletaria Romana). Quell’esperienza fu travolta dalla bufera che aveva colpito il movimento comunista1, ma l’esigenza che aveva messo in primo piano rimane: non si può ricostruire una organizzazione politica senza che questa esprima in modo organico le esigenze delle classi sociali di riferimento. Nei decenni trascorsi si è rimasti invece sul terreno di un ceto politico meticcio che esprimeva, e tuttora esprime, in maniera minoritaria, la sua velleitaria radicalizzazione. Oggi le vicende storiche sono mutate, ma la questione all’ordine del giorno è rimasta.
Nel riprendere quindi il discorso mettiamo sul tavolo della discussione due questioni: le modalità con cui si è ricostruito il partito comunista dopo la caduta del fascismo, che lo hanno portato ad essere un grande partito con oltre due milioni di iscritti, e le caratteristiche della fase attuale con cui necessariamente le ipotesi di riorganizzazione vanno dialettizzate.
Se partiamo dalla prima questione, quella storica, ci imbattiamo subito nella tesi del ‘partito nuovo’, così definito da Togliatti. La proposta è dell’autunno del 1944, l’anno del ritorno di Togliatti in Italia e della formulazione della strategia di Salerno. In sostanza il segretario del partito comunista sottolinea che se bisognava indicare nel programma gli elementi di aderenza alla situazione reale, bisognava insieme cogliere gli elementi di novità sull’organizzazione per definirne il compito nella nuova situazione.
Sostiene Togliatti nel 19442:
“Tra le posizioni assunte dal nostro partito in questo nuovo periodo della nostra vita nazionale, l’affermazione di voler essere e di essere un partito nuovo è quella che ha finora ricevuto nelle discussioni e nelle polemiche, minor rilievo. Essa è invece quella che ha un significato più profondo e avrà, nello sviluppo della nostra attività politica, le manifestazioni e le conseguenze più ampie”.
Nella sostanza che cosa significava ‘partito nuovo’ per Togliatti? L’elemento più caratterizzante era rappresentato dal fatto che l’iscrizione al partito comportava solo l’accettazione del programma politico. Non un partito di quadri dunque, ma un partito di massa, il che non significava che al suo interno non ci fosse una struttura di quadri e che non funzionasse anche il centralismo democratico che erano gli elementi storici dei partiti comunisti. Si trattava però di un partito aperto, capace di intercettare quelle spinte al cambiamento che la società italiana esprimeva e che andavano politicamente indirizzate. Sulle caratteristiche del partito nuovo Togliatti insisterà molto negli anni successivi al 1944 e tutte le trasformazioni dell’apparato seguiranno quella traccia, basata sul rapporto tra sviluppo della situazione e capacità di coglierne tutti gli elementi emergenti.
Il ‘partito nuovo’ ha trovato però il suo limite – è bene ricordarlo – quando, per la trasformazione delle condizioni politiche (e anche per responsabilità dello stesso Togliatti ormai condizionato dalla crisi del movimento comunista), l’adeguamento organizzativo ha cominciato ad assorbire settori della società che erano portatori della mutazione genetica che abbiamo conosciuto. 33333Il pensiero ‘ortodosso’ ci redarguirà subito dicendo che l’esito di quella scelta era scontato ma, sempre nello scritto di Togliatti, troviamo un’affermazione che ci sembra rispondere adeguatamente alle obiezioni che vengono mosse:
“Qui è Rodi, qui salta – sembra dire alla classe operaia la voce stessa della storia. Creare un partito il quale sia capace di guidare gli operai sulla nuova strada che si apre davanti a loro e, attraverso la necessaria unità delle forze democratiche, di esercitare una funzione decisiva nella costruzione di un regime di democrazia che tenda al soddisfacimento di tutte le aspirazioni popolari, oppure rinunciare ad avere una funzione di direzione nella vita del paese. Ma questa seconda alternativa non abbiamo bisogno di ragionare a lungo per respingerla”.
Oggi abbiamo lo stesso problema. Costruire una nicchia ideologica, e continuare a trastullarci col romanticismo ‘rivoluzionario’, oppure decidersi a dar vita a una nuova organizzazione politica che raccolga le forze in campo e ne sia espressione nella lotta quotidiana per la trasformazione dei rapporti sociali.
Cerchiamo anche noi dunque, sulla base delle esperienze negative, di capire quale ‘partito nuovo’ possa aprire una diversa prospettiva tenendo presenti le nostre radici storiche e i molti nodi che si devono sciogliere. A cominciare dal principale che riguarda l’alternativa: viene prima l’uovo o la gallina? In altri termini, da dove partire per dare al nostro paese una organizzazione con livelli di massa che esprima le esigenze dei settori popolari, democratici e di classe e si assuma il compito storico di stabilire un sistema di governo basato sui principi costituzionali? Trasformare i movimenti reali in strutture organizzate con finalità politiche superando definitivamente il movimentismo e l’avanguardismo, oppure dedicarsi a una formazione che partendo dalla storia dei comunisti italiani riprenda, stavolta davvero e non solo in termini identitari, un percorso dentro le contraddizioni sociali per allargare la sua influenza?
Ove si voglia imboccare questa seconda ipotesi bisognerebbe cambiare musica sul discorso di chi dovrebbe esprimere l’identità dei comunisti. Su questo bisogna tracciare una linea di demarcazione tra chi sta nella tradizione comunista fino alla sua crisi degli anni ’60 del secolo scorso e chi ha rilanciato ipotesi ‘comuniste’ di tradizioni dogmatiche emmelliste, trotskiste, neobordighiste. Queste nuove tendenze, che dimostrano anche oggi la loro impotenza ad aprire nuove prospettive e che nei decenni precedenti hanno avuto una verifica storica inequivocabile, vanno relegate nei ghetti in cui hanno sempre vissuto.
A partire da questo bisogna mettere in chiaro che per riorganizzare una forza comunista si deve prescindere dal metodo identitario con cui ci si è mossi finora. Gruppi che si autoproclamano partiti, senza una storia che ne legittimi il ruolo e sganciati da un retroterra sociale, diventano solo nicchie manovrate da ‘segretari generali’ in vena di protagonismo e certo non aiutano la ripresa che auspichiamo.
Abbiamo bisogno invece per maturare questa ripresa di un ambito, non formale ma sostanziale, di transizione organizzata dove si ritrovino tutti quei comunisti che hanno voglia di confrontarsi e di lavorare non in modo propagandistico per un progetto comune e abbiano l’umiltà di confrontarsi e di andare alla verifica delle ipotesi.
Sul tappeto nella discussione, bisogna però anche mettere un approccio diverso sulle caratteristiche della riorganizzazione.
Se partiamo dal concetto che la questione dell’organizzazione non può essere definita in astratto, ma in rapporto dialettico con la fase storica che stiamo vivendo, dobbiamo e possiamo valutare un percorso apparentemente diverso da quello appena descritto, ma convergente in un rapporto dialettico tra coloro che provengono o condividono l’esperienza migliore dei comunisti italiani e le forze che si vogliono impegnare per un programma politico che dovrebbe costituire la base unitaria e solida di un progetto di trasformazione della società italiana sulla base della costituzione contro il sistema liberista che si afferma con forza crescente.
Per inquadrare meglio il nostro punto di vista facciamo riferimento sia all’esperienza cinese che alla situazione del movimento comunista internazionale dopo il crollo dell’URSS.
Per la Cina facciamo riferimento alla famosa battuta attribuita a Deng Xiao Ping a proposito della nuova fase di riorganizzazione dell’economia cinese dopo la rivoluzione culturale: non importa se il gatto sia bianco o nero, importante è che prenda i topi. Si può ragionare in termini analoghi parlando di come riorganizzarci nella situazione italiana?
Se ci riferiamo al modello del 1921 e dell’Internazionale Comunista è chiaro che la linea denghista è assolutamente fuori dallo scenario. Ma, se pensiamo alle modalità concrete con cui ci si possa riorganizzare in Italia dopo la liquidazione del PCI e le conseguenze che essa ha avuto sui lavoratori e le forze popolari, bisogna scegliere come effettivamente ci si debba muovere per ottenere il risultato. E il risultato consiste nel fatto che la nuova formazione politica deve avere sia una capacità di azione autonoma dentro il sistema politico italiano che la coerenza di battersi per realizzare quei principi costituzionali che possono qualificare il nostro paese come una democrazia progressiva. E’ troppo poco per raggruppare le forze e tentare una nuova esperienza che ci porti fuori dalle secche?
D’altronde il ragionamento da fare va esteso alla situazione internazionale per quanto riguarda lo stato attuale del movimento comunista. Se andiamo a considerare le cose da vicino ed evitiamo di cadere nella trappola del collegamento ideologico che ci fa falsamente immaginare che esista un movimento comunista mondiale che sta guidando i processi di trasformazione, dobbiamo renderci conto realisticamente che dopo il crollo del campo socialista la situazione si è articolata in modo diverso e impone ai comunisti che vogliono evitare la ghettizzazione di capire come mantenere un protagonismo che tenga conto della loro esperienza e della loro coerenza rivoluzionaria, ma anche di come realisticamente affrontare le situazioni concrete.
In altri termini, bisogna finalmente guardare il panorama complessivo e il suo significato evitando di rimanere chiusi in ambiti puramente ideologici in cui la maggior parte dei partiti comunisti esistenti vive riproducendo in modo cartaceo analisi che non portano a effetti pratici.
Esaminando la situazione del movimento comunista oggi dobbiamo prendere atto che i comunisti cinesi hanno scelto una prospettiva che prevede un socialismo secondo caratteristiche e tempi che con la svolta denghista procedono con passaggi del tutto diversi da quelli che storicamente hanno caratterizzato il movimento comunista. Ma la questione non sta solo nella linea scelta dai comunisti cinesi bensì nella situazione oggettiva. Oggi interi continenti e aree del mondo, in particolare il Medio Oriente, l’Africa e l’America Latina, sono percorsi da tensioni e contraddizioni profonde di cui sono principalmente responsabili l’imperialismo occidentale assieme ai suoi alleati ‘nazionali’. Dentro queste realtà lo scontro tra forze imperialiste e movimenti che tendono alla liberazione passa attraverso modalità che, nella pratica, non esprimono direttamente il modello storico che ha caratterizzato la decolonizzazione del dopoguerra. Nè, come nel caso dell’America Latina il processo politico si sta esprimendo in termini di contrapposizione frontale tra movimenti guidati dai comunisti e borghesia filo-americana, a partire dal caso più eclatante rappresentato dal Venezuela. Anche per l’Asia, a partire dal continente indiano, il livello dei rapporti di forza non è tale da ipotizzare a breve una svolta rivoluzionaria.
Quello di cui però bisogna prendere atto soprattutto è che l’elemento centrale del conflitto è diventato geopolitico e subordina anche i processi particolari di ogni singolo paese. Questo non vuol dire che le contraddizioni di classe e sociali sono sparite, ma che nella fase attuale sono condizionate dai rapporti internazionali e dalla loro evoluzione e bisogna tenerne conto per evitare derive velleitarie e capire anche in queste nuove condizioni le forme politiche in cui il conflitto si esprime.
La valutazione della nuova situazione non esclude certo l’Europa. Anche qui a partire dalla crisi del movimento comunista il modo di esistere dei comunisti è mutato completamente. I più grandi partiti comunisti europei sono crollati: il PCI si è autoliquidato, il PCF dopo una serie di giravolte ‘riformatrici’ si è ridotto ai minimi termini e la stessa sorte è toccata al partito spagnolo. Entrambi hanno dovuto rinunciare di fatto alla leadership mettendo in secondo piano proprio il ruolo dei comunisti. Fanno eccezione, in questo quadro negativo, da una parte il PCP, il partito portoghese, che mantiene con dignità e autonomia il ruolo di rappresentanza degli interessi popolari nel paese esprimendo un livello storico di opposizione e il KKE, il partito comunista greco, che ha subito una sterzata settaria e sta assumendo, anche a livello internazionale, il ruolo che fu del bordighismo e del trotskismo, una corrente di ‘sinistra’ costruita su un collegamento internazionale di minipartiti comunisti.
L’unico elemento positivo emergente è rappresentato da Partito del Lavoro del Belgio, il PTB, che si è presentato sulla scena con un nome ‘laburista’ e un’anima comunista e ha sviluppato un grande lavoro di massa che ne ha decretato il successo. Una indicazione importante alla luce della quale valutare una proposta di riorganizzazione.
Si tratta dunque, tenendo conto di questi fatti, di mettere a confronto la situazione odierna con quanto stiamo proponendo per la ricostruzione di un movimento politico in Italia. Ci sembra che tutti gli elementi convergono nel dire che dobbiamo tener presenti i dati di fatto e mettere in conto che dobbiamo marciare con nuovi paradigmi.
Le novità riguardano anche il rapporto tra organizzazione e composizione sociale della società. In che cosa consistono queste novità? Una l’abbiamo già menzionata e riguarda la crisi del movimento comunista europeo, ma a questo va aggiunto il fatto che negli ultimi decenni si è avuta una disarticolazione del tessuto operaio, dovuta alla immigrazione di manodopera e all’indebolimento sindacale dei lavoratori a causa delle politiche padronali non contrastate dalla sinistra di regime e dai sindacati consociativi. A questo c’è da aggiungere un ulteriore elemento di novità, costituito dalla crescita di movimenti elettorali che rappresentano settori sociali schiacciati dalla crisi, quindi non solo operai che, senza esperienza di lotta organizzata, diventano mine vaganti che trovano sponde anche a destra o con avventure elettorali fluide e ambigue.
Se il nostro obiettivo è la creazione di un progetto che coinvolga livelli di massa, tutto questo ci pone problemi seri di interpretazione della realtà.
L’organizzazione delle contraddizioni in un progetto politico di trasformazione sociale ci impone necessariamente un rapporto politico articolato e una sintesi che tenga conto del carattere degli interlocutori.
Il leninismo di maniera e l’idea di procedere bordighianamente con la teoria di classe contro classe non possono essere la soluzione delle questioni che abbiamo di fronte. La scelta della lotta armata contro lo stato imperialista ha avuto gli esiti che conosciamo. Il massimalismo parolaio costa meno sacrifici e offre come contropartita un protagonismo a costo zero, ma rimane sterile nei risultati.
Noi non abbiamo la soluzione in tasca, ma trovare nuove vie basate sull’esperienza storica a questo punto ci sembra una necessità.
Note:
1Si veda al riguardo “La zattera e la corrente”, Aginform, settembre 2019.
2Palmiro Togliatti, Partito nuovo, in Rinascita, anno 1 n. 4, ottobre-dicembre 1944.